Sono passate più di due settimane da quella sera dell’8 ottobre scorso quando l’anziano attivista gesuita Stan Swamy è stato prelevato dalla sua spartana abitazione alla periferia di Ranchi, nello stato del Jharkhand, e tradotto in carcere. Anche per lui un capo d'accusa pesantissimo: collusione con i maosti e terrorismo. Ma lungi dal finire archiviato nella serie degli altri arresti eccellenti simili al suo, eccolo divenire protagonista di un attivismo diffuso che sembra ridare energia ai movimenti sociali dell’India, con proteste, sit-in, catene umane dentro e fuori le università di Delhi, Kolkata, Mumbai, Bangalore, oltre a un’infinita serie di interventi, articoli, petizioni, Zoom-dibattiti e quant’altro.
L’ultimo di questi partecipati Zoom-meeting si è tenuto solo qualche giorno fa, organizzato dall’ottima Pucl (acronimo che sta per Unione popolare per le libertà civili, realtà molto importante per la società civile dell’India), e che ha visto tra gli speakers personaggi del calibro di Sashi Tharoor, figura politica oltre che scrittore molto influente all’interno del Partito del Congresso e intellettuale ben noto anche all’estero, accanto agli appelli all’amnistia del segretario generale del Partito Comunista indiano, Sitaram Yechury, e di Hemant Soren, attuale ministro in carica nello Stato del Jharkhand, e tanti altri opinion makers e attivisti di sinistra, di centro e di semplice fede umanista (non solo cattolici), tutti uniti nella denuncia di un sistema talmente repressivo da riuscire a mettere in galera persino un sacerdote ultraottantenne e sofferente di Parkinson.
Proviamo a spiegare le ragioni che hanno portato a questo arresto. Originario del Tamil Nadu, fin da piccolo molto sensibile alle sofferenze dei suoi simili, Stan Swamy è un gesuita che si è formato sui testi di Marx oltre che su quelli di Ignazio di Loyola. Da oltre trent’anni è impegnato nella difesa dei più elementari diritti, accanto alle popolazioni indigene del Jharkhand, regione un tempo fittamente coperta di foreste e “purtroppo” ricchissima di risorse minerarie, e da oltre un secolo quindi teatro del più selvaggio sfruttamento estrattivo, miniere e ancora miniere a cielo aperto e per chilometri.
Le conseguenze per l’ambiente si possono facilmente immaginare. Quelle per le popolazioni originarie (che in India sono chiamate con il termine sanscrito di adivasi) richiedono un impegno di indagine, ascolto, testimonianza (oltre che una notevole competenza in materia di diritti della terra e delle foreste) che pochi possiedono e pochissimi hanno la costanza di perseguire nel tempo, e Padre Stan era fra questi. Uno che, dopo essersi a lungo preparato – sia sul campo delle emergenze sociali che sui libri, con più di una Laurea al suo attivo (compresa una borsa di studio all’Università di Lovanio in Belgio) – era approdato nel sud del Jharkhand per vivere con gli ultimi fra gli ultimi. Ai confini con l’Odisha, e tra le più ricche di materiale ferroso di tutta l’Asia, quella regione era stata teatro fin dall’epoca del Raj britannico di epiche ribellioni; e soprattutto in questi ultimi decenni aveva subito l’impatto di un modello di sviluppo caratterizzato dal sistematico land grabbing, bestiale sfruttamento, di risorse naturale come di corpi: uomini, donne e persino bambini.
Nel tentativo di rispondere a questo mosaico di emergenze e diritti negati, Stan Swamy aveva a un certo punto creato uno “sportello diritti” nella città di Ranchi, che via via si era sviluppato in struttura di accoglienza e formazione. Vi si tenevano workshop a ciclo continuo: per l’esame dei casi più tipici o gravi, per la soluzione di quelli di “normale” amministrazione, per la valorizzazione di competenze e leadership, soprattutto tra le donne, e più in generale per contribuire alla maggiore consapevolezza dei propri diritti tra le popolazioni adivasi.
E non solo. Da qualche anno Padre Swamy stava monitorando le condizioni dei detenuti che affollano a migliaia le prigioni del Jharkhand: per la maggior parte giovani adivasi finiti dentro con l’accusa di essere “simpatizzanti dei Naxaliti”, i militanti di matrice maoista che da oltre cinquant’anni danno un bel filo da torcere a tutti i governi dell’India. Oltre a produrre più di un dossier sull’argomento, Stan Swamy si era attivato presso l’Alta Corte con un’istanza di amnistia per tutti i prigionieri (da lui considerati “politici”), vittime di condanne equivalenti all’ergastolo per il loro protrarsi nel tempo.
