Il 17 giugno si è svolto il ballottaggio delle elezioni presidenziali che ha visto l’affermazione del candidato della coalizione di destra, Grande Alleanza per la Colombia, Iván Duque con il 54% dei consensi (10,4 milioni di voti). Il candidato della coalizione di centrosinistra, Lista de la Decencia, Gustavo Petro ha ottenuto quasi il 42% delle preferenze (8 milioni di voti), non riuscendo nell’impresa storica di essere eletto presidente in uno dei paesi più di destra del continente americano. Nel primo turno, tenutosi il 27 di maggio, non si era avuta nessuna elezione, essendo necessario nel sistema colombiano ottenere più del 50% dei voti per diventare presidente. Duque aveva ricevuto il 39% delle preferenze (7,5 milioni di voti) contro il 25% di Petro (quasi 5 milioni di voi). Il terzo candidato più votato era stato il centrista Sergio Fajardo con il 23% (4,5 milioni di voti), molto più indietro invece il candidato di centrodestra Germán Vargas Lleras con poco più del 7%.
Se si osserva la biografia dei due sfidanti risalta subito la diversa storia politica. Il primo, che ha da poco superato i quarant’anni ed è un avvocato specializzatosi in ambito economico nelle università degli Stati Uniti, è considerato il títere (burattino) di Uribe; il secondo, quasi alla soglia dei sessanta, con una grande esperienza politica, ha studiato economia dopo la militanza da guerrigliero.
Petro negli anni ‘80 ha militato nel Movimento 19 Aprile (M-19), gruppo guerrigliero nazionalista con caratteri socialisti, e nel partito politico che da questo si è originato. Ha subito la prigionia e la tortura, ed è stato costretto all’esilio in Belgio. In molte occasioni ha denunciato pubblicamente il connubio politico tra narcotraffico, gruppi paramilitari e uribismo. Per queste denunce ha ricevuto diverse minacce di morte, anche verso i propri familiari. Nel 2012 è stato eletto sindaco di Bogotà, dove si è impegnato contro le disuguaglianze e la segregazione delle periferie, fino alla destituzione nel 2015 con l’accusa di malversazione e insufficienza nella gestione dei rifiuti, da cui poi è stato assolto.
Il programma di Duque è incentrato sulle liberalizzazioni e sulla semplificazione del sistema fiscale a vantaggio delle imprese e dei ceti più abbienti; avversa gli interventi dello Stato, puntando su misure concorrenziali ed efficientiste nella sanità e nell’istruzione pubblica. Petro, invece, proponeva interventi dello Stato di carattere espansivo, rendendo la sanità e l’istruzione pubblica accessibili anche ai ceti meno abbienti; inoltre prevedeva di garantire a tutti una pensione minima di 250000 pesos mensili (circa 75 euro). Entrambi affrontavano la questione del fracking, che interessa le multinazionali petrolifere, uno dei poteri forti di questo paese. Petro è fermamente contrario a questa tecnica, come allo sfruttamento intensivo delle risorse minerarie, mentre Duque è più possibilista.
Uno dei temi caldi della campagna elettorale è stato senz’altro la posizione relativa al processo di pace con la guerriglia, e in particolare con le Forze Rivoluzionarie della Colombia-Esercito Popolare (FARC-EP). Le due posizioni su questa questione sono diametralmente opposte: Petro è per portare a compimento gli accordi di pace, Duque per rimetterli in discussione. Il voto per i due candidati è stato senz’altro un secondo referendum sugli accordi di pace, dopo quello dell’ottobre del 2016 che ha visto la vittoria del no in misura molto contenuta. Voto su cui ha pesato l’atteggiamento ponziopilatesco della Chiesa Cattolica colombiana, che non si è schierata dalla parte della pace.
Il partito di Duque e di Uribe, Centro Democratico, contrario agli accordi, è risultato il primo partito alle elezioni politiche di marzo. E Uribe, il più acerrimo nemico della pace, è stato il politico più votato con oltre 850mila voti. I partiti che invece hanno portato avanti le trattative con la guerriglia, il Partito Liberale e il Partito Sociale di Unità Nazionale del presidente Santos, sono stati molto ridimensionati alle urne. In particolare quello di Santos che ha perso, rispetto alle elezioni del 2014, 7 senatori e 12 rappresentanti alla camera bassa. Buona l’affermazione del partito di centrodestra Cambio Radicale dell’ex-vicepresidente Lleras, che ha avversato gli accordi in campagna elettorale, ma ha avuto un voto più contenuto alle presidenziali rispetto al proprio partito.
La destra, che comprende le formazioni di Duque, Lleras e il Partito Conservatore, controlla 50 seggi su 102 al Senato e 83 su 166 alla Camera. Ai seggi della destra andrebbero poi addizionati i 2 rappresentanti alla camera bassa e i 3 senatori ottenuti dal partito miraista [1] di origine pentecostale, Movimento Indipendente di Rinnovazione Assoluta, che su molti punti di programma, come la difesa della famiglia tradizionale, ha delle posizioni comuni con Duque. Non a caso lo ha sostenuto all’interno della coalizione Grande Alleanza per la Colombia.
