Col possibile accordo sul nucleare tra le potenze del G5+1 e l’Iran, i “negoziati” come base per la risoluzione dei conflitti nel sistema di relazioni internazionale tornano al centro dell’azione politica. Tuttavia le tensioni non sono finite per questo nella polveriera mediorientale. Nonostante gli slogan nelle elezioni statunitensi, non c’è stata nessuna rottura della tradizione “ingerentista”.
di José Fortique
Davanti al possibile accordo (da ratificare entro il 30 giugno) tra le potenze del G5+1 e la Repubblica Islamica dell’Iran, i “negoziati” come base per la risoluzione dei conflitti nel sistema di relazioni internazionale tornano al centro dell’azione politica.
Tuttavia, le tensioni non sono finite per questo nella polveriera mediorientale, con la crisi umanitaria esplosa in Siria a cui si somma l’incertezza di governo nello Yemen. Anche perché la mobilitazione militare dell’Arabia Saudita sul territorio yemenita rende ancora più complessa la mappa dei conflitti. Appoggiandosi su una coalizione regionale col beneplacito statunitense, la petro-monarchia cerca di impedire l’avanzamento delle milizie sciite Huthi col risultato che la crisi attuale rispecchia gli scontri geopolitici in tutta la regione (vedi Iraq) tra l’arco sciita (Iran) ed il waahabismo saudita.
D’altra parte, la capacità dell’ONU di salvaguardare la protezione umanitaria in questi conflitti è paralizzata di fronte ad un atteggiamento asimmetrico nella presa delle decisioni.
Dato che la relazione centro-periferia all’interno del Consiglio di Sicurezza ha ridotto la capacità di mediazione internazionale in Asia Occidentale, si impongono le agende nazionali degli Stati/Potenze basate sulla messa in sicurezza delle aree del mondo a scapito dei concorrenti internazionali. Servano come dimostrazione, le conferenze di Ginevra I e Ginevra II sulla Siria che sono terminate con un clamoroso fallimento davanti al doppio gioco Occidentale che non ha tagliato le fonti di sostegno allo Stato Islamico privilegiando il loro interesse di contrastare la Russia e l’Iran.
Nonostante gli slogan “Yes, we can” o “Forward” nelle elezioni statunitensi (2008, 2012), che ci hanno propinato Obama come possibilità di cambiamento, non c’è stata nessuna rottura della tradizione “ingerentista”. Così, ad esempio, la permanenza delle prigioni di Guantánamo sotto la sua amministrazione rivela una ben più estesa rete di prigioni segrete senza chiara giurisdizione; allo stesso modo sono state inasprite le leggi che limitano i diritti dei cittadini statunitensi con la scusa del terrorismo e, in politica estera, l’opposizione alle sue sanzioni a paesi come la Russia raggiunge livelli di impopolarità che ricordano la Guerra Fredda.
D’altra parte, i fallimenti nell’imposizione a livello planetario del modello neoliberista (il TLC ad esempio), e la disputa con altri attori per l’egemonia globale, sembrano aprire le porte ai think tanks del realismo politico, riciclando innanzitutto la weltpolitik in conflitti come quello ucraino o con le recenti minacce contro il Venezuela.
In effetti, come interpretare i negoziati statunitensi con Cuba ed Iran? La strategia del bastone e della carota non sono nuove. Questo confine è stato percorso con intelligenza dalla diplomazia iraniana che si è impuntata immediatamente di fronte al primo tentativo di Obama di prorogare le sanzioni.
Per comprendere meglio l’ascesa alla presidenza iraniana di Hasán Rohani (2013), è importante conoscere la sua grande esperienza in politica interna e il suo ruolo chiave nei dialoghi del 2003-2005 con l’AIEA.
Bisogna aggiungere che la sua campagna elettorale si basò sulla metafora della speranza, per superare gli effetti delle sanzioni economiche che hanno frenato lo sviluppo del paese; la sua posizione moderata prevedeva un’uscita negoziata dallo stallo nella questione nucleare, nonostante il ruolo dell’Ayatollah Khamenei fosse fondamentale nelle questioni interne.
Senza dubbio, il ruolo iraniano si scontra con Israele ed Arabia Saudita, che non riconoscono il diritto all’uso ed allo sfruttamento dell’energia nucleare del loro vicino, nonostante la diplomazia iraniana per decenni l’abbia difeso come un punto centrale della propria sovranità nazionale.
In sintesi, il ruolo dell’Iran in Asia Occidentale non si riduce al valore delle sue grandi riserve di gas e petrolio, fattori chiave nella sua relazione con Europa, Cina e Russia. Dopo la caduta dello Scià il ruolo dell’Iran nelle relazioni subregionali è sopravvissuto alle tensioni col Consiglio di Cooperazione del Golfo, Egitto ed Israele.
Indubbiamente, l’approccio delle relazioni con l’Occidente indicato dal ministro Yavad Zarif rivela un posizionamento pragmatico dell’Iran, ma con cautela davanti alle interpretazioni delle potenze occidentali; di fronte ad una strada tutta da percorrere tra la caotizzazione subregionale e la transizione egemonica del disordine mondiale.
Fonte: Rebelión