Un profilo personale decisamente “ostinato e contrario” (avrebbe detto Don Gallo), che già in passato aveva attirato su Stan Swamy e sulla struttura Bagaicha da lui diretta l’attenzione degli inquirenti: un paio di avvisi di comparizione, seguiti dai primi e sempre più lunghi interrogatori e poi le perquisizioni, un anno fa persino la requisizione di computer, cellulare, pennette Usb. E precisamente queste requisizioni (secondo gli agenti della Nia, l’Agenzia Investigativa Indiana) avrebbero fornito la prova di sicuri contatti e di una vera e propria collusione con una rete di chiara militanza maoista, sicuramente determinata a colpire lo Stato Indiano con una serie di azioni terroristiche. Altro non è dato sapere, perché, come più volte reiterato dal team di avvocati che stanno seguendo il caso, il tratto che accomuna tutti questi procedimenti giudiziari è lo stillicidio di “rivelazioni” sensazionaliste nella più totale vaghezza probatoria.
Due giorni prima del suo arresto, Stan Swamy aveva fatto in tempo a registrare le sue ragioni con una video-testimonianza subito diventata virale: “Il solo modo di togliermi di mezzo è rendermi complice di situazioni di cui non ho mai avuto informazione. Quello che sta succedendo a me non è un episodio isolato. Fa parte di un più ampio processo che riguarda tutto il paese. Intellettuali, avvocati, scrittori, poeti, attivisti, studenti, sindacalisti, finiscono in prigione perché hanno espresso il loro dissenso circa gli interessi che guidano le classi dominanti dell'India.”
Implicati nello stesso caso che ha motivato la detenzione di Stan Swamy, prima nella prigione di Ranchi e poi in quella di Taloja, nel Maharashtra (tra l’altro ben nota per le condizioni subumane di prigionia, con oltre 1000 detenuti ammassati in un numero limitato di celle nonostante l’emergenza Covid) ci sono infatti altri 15 ben noti protagonisti del variegato mosaico delle resistenze in India. Proviamo a elencarli tutti:
- la valorosa sindacalista/avvocato Sudha Bharadwaj, docente alla facoltà di Legge dell’Università di Delhi, da 30 anni impegnata in Chattisgarh, epicentro del più duro scontro capitale/lavoro “necessitato” dallo sviluppo minerario;
- l’avvocato/attivista e difensore dei diritti umani Surendra Gadling e l’Accademico Hany Babu, professore associato al dipartimento di Inglese dell’Università di Delhi;
- tre membri del collettivo teatrale Kabir Kala Manch, specializzati in eventi di sensibilizzazione tra i villaggi (evidentemente troppo efficaci);
- il poeta, scrittore, attivista (e dichiarato comunista) Varavara Rao, già attivo una decina di anni fa nei colloqui di pace tra ribelli maoisti e rappresentanti del governo indiano (anche lui ultraottantenne e molto malato);
- Vernon Gonsalves, ex professore universitario prima di dedicarsi a tempo pieno alla difesa dei diritti dei lavoratori del settore informale;
- l’attivista, attore, editore Sudir Dhawale, il giovane sociologo e attivista Mahesh Raut, l’insegnate di letteratura inglese Shoma Sen, attiva sul fronte dei diritti delle donne e l’attivista Rona Wilson, impegnato sul fronte dei diritti nelle carceri;
- Gautam Navlaka, personaggio molto noto in India per la sua dedizione su parecchi casi di diritti umani negati;
- Arun Ferreira, già più volte in prigione dal 2007 con i più diversi capi d’accusa, rilasciato nel 2014 per insufficienza di prove e diventato famoso con un impressionante diario di prigionia dal titolo Colours of the Cage – Colori del Gabbio;
- Anand Teltumbde, accademico di spessore, figura di riferimento per la comunità dei Dalits, 200 milioni di esseri umani che ancora oggi l’India considera intoccabili...
Tutti loro, nell’ambito delle loro attività e affiliazioni, si erano trovati a denunciare le condizioni sempre più draconiane di leggi coniate apposta per silenziare qualsiasi espressione di dissenso, come la ben nota Uapa che sta per Legge per la Prevenzione delle Attività Illegali – e illegale può essere qualsiasi cosa, che fa sì che ci vogliano anni per smantellare l’accusa.
Tutti loro sono ora dietro le sbarre per la medesima Uapa, alcuni da oltre due anni.
A tutti, in particolare agli anziani Varavara Rao e Stan Swamy, la nostra più sentita vicinanza.