Come ribadito nel precedente articolo, e come la Brexit dimostra, l’Ue è un’istituzione che, a differenza dello Stato si presta ad una rottura o ad un abbandono, tanto di destra, come risultato della lotta inter-imperialistica, vale a dire mantenendo inalterato il dominio del modo di produzione capitalistico, quanto di sinistra, come risultato della lotta di classe dei lavoratori, vale a dire mettendo in discussione l’egemonia del capitale.
La lotta per la presa del potere, inoltre, non può avvenire nell’Ue come avviene nelle nazioni imperialistiche formalmente democratiche in quanto le istituzioni comunitarie centralizzano il comando politico in seno al Consiglio europeo, un organo formato dai rappresentanti dei capi di Stato e di governo dei singoli paesi che compongono l’Unione e non ad un Consiglio dei ministri sottoposto al parlamento europeo o direttamente ad un Presidente eletto da tutti i cittadini. Le materie di esclusiva competenza europea, poi, sono limitate al fine di incentivare la concorrenza al ribasso tra i diversi paesi membri, come limitata è la sua capacità di spesa.
Questa organizzazione genera contraddizioni tra e nei diversi livelli di governo comunitario e statale. A livello comunitario, alla contraddizione tra la più avanzata forma democratico-borghese che vige in tutti i paesi membri dell’Ue e quella, meno avanzata, che vige al livello comunitario (il c.d. deficit democratico) si aggiunge la contraddizione di uno sviluppo a geometrie variabili, vale a dire nella concessione di deroghe per determinati paesi su alcune questioni. Il risultato è un’integrazione differenziata. Nel rapporto tra l’Ue ed i singoli Stati, invece, oltre al trattamento differenziato di situazioni uguali, in base ai rapporti di forza tra i paesi, le situazioni diverse vengono trattate sulla base dell’unico punto di vista che conta, quello dei più forti. Nel rapporto tra Stati, infine, alla mancata armonizzazione di molte normative (che consente il c.d. dumping) si aggiunge il mancato trasferimento compensativo delle ricchezze appropriate da alcuni paesi (i c.d. “virtuosi”) a danno di altri (i c.d. “maiali” o “pigs”) e la mancata condivisione del maggior rischio conseguentemente sofferto da questi ultimi.
L’Ue, dunque, è caratterizzata da contraddizioni specifiche che vengono poste al servizio delle politiche mondiali di stampo anti-popolare in quanto il proletariato non è in grado di utilizzarle per indebolire il proprio nemico di classe, che quelle contraddizioni soffre e divide. Ma saper condurre battaglie entro i margini di riforma della società esistente ed ottenere maggior democrazia e solidarietà nell’Ue come esito di una dura lotta di opposizione è cosa ben diversa dalle proposte euro-riformiste di De Magistris, Varoufakis, Piketty, ecc (ma anche, seppur in misura minore degli aderenti al Patto di Lisbona), per i quali la democratizzazione e la solidarietà nell’Ue sono fine a se stesse, e quindi funzionali a stemperare la lotta rivoluzionaria e ad instaurare un diverso modello di sfruttamento del proletariato europeo (e, come inevitabile conseguenza, extra-europeo).
In altre parole, gli obiettivi dei riformisti non vanno confusi con le riforme perorate dai comunisti “che scaturiscono tatticamente dall’antitesi rivoluzionaria e trascendono come tali gli stessi obiettivi riformatori immediatamente ed esplicitamente posti dal proletariato” [1]. Gli obiettivi della lotta di classe condotta dai lavoratori, infatti, “sono anche riformatori o comunque tali per cui una qualche ‘riforma’ possa risultarne, come sintesi eteroprodotta dallo scontro delle forze in lotta. Ma il carattere di classe degli obiettivi e delle forme di lotta è tanto più importante quanto più, nelle soluzioni concrete dei problemi concreti, la similitudine di alcune rivendicazioni appaia significativa. La potenziale confusione comportata da tale similitudine giunge al punto che alcuni obiettivi perseguibili, ma non il percorso seguito per raggiungerli, possano perfino assumere ugual parvenza di quelli delineati da forze riformiste. Proprio qui si estrinseca la forza delle alleanze possibili, contingenti, momentanee e finalizzate. E si gioca la capacità di egemonia su di esse da parte dei comunisti, nella loro assolutamente autonoma determinazione di classe e a partire da essa” [1].