Significativo il risultato della sinistra, forse il migliore di tutta la storia repubblicana se si sommano i singoli risultati. Insieme Lista de la Decencia – una coalizione di forze politiche e sociali – con Alleanza Verde e il socialdemocratico Polo Democratico Alternativo, che però hanno sostenuto al primo turno delle presidenziali il centrista Fajardo, hanno ottenuto 13 seggi alla Camera e 19 al Senato. Tuttavia i voti sono molto al di sotto delle preferenze prese da Petro e Fajardo al primo turno (oltre 9 milioni di consensi) – e da Petro al ballottaggio – le quali possono essere solamente attribuibili allo spostamento di voti provenienti da altre forze politiche, anche perché l’astensionismo in tutte le tornate elettorali è stato di circa il 50%. D’altronde il candidato del Partito Liberale Humberto de La Calle, uno dei grandi artefici da parte governativa del processo di pace, ha preso solo il 2% delle preferenze al primo turno delle presidenziali.
Il partito nato dalle FARC-EP, Forza Alternativa Rivoluzionaria del Comune (FARC), ha avuto risultati poco soddisfacenti: lo 0,21% dei consensi alla Camera e lo 0,34% al Senato (poco più di 50mila voti). Inoltre ha dovuto ritirare dalla competizione elettorale presidenziale il proprio candidato, Rodrigo “Timochenko” Londoño, per via delle sue non buone condizioni di salute dopo un recente intervento al cuore. Nonostante ciò FARC potrà contare su 5 rappresentanti alla camera bassa e su 5 senatori in base agli accordi di pace dell’Avana. Tuttavia Duque, appena eletto, ha l’intenzione di rimettere in discussione questi accordi, forte del suo risultato e dei pessimi risultati del partito degli ex-guerriglieri. Duque ha infatti attaccato i parlamentari di FARC per la loro biografia guerrigliera, apostrofandoli come non degni di poter ricoprire incarichi alla Camera e al Senato e accusandoli di essere criminali.
Timochenko è stato contestato in diverse occasioni dai familiari delle vittime delle FARC-EP con lancio di uova e pietre. FARC è stata costretta a sospendere la propria campagna politica per le aggressioni subite e per la mancanza di protezione da parte del governo Santos. Alla mancata affermazione elettorale del movimento guerrigliero ha contribuito l’elevata astensione, la difficoltà ad andare al voto nelle zone rurali, i brogli e la campagna di persecuzioni, spesso extra-giudiziarie, contro gli ex-guerriglieri e gli attivisti delle lotte sociali, continuata anche dopo la firma degli accordi di pace. I paramilitari (insieme con i narcotrafficanti), nella sostanziale impunità, hanno intensificato l’offensiva nelle zone che prima erano sotto il controllo delle FARC-EP. Emblematico poi è il caso giudiziario di Jesús Santrich, ideologo delle FARC-EP, arrestato due mesi fa con l’accusa di traffico internazionale di droga sebbene cieco per una malattia degenerativa, sul quale pende una possibile estradizione negli Stati Uniti. Le FARC-EP hanno fatto intendere che una sua eventuale estradizione metterebbe la parola fine agli accordi di pace, e Duque potrebbe avere tutto l’interesse a giocarsi questa carta.
Gli accordi di pace non godono infatti di una buona salute essendo stati realizzati solo in piccola parte. I punti principali sono stati sostanzialmente non attuati, a partire dalla riforma agraria. Il governo Santos si è opposto alla necessaria democratizzazione della terra mediante un progetto di legge che ha, invece, aperto alle multinazionali. Le aperture, sebbene solo formali di Santos, alla riforma agraria sono state attaccate dalla destra uribista, che ha fatto della difesa dei latifondi uno dei punti della propria campagna elettorale. Il programma di Petro prevedeva la riforma agraria, e infatti Timochenko ha invitato indirettamente a votarlo al ballottaggio. Tuttavia Petro, per intercettare il voto dei moderati, aveva fatto marcia indietro sulla pratica degli espropri, rassicurando che se eletto non li avrebbe effettuati. Tale dietrofront era stato il primo punto di una simbolica incisione marmorea di 12 compromessi presidenziali, effettuata in presenza dei leader di Alleanza Verde per suggellarne l’appoggio al ballottaggio. Questa virata moderata non è stata però sufficiente a garantirsi l’appoggio di Fajardo e de La Calle, che hanno pubblicamente espresso la volontà di votare scheda bianca al ballottaggio.
