Le elezioni per rinnovare il parlamento europeo previste per fine maggio 2019 si avvicinano e la discussione sul che fare incalza a sinistra. In attesa di capire come si muoverà Potere al popolo - in rotta con De Magistris che sabato 1 dicembre ha riunito a Roma il Prc, Si e diverse organizzazioni e centri sociali senza però sciogliere le riserve per le europee - ed in attesa anche di vedere che faranno i partiti comunisti di Alboresi e Rizzo, è necessario cominciare ad individuare con precisione l’oggetto della discussione.
Da troppe parti, infatti, anche a sinistra, vi è la tendenza tutt’altro che disinteressata ad addebitare all’Unione europea opportunità e vincoli che non sempre dipendono strettamente da essa se non per quel che concerne la loro applicazione. Il contenuto e l’indirizzo di molte politiche decise a Bruxelles, incluse quelle monetarie varate a Francoforte, infatti, non sono farina esclusiva del sacco europeista ma provengono da altre istituzioni internazionali e dai c.d. “serbatoi di pensiero” (think-tank) che vi sono dietro. Ciò non significa, ovviamente, che la loro declinazione risponda esclusivamente alle esigenze dettate dalla divisione internazionale del lavoro ma anche alle esigenze dettate dalla concorrenza tra paesi (e poli) imperialistici e tra cordate di monopolisti finanziari che si caratterizzano per avere assetti proprietari internazionali e trasversali ai diversi paesi. L’intenzione è quella di affrontare questo tema in due articoli: il primo (questo) servirà a tracciare un quadro delle contraddizioni maggiori che derivano dall’assetto istituzionale europeo, mentre il secondo proverà a derivarne una critica all’approccio euro-riformista.
Il primo compito dell’Ue, dunque, è quello di fornire una cornice politico-istituzionale necessaria a far penetrare nei diversi Stati in maniera armonizzata, quindi senza sostanziali differenze, le disposizioni dettate dal grande capitale transnazionale. Pertanto, la mera rimozione dell’involucro giuridico comunitario, vale a dire il recesso dai trattati senza un cambiamento sostanziale delle condizioni socio-economiche che li hanno generati, non deve essere confusa né con la rimozione dei vincoli strutturali (socio-economici) che impediscono la realizzazione di politiche realmente popolari né con la rimozione di tutta la sovrastruttura che di tali vincoli rappresenta la cornice giuridico-istituzionale. Pena la sopravvalutazione della lotta alle istituzioni europee rispetto a quelle nazionali.
In altre parole, se l’Ue smettesse di essere funzionale agli interessi capitalistici in Italia o se, detto altrimenti, si realizzasse un’uscita da destra (che coinvolgendo un paese della zona euro importante come il nostro comporterebbe la deflagrazione stessa del progetto comunitario per come lo conosciamo oggi) non verrebbe meno il vincolo principale che impedisce l’attuazione delle principali politiche a favore delle classi subalterne in quanto sono le leggi capitalistiche, non i trattati comunitari, a determinarne l’impraticabilità. Certo, siffatto scenario non sarebbe privo di interesse in un’ottica rivoluzionaria, ma per approfittare delle condizioni determinanti la rottura dell’Ue e da questa a loro volta determinate, c’è bisogno di un’organizzazione dei lavoratori degna di questo nome - che al momento latita.
L’Ue, inoltre, non è uno stato federale nel quale i comunisti possono impegnarsi per la presa del potere a differenza di quanto avviene ad esempio negli Usa o nei singoli paesi europei. Il potere decisionale e di indirizzo politico, infatti, appartiene ai rappresentanti di stato e di governo nazionali (che tutti insieme formano il consiglio europeo) e ai relativi ministri (consiglio dell’unione europea) in particolare quelli dell’economia e finanza (l’ecofin). Sono i rappresentanti governativi degli stati, infine, a firmare i trattati, a nominare i membri della commissione europea e ad avere l’ultima parola su qualunque direttiva, regolamento o decisione. Pertanto, la presa del potere, necessaria per abbattere da sinistra l’impalcatura istituzionale europea, non può che avvenire su scala nazionale e non direttamente su scala comunitaria. Questo è importante da tenere in mente in quanto se da un lato la fattibilità della transizione al socialismo è determinata dall’esistenza di condizioni oggettive cui la coscienza deve aggrapparsi per velocizzarne la trasformazione, dall’altro tale coscienza può cominciare la propria opera trasformatrice soltanto dopo la presa del potere politico. Non che prima non si possa o non si debba far nulla, ovviamente, purché si tenga presente la questione e si eviti di sottrarre alla Caritas ciò che è della Caritas.