Il problema, dunque, è capire come intraprendere una lotta di classe che non porti all’adozione di riforme che frenino, contengano o detengano il processo rivoluzionario bensì gli diano slancio, lo favoriscano e lo rafforzino. Lo scopo di questo articolo, pertanto, è quello di analizzare il programma riformista per un’Europa più unita e più solidale, i suoi presupposti e le sue contraddizioni. Alle ricadute in termini programmatici ed elettoralistici per i comunisti sarà dedicato un articolo successivo.
Il programma euro-riformista ed i suoi presupposti
Le contraddizioni generate dall’esistenza dell’Unione Europea precedentemente richiamate costituiscono lo specifico presupposto europeo su cui si basano le rivendicazioni dei riformisti. L’altro, di carattere più generale, è costituito dalla progressiva ed inarrestabile costruzione del mercato mondiale come già delineata da Marx. L’esito dei primi esperimenti di socialismo reale e l’internazionalizzazione del capitale, infatti, ci insegnano che lo Stato-nazione, per quanto grande, rappresenta una dimensione sempre più inadeguata a rispondere alle esigenze materiali che emergono dai proletari e dai capitalisti.
I pochi paesi che ancora si rifanno al socialismo, infatti, sono sempre più in difficoltà o, come la Cina, alle prese con una necessaria espansione planetaria (one belt one road) poco o nulla basata sulla solidarietà tra i popoli o funzionale alla diffusione della lotta di classe e del socialismo. Gli Stati capitalisti, dal canto loro, non sono più sufficienti a garantire autonomamente l’uno dall’altro le condizioni per la piena valorizzazione del grande capitale, col risultato di doversi barcamenare nello svolgere la funzione di rappresentanza non solo degli interessi della borghesia nazionale ma anche di quelli della borghesia straniera di stanza nel paese.
Se, dunque, l’internazionalizzazione del capitale implica necessariamente la costruzione di un polo imperialista europeo capace di garantire alcune condizioni dell’accumulazione (ma non tutte!) non più rintracciabili unicamente all’interno del mercato nazionale, la lotta di classe condotta dal proletariato non può che essere, ancora più che in passato, internazionalista e non nazional/europeista.
Noi comunisti, infatti, sappiamo che l’articolazione mondiale e transnazionale delle filiere di produzione, diversamente partecipate dalla borghesia di ciascun paese dell’Ue, i cui rapporti reciproci per quanto stretti non sono paragonabili a quelli che intercorrono in seno alla borghesia Usa; la diversa dipendenza degli stati membri dall’ombrello della Nato; i diversi tassi di sviluppo ed il diverso grado di proletarizzazione tra i paesi membri; il venir meno della minaccia sovietica e altro ancora, rappresentano tutte condizioni che impediscono la costruzione di un’Unione europea simile agli Stati Uniti d’America e favoriscono la costruzione degli Stati Uniti del mondo, vale a dire del socialismo [2].