L’uribismo – come evidenzia il direttore del periodico comunitario El Turbión, Alexander Gamba Trimiño – sulla narrazione semplicistica di un nemico da distruggere, ritenuto la causa di ogni problema, è riuscito a costruire la propria fortuna politica facendo cadere in secondo piano le reali cause del disagio sociale. Un rapporto della Corte Penale Internazionale ha valutato che l’80% degli oltre 200mila morti stimati del conflitto in Colombia sono dovuti ai gruppi paramilitari di destra, il 12% alla guerriglia e l’8% alle forze governative. Eppure forte è la percezione tra una fetta importante di popolazione della responsabilità della guerriglia per queste morti. È significativo ricordare che nel 2008, tramite Facebook, furono organizzate in diverse città del paese manifestazioni di circa 10 milioni di persone contro le FARC-EP [2]. Oggi più o meno quello stesso numero di persone è stato decisivo per l’affermazione elettorale di Duque. A questa percezione diffusa non si è sottratto lo stesso Petro, che in campagna elettorale è stato costretto a negare pubblicamente di aver avuto ruoli militari all’interno del M-19.
Su questa avversione verso la guerriglia un blocco sociale reazionario – che va dai latifondisti alle grandi compagnie multinazionali, passando per i paramilitari, i militari e i narcotrafficanti – ha costruito la propria egemonia su una parte della classe lavoratrice. Blocco che trova la più adatta espressione politica nella destra uribista, ma che ha ramificazione all’interno di tutto il parlamento colombiano arrivandone a controllare nel 2006 circa un terzo secondo le denunce dello stesso Petro. I paramilitari hanno espropriato con la violenza circa 7 milioni di ettari di terra ai piccoli contadini per consegnarli alle multinazionali dell’agroindustria, facendo della Colombia uno dei primi paesi al mondo per numero dei rifugiati interni. E in vent’anni sono stai uccisi da sicari circa 2500 sindacalisti, con il fine di mettere a tacere la lotte sui posti di lavoro.
Il Partito Comunista Colombiano (PCC) aveva invitato a votare Petro alle presidenziali poiché in questa fase riteneva in questa fase prioritario sconfiggere tale blocco reazionario e formare un governo unitario democratico, che collegasse il paese agli altri stati del blocco progressista latinoamericano. Tale unione e affermazione delle forze progressiste in Colombia non può che passare per gli accordi di pace con la guerriglia, per le conquiste sociali e per la ridistribuzione della ricchezza, a partire dalla riforma agraria. Pertanto il PCC ha sostenuto Petro nonostante non sia un comunista, anche se è accusato di “castrochavismo” da parte della destra uribista, che ha usato la crisi economica venezuelana coma arma di propaganda. Proprio per sottrarsi a questa accusa, evidenziando nuovamente l’egemonia reazionaria, Petro aveva inserito al secondo posto sulla lastra marmorea di non convocare un’Assemblea Costituente, con una evidente presa di distanza dal processo bolivariano.
La vittoria di Duque è il ritorno al potere, dopo la parentesi di Santos, della destra più oltranzista, quella uribista. Questa elezione mette in serio rischio gli accordi di pace con le FARC-EP e il processo negoziale con l’Esercito di Liberazione Nazionale, e potrebbe determinare un aumento delle politiche di aggressione verso i vicini non allineati ai voleri del potente alleato statunitense, a partire dal Venezuela di Maduro. Estesa e praticamente incontrollabile è la frontiera tra i due paesi, dove la Colombia potrebbe ricoprire la funzione della Turchia nel conflitto siriano. Non mancano avvisaglie in tale direzione. Nel solco delle politiche di aggressione imperialista sul continente sudamericano si inserisce la recente elevazione della Colombia a partner globale della NATO, un ulteriore passo per l’integrazione atlantica di questo paese.
I problemi reali del paese come la sempre maggiore diffusione del narcotraffico e la corruzione endemica non possono che peggiorare dopo l’elezione di un rappresentante dell’ordine reazionario costituito, che si è dato per fini elettorali un’immagine gattopardesca di nuovo. La significativa affermazione della sinistra moderata è però una base di partenza per una maggiore sedimentazione delle forze di cambiamento nel paese.
Note
[1] I miraisti sono un movimento globale nato nel 2000 in Colombia e presente in molti altri paesi americani (Argentina, Bolivia, Cile, Ecuador, Perù, Porto Rico, Stati Uniti e Venezuela), in alcuni stati europei (Finlandia, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna, Svezia e Svizzera) e in Giappone. Sono strutturati come un’organizzazione non-profit, si definiscono né di destra né di sinistra, e sostengono di non aver alcun legame né con i paramilitari né con la guerriglia. Le loro posizioni politiche sono essenzialmente di destra, in particolare sono contrari all’aborto, eutanasia e ai matrimoni tra persone dello stesso sesso, ma appoggiano anche la decriminalizzazione del consumo di droghe e le leggi contro ogni tipo di discriminazione. I vertici dell’organizzazione sono direttamente legati alla Chiesa neo-pentecostale God Ministry of Jesus Christ International (CGMJCI). I cofondatori del movimento sono Alexandra Moreno Piraquive, la figlia dei fondatori della CGMJCI, e Carlos Alberto Baena, un predicatore di questa Chiesa.
[2] Facebook. La storia: Mark Zuckerberg e la sfida di una nuova generazione, D. Kirkpatrick (2011) Hoepli.