Nel 2015 nessuno avrebbe scommesso un centesimo bucato sulla sopravvivenza politica (e fisica) di Bashar al Assad e sulla sconfitta dell’insurrezione islamista armata in Siria. All’inizio di quell’anno era accaduta un’altra cosa del tutto inaspettata: la capitale politica della Rivoluzione curda in Siria, Kobane, aveva resistito tra le macerie della città e aveva fermato con il sangue delle/dei sue/suoi combattenti l’avanzata dello Stato islamico. Solo qualche settimana fa, infine, a dicembre 2018, è arrivata la terza sorpresa: l’annuncio del ritiro delle truppe Usa in Siria da parte del presidente Donald Trump.
La storia spesso si rivela così sorprendente: ora si tratta di prendere atto delle conseguenze politiche delle tre sorprese e concludere un’alleanza che consenta alla Siria di andare avanti.
I rischi e gli errori
Tuttavia, la guerra non è terminata ancora. Ancora incombono molti pericoli sul popolo siriano sulle sue aspirazioni all’indipendenza e alla libertà. La Turchia di Erdogan occupa una striscia di territorio al confine settentrionale, fornisce di fatto protezione alle formazioni integraliste che controllano il governatorato di Idlib nel nord del Paese, tra le quali primeggia Hay'at Tahrir al-Sham, l’ex Al Nusra, il braccio siriano di Al Qaeda. Soprattutto Ankara ha espugnato con la violenza e il terrore dei suoi ascari integralisti la città curda di Afrin, uno dei simboli della resistenza curda in questi anni e tuttora minaccia di spingersi fino a Manbij.
L’annuncio del ritiro dei marines di Trump, sebbene diluito in quattro mesi come avrebbero rivelato dei funzionari statunitensi al New York Times e non nei trenta giorni fissati all’inizio dall’inquilino della Casa Bianca, ha consentito ai curdi, al loro Partito di sinistra Pyd, e ai loro alleati, di riparare a una delle ipoteche più pesanti che incombevano sulla loro esperienza politica: l’alleanza di fatto con l’imperialismo statunitense. Infatti, a fine dicembre le Ypg/Ypj, le milizie popolari curde si sono ritirate da Manbij facendo posto all’esercito regolare di Damasco e togliendo ogni scusa al possibile intervento armato turco.
L’alleanza militare con gli Usa che aveva portato i curdi della Rojava a consentire lo stanziamento di circa duemila marines sul loro territorio ha radici lunghe e dettate soprattutto dalla necessità di contenere l’Isis e le minacce di Erdogan. Non si può sottovalutare il fatto che mentre Kobane era assediata dai tagliagole dello Stato islamico e dalla pressione turca, furono i raid aerei statunitensi ad allentare la morsa jihadista sulla città. La necessità evidente di accogliere quell’aiuto non era ancora un cedimento all’imperialismo. Ma quello che è avvenuto in seguito, ovvero il coordinamento politico militare delle proprie forze a quelle degli Usa fino a prefigurare un’espansione del progetto politico curdo anche grazie alla potenza di fuoco degli Stati Uniti e non solo alla propria forza di attrazione politica, quello sì ha costituito un elemento di corruzione del progetto rivoluzionario e un elemento di scontro con il governo di Damasco, come segnalato da altri su questo giornale.
Ora il ritorno sui propri passi. Certo, sarebbe stato molto meglio che l’accordo venisse siglato qualche mese fa, quando entrambe le parti (Damasco e i curdi) si dicevano disponibili a trattare su una base politica che prevedesse l’unità della Siria e l’autonomia della Rojava curda. Ma tant’è…
L’esperimento politico curdo-siriano
Quel mancato accordo tra Assad e l’esperimento politico curdo che nel frattempo ha assunto il nome di Federazione democratica della Siria del nord, probabilmente ha tolto peso e credibilità alle aspirazioni di autogoverno della sinistra curda in Siria. Tuttavia è bene non dimenticare mai, soprattutto per i comunisti, la natura e le conquiste della Rojava. Si tratta, pur sempre, dell’unica esperienza nel quadro del Medio Oriente che abbia messo al centro la liberazione delle masse femminili e un’organizzazione politica interconfessionale e interetnica fondata sulla democrazia consiliare. Questi sono i motivi che dovrebbero spingere a tutelarne l’integrità e le conquiste, al di là del fatto evidente che il Pyd (e il Pkk) non siano più formazioni politiche marxiste e che la Rojava non possa essere identificata come un embrione socialista.
Socialismo di cui, peraltro, non v’è traccia nemmeno nella compagine statuale siriana nel suo complesso, a dispetto del nome del partito dominante a Damasco. Del resto, le politiche liberiste e di apertura all’occidente del presidente Assad sono state tra le cause dell’esplosione politica del 2011 e della successiva guerra civile.
I curdi hanno un evidente bisogno di protezione dalle minacce turche, ma anche Damasco ha una grande necessità di unità per ricostruire il paese e per fronteggiare le sfide dell’imperialismo israeliano e turco. Cina e Russia saranno certamente in prima fila nell’opera di ricostruzione materiale delle infrastrutture siriane, ma Damasco deve guadagnarsi un minimo di stabilità all’interno dei suoi confini. Basti pensare al fatto che più volte Israele ha approfittato della guerra civile siriana per giustificare i suoi numerosi attacchi ad obiettivi del paese confinante, fino all’episodio della metà di settembre che ha visto anche l’abbattimento di un aereo russo colpito per errore dalle forze siriane con la morte di 15 appartenenti alle forze militari di Putin.
Il ritiro e il declino americano
L’inaspettata decisione di Trump toglie dunque l’ostacolo all’accordo tra curdi e Damasco. Rimane da capire il perché della scelta dell’amministrazione statunitense, fortemente osteggiata anche al suo interno (si pensi alle pressioni esercitate in questo senso dal consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton e dal segretario di Stato Mike Pompeo). Appare evidente, infatti, che la scelta di Trump indebolirà l’influenza Usa nell’area, anche se essa non scomparirà di certo: basti menzionare la permanenza di truppe americane in Iraq e alla stessa base americana di Al Tanf in Siria nei pressi del confine iracheno dalla quale, a detta di Bolton, non ci sarà nessun ritiro.
L’effetto di rafforzamento dell’egemonia russa e dei suoi alleati come l’Iran è comunque evidente e avrà una ricaduta anche sui tradizionali partner degli Stati Uniti: Israele, le monarchie arabe reazionarie del Golfo e perfino l’instabile Turchia di Erdogan.
Non è questa la sede per approfondire il tema, ma a spiegare un fenomeno auspicato, ma non atteso, non possono essere sufficienti le stranezze caratteriali di Trump o le sue presunte o reali simpatie per la Russia. L’elemento più solido per iniziare a comprenderne le ragioni è nei costi crescenti che ha la presenza militare Usa nel mondo per un’economia che non dispone più di risorse illimitate e deve fronteggiare l’aggressività di “stati-continente” come la Cina e la Russia.
Se fosse così, lo scenario mediorientale muterà radicalmente e in quel quadro sarà importante avere una Siria unita e democratica che conservi al suo interno il meglio delle conquiste della Rivoluzione della Rojava.