Pertanto, la critica all’Ue non può limitarsi né sovrapporsi alla critica del capitalismo in quanto modo di produzione o allo stato in quanto strumento di repressione e sfruttamento ma deve saper cogliere gli elementi specifici di tale costruzione politico-economica in modo da evidenziarne con precisione le contraddizioni interne e quelle che genera con e tra gli stati. In altre parole, ciò che differenzia l’Ue dagli stati imperialisti dominanti (federali o meno) e dalle relative organizzazioni internazionali (Bm, Fmi, Ocse, Wto, ecc) non è il merito delle politiche adottate, ovviamente di stampo antioperaio - come imposto in tutti i paesi dalla fase capitalistica di crisi da sovrapproduzione e riduzione dei tassi di profitto, indipendentemente dalla loro coordinate di latitudine e longitudine - ma la creazione di un contesto le cui contraddizioni interne sono poste al servizio di tali politiche.
In assoluta coerenza con il progetto di costituzione europea bocciato dai referendum francese e olandese nel 2005 - tanto che, stando Wikipedia, Valéry Giscard d'Estaing (presidente dell’organo che scrisse la costituzione europea) ebbe a dichiarare che le differenze tra i testi della costituzione europea e del trattato di Lisbona che ne ha preso il posto sono solo cosmetiche mentre il think-tank euro-scettico Open Europe ha rivelato che il trattato di Lisbona è per il 96% identico alla defunta costituzione europea - all’armonizzazione delle diverse disposizioni nazionali, che vengono dunque uniformate, l’Ue affianca il loro coordinamento, che presuppone differenze tra i paesi che devono persistere. Armonizzazione e coordinamento, poi, che intervengono soltanto su alcune questioni e non altre, che quindi rimangono di esclusiva competenza degli stati. Il risultato, ovviamente, è quello di scaricare sul mondo del lavoro (e l’ambiente) e sui più bassi livelli di governo (nazionali, regionali e locali) le contraddizioni ed i costi generati dall’unificazione.
Le contraddizioni generate dall’esistenza dell’Ue, dunque, non sono solo quelle che si generano nel rapporto istituzionale tra il piano comunitario ed il piano nazionale ma anche quelle che coinvolgono il rapporto tra le classi sociali in quanto tali (dunque indipendentemente dalla loro articolazione nazionale) e quelle che si generano nel rapporto reciproco tra i diversi stati membri.
Per quanto riguarda le contraddizioni del piano comunitario, non si tratta unicamente del famoso e molto discusso deficit di democraticità delle istituzioni europee - non dico rispetto ad una sua applicazione sostanziale, possibile solo in uno stato proletario, ma a quanto viviamo in tutte le democrazie borghesi dei paesi imperialisti - deficit che facilita enormemente il dominio delle classi dominanti, ma anche del deficit di democrazia in seno a queste ultime. Data la penetrazione transnazionale dei capitali, infatti, non tutte le sue fazioni sono interessate a costituire un blocco europeo stabile, omogeneo e capace di egemonia internazionale sul modello degli Stati Uniti, avendo il mercato mondiale quale più adeguato campo di gioco (e di scontro). Le borghesie delle diverse nazioni europee, infatti, pur avendo un rapporto particolarmente stretto, non si percepiscono come la borghesia statunitense percepisce se stessa in quanto i rapporti intra-europei sono per molti versi ancora rapporti propriamente internazionali e non federali, come invece accade negli Usa, e quelli extra-europei fortemente disomogenei a seconda dei paesi e dei settori.
Sul piano comunitario, dunque, l’assenza di democrazia interna alla classe dominante si manifesta nella concessione di deroghe per determinati paesi su alcune questioni e nell’adozione di una forma di integrazione differenziata, che consente agli stati membri che intendano perseguire determinate politiche comuni di procedere anche indipendentemente dagli altri. Il che consente una più funzionale segmentazione del mercato interno. Sul piano delle relazioni esterne, invece, le contraddizioni interne emergono con tutta la loro forza nei rapporti bilaterali con gli altri grandi blocchi Usa, Cina e Russia, con l’Ue che si troverà sempre più in difficoltà nel progressivo inasprimento delle reciproche relazioni internazionali tra le grandi potenze dal momento che le borghesie dei diversi stati membri hanno relazioni extra-europee che, senza una guerra, rimangono difficilmente omogeneizzabili nonostante la Brexit.