Gli euro-riformisti, al contrario, alla perdita di centralità delle nazioni rispondono invocando la costruzione di una federazione democratica tra gli Stati del continente - una vecchia idea anarchica (Bakunin) e della borghesia progressista e pacifista (dalla Lega della pace fino a Spinelli, passando per Kautsky) - elaborando un programma basato sulla costruzione di: “un’istituzione realmente rappresentativa, in grado di esercitare quel potere legislativo e di controllo politico mai attribuito al Parlamento europeo”; una “cittadinanza sociale europea, per riconoscere ai singoli cittadini europei, e non con la mediazione degli Stati, i diritti fondamentali (reddito, lavoro, salute, casa etc.) di cui la stessa Unione sia diretta responsabile”; un bilancio comunitario su cui far gravare “i servizi sociali europei, garantendo livelli uniformi, al greco come al tedesco” affinché “il disoccupato italiano, greco o tedesco diventi un problema europeo e non del singolo Stato”; un’imposizione fiscale in cui “le grandi imprese contribuiscano in misura maggiore delle piccole e medie imprese ed i contribuenti più abbienti paghino in misura maggiore dei contribuenti più poveri”. Stando così le cose, è chiaro che “la battaglia per fare più debito diventerà una battaglia di retroguardia. Perché sarà compito dell’Europa garantire i servizi sociali europei, con i relativi livelli uniformi”. [3]
Un vero e proprio programma di riforme social-democratico che servirebbe a contrastare il conflitto inter-imperialistico rappresentato non solo “dalla Brexit” e dai “governi antieuropeisti” e anche da quei partiti che “pretendono di essere europei, ma che in realtà continuano a considerare che il duro liberalismo e la diffusione della concorrenza a tutti (Stati, imprese, territori e individui) sono sufficienti per definire un progetto politico”. [3]
Un programma che rappresenta anche un destino manifesto: “La storia ci insegna che al formarsi di aggregati economici più ampi, segue un’aggregazione politica. (...) Storicamente, l'unità politica è quasi sempre finalizzata alla creazione di un mercato comune. Una volta però creato il mercato comune la Storia non si arresta al comando di nessuno. (...) Se l'unione inevitabilmente si forma per esigenze dei mercati, poi altrettanto inevitabilmente si democratizza e, alla fine, in un modo o nell'altro, si forma un unico corpo politico democratico, che preme per emergere (...) Tra chi oggi propone un mesto ripiegamento nazionale e chi ci vorrebbe destinati unicamente a miserevoli aggiustamenti delle politiche economiche di Bruxelles, rivendichiamo con forza la certezza del diritto e la forza della democrazia”. [3]
In attesa del regno millenario, però, la storia ci insegna ben altro. Che la c.d. “democrazia” diventa modo di governo dominante sulla base del fatto che ogni merce deve poter circolare ed essere scambiata liberamente e secondo il proprio valore. Inclusa la merce forza-lavoro, che deve ricevere quanto è necessario alla sua riproduzione. Emerge, dunque, il dominio della democrazia formale (liberale) che non sopprime il dominio di classe ma serve a nasconderlo e fluidificarlo nella nuova fase, che non è più fatta di schiavi e servi ma di salariati, costretti a vendersi al mercato perché liberati (dalla proprietà dei mezzi di lavoro e di sussistenza, non solo dagli obblighi di dipendenza personale) e dunque costretti a lavorare per un tempo che eccede quello necessario a riprodurre il loro proprio valore, che coincide col quello dei mezzi di sussistenza necessari per sé e per la propria famiglia.
E la democrazia che hanno in mente gli euro-riformisti - quella del suffragio universale e dei diritti sociali - non è meno borghese di quella liberale, in quanto è emersa come risultato di un compromesso momentaneo nella lotta mortale tra quest’ultima, assai più funzionale agli interessi del capitalismo, e la democrazia proletaria, i cui primi esperimenti si andavano affermando in giro per il mondo quale alternativa più funzionale agli interessi di strati più ampi della popolazione. Un compromesso, sia detto per inciso, valido soltanto nei paesi imperialisti visto che le lotte di liberazione nazionale nei paesi dominati, quando non hanno portato ad un allineamento al campo c.d. socialista, non sono state accompagnate dalla diminuzione degli oneri della dipendenza economica e militare né da forme di governo che non fossero militari o quantomeno liberali.
