L’Olanda è arrivata alle elezioni del 15 Marzo con alcuni dati economici positivi: Pil in leggera crescita, occupazione in crescita, disoccupazione di lungo termine in diminuzione. Dati positivi che, come abbiamo già rilevato su La Città Futura, si basano anche sulla capacità di far pagare la crisi ad altri paesi. Certamente questi dati non significano un’Olanda senza crisi e senza austerità.
Le elezioni
In effetti, la vera sconfitta di queste elezioni è la Grosse Koalitionen: i Popolari (VVD) scendono dal 26,6% al 21,3%, i socialdemocratici (PvdA) crollano dal 24,8% al 5,7%. Una sconfitta che sui media ha trovato poco spazio. L’estrema destra (PVV) è invece riuscita a collocarsi come secondo partito, col 13,1% (+3%). Il clamore mediatico attorno alla performance del PVV in queste elezioni appare poco giustificato. Il sistema proporzionale, in effetti, impedisce l’ascesa al potere del PVV, per cui la sua promessa di uscire dall’Unione Europea non era altro che retorica elettorale. D’altra parte, il risultato reale del PVV è stato in crescita, ma lontano dai massimi storici del partito guidato da Geert Wilders. Insomma, né tracollo né assalto al governo. Per completezza, va notato che con l’1,8% riesce a entrare in Parlamento anche il nuovo partito nazionalista Forum per la Democrazia.
È molto probabile che il risultato di queste elezioni siano una nuova Grosse Koalitionen e che sia questo il reale motivo per cui i media internazionali festeggiano. VVD e PvdA dovranno allargare il governo alle altre formazioni liberali (Democratici66) e democristiane (Appello democristiano, unione cristiana) che hanno aumentato voti e seggi.
A sinistra
L’esodo di voti dai partiti di governo è quindi andato in varie direzioni. Verso la destra radicale, verso altri partiti centristi, ma anche verso sinistra. L’ala sinistra dello spettro politico olandese è storicamente presidiata dal Partito Socialista (SP), erede della sinistra extraparlamentare olandese, cresciuto fino a diventare stabilmente una forza politica di rilievo nazionale. L’SP ha guadagnato il 9,1% dei voti, ovvero qualche decina di migliaia di voti assoluti in più rispetto al 2012 ma lo 0,6% in meno a causa dell’aumento dell’affluenza.
Il vincitore a sinistra è la GroenLinks (GL), la sinistra rossoverde erede del Partito comunista olandese, auto dissolto alla fine degli ’80. GL è riuscita a capitalizzare una parte del tracollo dei socialdemocratici ottenendo il 9,1%, + 6,8% rispetto al 2012. La differenza tra la GL e il Partito Socialista è che i rossoverdi hanno nel tempo assunto la necessità di modernizzare lo stato sociale introducendo flessibilità, alcuni leader rossoverdi si descrivono come liberali di sinistra. Il SP ha abbandonato le origini maoiste e i richiami al marxismo leninismo, restando però fortemente classista. Mentre SP è integrato a livello europeo nel gruppo della Sinistra Unitaria Europea (ma non nel Partito della sinistra europea), la GroenLinks fa parte dei Verdi.
La stabilità dell’SP e l’ascesa della GL (che ha ottenuto il miglior risultato sia in termini percentuali che assoluti) è parzialmente spiegata dall’età. I primi hanno più sostegno tra la popolazione attiva, mentre i secondi hanno guadagnato il voto di molti giovani.
Dopo le elezioni
Come rileva Solidaire, la rivista del Partito del Lavoro del Belgio, una delle caratteristiche di queste elezioni è che c’è stata una pesante punizione dei partiti dell’austerità e una generale frammentazione del sistema politico. Oltre ai partiti già nominati, sono presenti in Parlamento anche il Partito per gli Animali, il partito dei pensionati 50+, la destra religiosa del Partito Riformato, il partito anti razzista DENK.
Il prossimo governo sarà ancora una volta un governo di coalizione tra il VVD e gli altri partiti centristi, tra cui forse ancora i socialdemocratici. Rimane all’esterno una società che cerca scappatoie all’austerità che morde anche nei paesi più ricchi. Rimane anche una classe lavoratrice orfana della socialdemocrazia classica, con un sindacato che cerca faticosamente di rimettersi in sesto dopo decenni di moderazione sindacale autoimposta.