Per quanto riguarda invece le contraddizioni tra gli organi comunitari e quelli statali - che ogni paese sperimenta sempre su più piccola scala per tutti i trattati internazionali che sottoscrive, essendo questi enormemente meno pervasivi dei trattati che istituiscono l’Ue - l’assenza di democrazia interna alla classe dominante si risolve trattando in maniera diversa situazioni uguali. In un momento in cui si discute di possibili condanne dell’Italia per lo sforamento dei parametri del deficit strutturale, è fin troppo facile ricordare il caso della Francia e della Germania che nel 2003 si videro contestate lo sforamento del famoso 3% dalla commissione europea senza però subire l’avvio di alcuna procedura di infrazione grazie al voto contrario dell’ecofin. In altri casi, invece, il consiglio ha avviato la procedura tirandola poi per le lunghe, come nel caso della Francia la cui procedura è stata aperta nel 2009 ed il termine della decisione prorogato tre volte fino al troppo scontato lieto fine arrivato a giugno di quest’anno. In ogni caso, nessuna delle 38 procedure avviate si è mai conclusa con le previste sanzioni. Ciò a riprova dell’esistenza di un microcosmo giornaliero in cui tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.
Alla palese violazione delle regole l’Ue affianca anche una loro applicazione variabile. In teoria non dovrebbe esserci miglior diritto di quello diseguale, capace cioè di tener presente tutte le diverse condizioni dei soggetti su cui è chiamato ad applicarsi. Ed il dibattito sul deficit eccessivo che coinvolge l’attuale governo gialloverde è figlio di questa impostazione. Nello specifico, per ogni paese è calcolato un livello di deficit compatibile con l’ottenimento del pareggio di bilancio strutturale nel c.d. “medio periodo” per cui a diverse condizioni corrisponde un diverso cammino verso l’obiettivo. La particolarità dell’Ue, però, è che gli obblighi di ciascuno stato sono calcolati tenendo presenti solo alcuni parametri e quelli presi in considerazione sono visti solo in una determinata ottica. Così, ad esempio ma senza entrare troppo nel tecnico, sono più penalizzati in termini di possibilità di spesa pubblica i paesi che, a parità di altre condizioni, hanno tendenzialmente tassi di disoccupazione più alti degli altri e una popolazione con minor tasso di partecipazione al mercato del lavoro. Un bel risultato, non c’è che dire!
Le contraddizioni, infine, che l’adesione all’UE genera tra i diversi stati membri hanno a che fare con la scientifica scelta dei temi da lasciare di competenza esclusiva statale. La mancata armonizzazione della normativa fiscale e del lavoro, solo per citare due questioni macroscopiche, comporta la rincorsa di ciascun paese membro ad offrire le miglior condizioni di sfruttamento e di valorizzazione, a danno ovviamente delle classi popolari. La tanto sbandierata creazione del mercato unico, dunque, non è altro che una colossale menzogna dal momento che la segmentazione e frammentazione su temi cruciali come quelli citati (e molti altri) è funzionale al dominio del grande capitale transnazionale che può articolare la propria presenza nei diversi territori in competizione tra loro per attrarre i tanto agognati investimenti.
L’altra grande contraddizione tra gli stati appartenenti all’Ue che merita di essere ricordata è quella relativa al trasferimento di ricchezza che si attua dai paesi che presentano una bassa composizione organica del capitale (più lavoro vivo) a quelli che presentano una alta composizione organica (più tecnologia). In ogni singolo paese, federale o meno, per ovviare alle spinte centrifughe e polarizzanti che questa caratteristica intrinseca al modo di produzione capitalistico produce, esistono meccanismi di redistribuzione interna che trasferiscono parte delle maggiori imposte raccolte nelle regioni più ricche (ma visto il meccanismo sarebbe più corretto definire arricchite) alle regioni impoverite e quindi a più bassa capacità fiscale; nonché meccanismi di condivisione e redistribuzione del rischio (che nei paesi avviene attraverso il debito pubblico statale, molto più consistente della somma dei debiti pubblici delle regioni). Nell’Ue, invece, non esistono meccanismi di redistribuzione se non quelli assai miseri previsti dai fondi strutturali e nulla che assomigli a titoli di debito pubblico europeo, sempre osteggiati dai paesi “virtuosi”, Germania in primis.
Esposte a grandi linee alcune delle principali contraddizioni dell’Ue ed i loro effetti funzionali al dominio capitalistico, dovrebbe essere chiaro quali sono le basi materiali dell’euro-riformismo (o euro-comunismo che dir si voglia). Obiettivo del prossimo articolo è spiegare come e perché questo approccio è fallimentare.