Una forma di democrazia borghese maggiormente attenta agli interessi della classe lavoratrice, dunque, è possibile solo nella misura in cui la classe lavoratrice pone il proprio nemico di classe di fronte al suo inevitabile destino storico. Se, al contrario, lo sviluppo sociale della democrazia borghese viene posto come obiettivo in sé siamo nel mero riformismo funzionale ad un diverso ancorché migliore modo di sfruttamento. E siamo condannati all’impotenza e al tradimento, come è stato ampiamente dimostrato dalla Grecia di Tsipras e Varoufakis, incapaci di convincere i loro colleghi di governo in seno al Consiglio europeo delle proprie ragioni in quanto incapaci di mobilitare le masse lavoratrici degli altri paesi, che nulla hanno preteso dai loro rispettivi governanti per andare incontro alle legittime richieste greche.
Le contraddizioni del programma riformista
Secondo gli euro-riformisti, dunque, se lo Stato non può più essere “sociale” allora c’è bisogno che lo diventi l’Ue. Peccato che lorsignori non si rendano conto (o non vogliano dar conto del fatto) che, con gli attuali tassi di accumulazione, l’aumento medio del benessere dei cittadini europei verrebbe pagato inevitabilmente dall’aumento dello sfruttamento dei lavoratori extra-europei. In altre parole, senza una crescita economica stabile e sostenuta, un’Europa più unita e solidale significa soltanto un’Europa più aggressiva sul piano internazionale. Né lorsignori danno conto che senza rapporti di forza più favorevoli alle classi subalterne non è possibile dirottare parte del plusvalore dai profitti, cui è destinato in forza delle leggi di funzionamento del modo di produzione capitalistico, al salario sociale della classe lavoratrice.
Non si tratta, dunque, di riformare i trattati (o firmarne di nuovi). “Le leggi sono espressione dei rapporti di forza, e sono fatte proprio per essere cambiate a seguito del cambiamento reale di tali rapporti di forza” [1]. Ciononostante, la politica sociale presuppone l’esistenza di uno Stato che, nel caso europeo, non esiste e non può esistere se non come compromesso reazionario ai danni della classe lavoratrice. D’altronde gli inventori del welfare state - Bismarck, Giolitti e Mussolini solo per citare i più noti - non sono stati proprio dei campioni di democrazia per come siamo abituati a concepirla oggi nei paesi imperialisti.
Dunque, anche solo per risolvere la contraddizione tra la più avanzata forma di governo democratico-borghese che vige in tutti i paesi membri dell’Ue e quella, meno avanzata, che vige al livello comunitario non basta invocare “la creazione di un Budget che verrebbe discusso e votato da un’Assemblea europea sovrana” avente “l’ultima parola” in caso di dissidi con le altre istituzioni europee [3] ma serve attaccare le contraddizioni che minano alle fondamenta l’unità delle borghesie europee e dei relativi Stati: sul piano comunitario la concessione di deroghe per determinati paesi su alcune questioni e l’adozione di una forma di integrazione differenziata; sul piano nazionale la mancata armonizzazione di molte normative chiave (in particolare fisco e lavoro) che consente il c.d. dumping, vale a dire la rincorsa ad offrire le migliori condizioni per le imprese a danno dei lavoratori, ed il mancato trasferimento compensativo delle ricchezze appropriate da alcuni paesi a danno di altri (con la mancata condivisione del maggior rischio conseguentemente sofferto da questi ultimi come necessaria conseguenza).
