La rivendicazione della riduzione dell’orario di lavoro come questione disgiunta da un discorso complessivo sul rapporto di potere tra capitale e lavoro può condurre a risultati effimeri, soggetti ad una compromissione parziale o totale ad opera della controffensiva padronale.
Con la fine del periodo storico caratterizzato dalle più imponenti conquiste del movimento operaio anche la tendenza ad una progressiva riduzione dell’orario di lavoro conosce una battuta d’arresto, fino ad arrivare alla messa in discussione di quelli che si ritenevano dati strutturali ormai consolidati. In Europa solo qualche anno fa imperversava la discussione sull’opt-out, ossia la clausola che consente di derogare il limite di 48 ore dell’orario settimanale (con la possibilità di arrivare fino a 65 ore settimanali). Ma i segni più evidenti sono quelli rintracciabili nella generale regressione che si registra in sede di contrattazione sindacale.
La subordinazione alle esigenze del sistema delle imprese avviata con l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e sublimata con il Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, trova espressione, tra le altre cose, attraverso l’introduzione del principio di derogabilità in senso peggiorativo dei contratti collettivi ad opera dei contratti aziendali. Un’opportunità offerta al padronato che può intervenire su tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, compreso quindi l’orario, con derive facilmente intuibili data la minor forza di resistenza dei lavoratori di una singola azienda rispetto a quelli di un intero settore. Né, purtroppo, segni di una tendenza all’aumento dell’orario di lavoro sono assenti già in sede di contrattazione collettiva (giusto per fare un esempio: il contratto collettivo dei lavoratori dell’igiene ambientale, che porta la settimana lavorativa da 36 a 38 ore, con 104 ore annuali in più).
Il processo in atto appare paradossale a fronte di una trasformazione epocale dei processi produttivi, determinata dall’automazione e informatizzazione dei processi produttivi. Ma appunto, di apparenza si tratta, che si dissipa nel momento in cui si analizza proprio la rottura di un nesso tra azione sindacale e suo contenuto politico, analisi che dovrebbe permetterci di rispondere alla seguente domanda: Perché i benefici in termini di produttività conseguiti grazie all’automazione e all’informatizzazione non si sono tradotti in una riduzione dei tempi di lavoro?
Come tutte le innovazioni tecnologiche, anche l’ultimo impetuoso processo si è manifestato nel sistema governato dal capitale, sotto forma di una maggiore produzione di plusvalore relativo. Lo sviluppo delle forze produttive in un’economia capitalista non ha come scopo l’accorciamento della giornata lavorativa ma solo la sua parte relativa al lavoro necessario, a vantaggio di quella che produce il plusvalore. E perché la dialettica tra rappresentanti del capitale e rappresentanti dei lavoratori non potrebbe condurre, come del resto accaduto storicamente, ad una traduzione di una parte della riduzione del lavoro necessario, in termini di un ridimensionamento della complessiva giornata lavorativa?
Lo sviluppo capitalistico non ha solo conseguenze in termini quantitativi ma coinvolge aspetti qualitativi che vanno ad incidere proprio sul complessivo assetto di potere nell’ambito dei rapporti sociali di produzione. In particolare, la connotazione sociale delle condizioni che producono un maggior plusvalore relativo viene fatta propria dal capitale e conseguentemente raffigurata come funzione ad esso appartenente.
Si arriva al punto in cui “il capitale non tende soltanto a ridurre all’indispensabile il diretto impiego di lavoro vivente e a diminuire di continuo, mediante lo sfruttamento delle forze produttive sociali del lavoro, il lavoro necessario per l’approntamento di un prodotto”[1] ma “si approfondisce il dominio sempre più esclusivo del capitale sulle condizioni di lavoro; e, attraverso questo dominio, con l’impiego sempre più razionale di tutte le condizioni della produzione, si sviluppa e si specifica lo sfruttamento capitalistico della forza-lavoro. L’operaio riesce a cogliere ormai la globalità del processo di produzione soltanto attraverso la mediazione del capitale: forza-lavoro non più soltanto sfruttata, ma integrata dentro il capitale[2].
La “socialità” delle condizioni di produzione che consentono al capitale di ottenere economie di costo, viene trasfigurata in elementi che sono insiti nella sua natura. È quanto accade anche per il progresso tecnologico. La direzione dei vantaggi rivenienti dalle innovazioni tecnologiche è rimessa completamente nelle mani del capitale ed anche in questo caso l’intero processo è visto come “potenza estranea” dal lavoratore.