Su queste questioni, però, il programma euro-riformista cade in contraddizione col suo scopo dichiarato di voler creare un’Europa più unita e solidale. “Se da un lato sarebbe auspicabile che tutti i paesi dell’Unione europea aderissero senza indugio a questo programma e benché sia preferibile che i quattro maggiori paesi della zona euro (che insieme rappresentano oltre il 70 per cento del PNL e della popolazione della zona euro) lo adottino fin dall’inizio, il programma nel suo complesso è stato concepito per essere adottato e applicato da qualsiasi sottoinsieme di paesi che lo desiderino” [3]. Una tale soluzione, dunque, non solo contribuirebbe ad alimentare ancora di più le forze centrifughe ma aumenterebbe ancor di più la concorrenza tra i paesi periferici funzionale al maggior sfruttamento della forza-lavoro. Che poi “nessun altro paese possa bloccare quanti aspirino al progresso” è un’affermazione che chiunque abbia a che fare con le questioni europee sa essere talmente ridicola da non meritare neanche un commento.
Anche per quanto riguarda la contraddizione rappresentata della mancata compensazione degli squilibri tra gli Stati, gli euro-riformisti cadono in contraddizione e si pongono a destra della vulgata piccolo-borghese ben rappresentata dagli economisti e parlamentari, soprattutto in quota Lega, che vuole far risalire il problema all’adozione della moneta unica. A differenza loro, noi sappiamo che il problema nasce dallo ‘scambio ineguale’ tra capitalisti e lavoratori, coi primi che si appropriano della ricchezza generata dai secondi (e dalla natura).
A prescindere dalla moneta che viene adottata, infatti, “in regime capitalistico non è possibile un ritmo uniforme dello sviluppo economico, né delle piccole aziende, né dei singoli Stati” [2] in quanto il modo di produzione è basato sullo sfruttamento del lavoro salariato, vale a dire dell’utilizzo della forza-lavoro per un tempo che eccede quello necessario alla mera riproduzione del suo valore. Questo scambio ineguale tra classi diventa uno scambio ineguale all’interno della classe capitalistica che scambiando sulla base del tasso di profitto vede trasferire valore appropriato dai capitali a più bassa composizione organica - quelli che usano relativamente più forza-lavoro rispetto alle macchine - ai capitali a più alta composizione organica. E lo stesso, come rileva Grossmann, avviene tra paesi. E questo a prescindere dalla dimensione monopolistica e finanziaria assunta dal capitale che amplifica tali divari.
Ma all’interno di ciascuno Stato capitalista, in modo più o meno esteso, esistono meccanismi di mitigazione degli squilibri e delle relative forze centrifughe e di condivisione del rischio, che consentono di attenuare gli effetti di questa legge (e quindi disincentivare la guerra tra poveri) trasferendo parte delle maggiori ricchezze appropriate dai capitali e dalle regioni più grandi e tecnologicamente avanzate alle altre. L’Ue, al contrario, si limita a dei miseri fondi strutturali, per tanto ci si sarebbe aspettati che gli euro-riformisti proponessero qualche forma di trasferimento e condivisione del rischio. Al contrario, “la questione qui non è quella di creare una ‘Europa dei bonifici’ che tenti di prelevare denaro dai paesi ‘virtuosi’ per destinarlo a quelli che lo sono meno. Il progetto per un Trattato di Democratizzazione lo afferma esplicitamente, limitando il divario tra le spese dedotte e le entrate versate da un paese a una soglia dello 0,1% del proprio PIL” [3]. L’ennesimo pareggio di bilancio insostenibile a garantire l’unità di qualunque Stato-nazione.
Note
[1] Gianfranco Pala, La storia e la rivoluzione - il programma minimo per un socialismo possibile. Disponibile online all’indirizzo contraddizione.it
[2] Lenin, Sulla parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa. Gli Stati Uniti del mondo, “come parola d'ordine indipendente, non sarebbe forse giusta, innanzitutto perché essa coincide con il socialismo; in secondo luogo, perché potrebbe ingenerare l'opinione errata dell'impossibilità della vittoria del socialismo in un solo paese e la concezione errata dei rapporti di tale paese con gli altri”.
[3] Le citazioni sono tratte da Cesare Antetomaso e Pietro Adami “Europa e sinistra” e dal relativo manifesto politico da loro sponsorizzato e disponibile online all’indirizzo tdem.eu