La costruzione di piattaforme sindacali che tornino a richiedere una riduzione dell’orario di lavoro va quindi inquadrata in una complessiva azione politica che abbia come premessa imprescindibile la ricomposizione della classe lavoratrice. Questa ricomposizione, per essere efficace, deve ripercorrere le trasformazioni avvenute nell’organizzazione del lavoro, affinché le forme organizzative della rappresentanza di classe trovino corrispondenza nelle reali articolazioni produttive.
Partendo sempre da una irrinunciabile analisi della realtà effettiva, un tema di riflessione per l’area costituita dal sindacalismo più conflittuale e dalle organizzazioni politiche di classe del proletariato, potrebbe essere quello dell’adeguatezza delle categorie contrattuali in cui è suddiviso il corpo del lavoro salariato, nella fase attuale. Attraverso processi di esternalizzazione e ‘appaltizzazione’ gli ultimi decenni hanno traghettato un’economia fondata ancora sul modello fordista verso un’organizzazione produttiva che potremmo definire tentacolare, in cui un centro beneficiario di ultima istanza si avvale della produzione di valore dei nodi di una rete composita, che può presentarsi sotto le più diverse forme economiche e giuridiche.
I lavoratori di quelle che erano le strutture portanti di un sistema basato sulla grande impresa, hanno alimentato copiosamente la contabilità degli esuberi. Ma questo vuol dire che il lavoro è scomparso? Questo punto rappresenta un crocevia dei temi che sono stati affrontati finora. La narrazione ideologica del capitale utilizza le innovazioni tecnologiche come giustificazione tecnica per l’avvio di processi di ristrutturazione di aziende o di interi settori. L’accettabilità dei costi sociali che i lavoratori dovranno subire trova proprio in questa argomentazione “oggettiva” la sua base portante.
Il valore mistificatorio di questa narrazione è nel velo con cui essa copre il fatto che il lavoro non scompare, ma che cambiano le forme in cui il capitale estorce plusvalore. Dal lato del lavoro queste nuove forme prendono le sembianze di un maggior sfruttamento. Le lavorazioni espulse dal perimetro aziendale della grande impresa vengono svolte da lavoratori inquadrati in aziende di minori dimensioni con conseguenti livelli di diritti e garanzie più bassi, o nei moderni opifici digitali (Accenture docet) in cui i lavoratori sono inquadrati con contratti atipici e costantemente sottoposti al ricatto del mancato rinnovo.
Al termine del processo avremo un quadro in cui:
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I lavoratori della grande impresa (e soprattutto le loro organizzazioni rappresentative) subiscono responsabilmente brutali processi di ristrutturazione motivati dal fattore tecnologico. Ciò si traduce in perdita di salario (con l’attivazione di misure statali o settoriali per il superamento delle tensioni occupazionali, ma anche come richiesta esplicita nei rinnovi contrattuali), di diritti e garanzie. Ciò che rende letteralmente surreale poter ipotizzare una piattaforma rivendicativa che si strutturi attorno alla richiesta della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
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I lavoratori delle piccole imprese che hanno assunto le lavorazioni esternalizzate o degli opifici digitali hanno un rapporto di lavoro che vive in un contesto di evidente debolezza, in cui l’orario di lavoro è soggetto ad una completa flessibilizzazione in funzione degli obiettivi aziendali.
Il risultato complessivo è una amplificazione del processo di estorsione di plusvalore relativo, ottenuta grazie alle innovazioni tecnologiche, alle conseguenti modifiche produttive e alle corrispondenti sovrastrutture giuridiche (deregolamentazione del rapporto di lavoro). Nel sistema del capitale, quindi, un orario di lavoro risalente al modello fordista (con addirittura tendenze al suo aumento) può benissimo convivere con la più radicale delle trasformazioni indotte dalle innovazioni tecnologiche.
L’opposizione ad un modello siffatto - dal quale scaturiscono maggior sfruttamento della forza-lavoro occupata, peggioramento delle condizioni di lavoro e mantenimento di un corposo esercito industriale di riserva (con tassi di disoccupazione che non si discostano nel loro oscillare da un nocciolo strutturale) - può venire solo da chi ha interessi contrapposti. Solo il lavoro salariato, unito nel vincolo di soggezione al capitale ma disgregato nell’attuale forma di processo produttivo con una coscienza di classe frantumata dallo schiacciante potere persuasivo dei mezzi di comunicazione di massa e dalle pressioni culturali, può farsi carico di un compito storico tanto vecchio quanto nuovo.
Note:
[1] Il Capitale, Libro terzo, capitolo 1, cit. in Mario Tronti, Quaderni rossi, volume 2, La fabbrica e la società, Edizioni Avanti, pag. 10
[2] Ibid. pag 12