Sulla presunta lentezza del Parlamento Italiano.
Uno degli assi portanti della campagna referendaria del “sì” è la necessità di superare il bicameralismo perfetto al fine di aumentare l’efficacia e la velocità dell’azione parlamentare. Questo cavallo di battaglia si appoggia e trova un utile terreno di corsa nell’ideologia oggi imperante della “rapidità”.
“Non importa cosa si fa ma in quanto tempo lo si fa perché i tempi contano molto” (a volte più del contenuto), si dice nell’epoca del digitale. Sarebbe interessante una disamina attenta di questa ideologia borghese del “risultato”, come è nata e a cosa serve, ma in questa sede vogliamo prendere invece qualche dato per dimostrare come non sia assolutamente vero che il parlamento italiano sia lento: siamo di fronte ad una bufala a uso e consumo del consenso.
I dati a cui ci riferiamo sono facilmente reperibili ed è possibile sfogliarli online grazie al lavoro di raccolta e analisi svolto dall’Osservatorio sulla legislazione della Camera dei deputati. In questo caso abbiamo preso un rapporto del 2012 ed uno del 2013 che ci sembravano più significativi. Anche senza svolgere un lavoro raffinato di aggregazione dei dati, è possibile notare come quantitativamente non stia in piedi nessuna critica di lentezza dell’attività del nostro assetto istituzionale: dai dati che troviamo nel rapporto del 2012, scopriamo infatti che in Italia, dal 1996 al 2012, sono state prodotte 3985 leggi, mentre in Francia, su un periodo più lungo che va dal 1990 al 2012, sono state prodotte 4076 leggi, in Germania, dal 1972 al 2011, sono state emanate 4566 leggi e, per finire, in Inghilterra 1165 leggi dal 1990 al 2011 . Ovviamente questo tipo di paragone esclusivamente quantitativo è grossolano, essendo molto diverse le caratteristiche degli Stati presi in considerazione. Ma altrettanto grossolana, d’altra parte, è la vulgata sulla lentezza del processo normativo italiano che invece dimostra di essere perfettamente in linea rispetto agli altri paesi europei, se non addirittura maggiormente attivo.
E’ interessante osservare, grazie ai dati presenti nel rapporto 2013, una questione più qualitativa che riguarda cioè come stia aumentando nel corso del tempo il ricorso alla legiferazione d’urgenza. Comparando la produzione italiana di leggi nel corso di un arco temporale molto lungo (‘62, ‘78, ‘91, ’12) , si nota che la produzione complessiva di leggi parlamentari diminuisce nel tempo ma percentualmente aumenta l’attività di “conversione”, cioè quella legata più strettamente alla decretazione d’urgenza.
Dunque, anche se la materia richiederebbe riflessioni più approfondite, possiamo sicuramente tracciare un paio di conclusioni: se da un lato non è assolutamente vero che il nostro parlamento è “lento”, come sicuramente non lo è stato in passato, da un altro l’azione dell’organo esecutivo negli ultimi anni è stata sempre più marcata rispetto a quella del Parlamento.
Se poi posiamo lo sguardo sugli ultimissimi anni montiani-lettiani e renziani, non possiamo non notare come alcune “riforme” su aspetti strategici e fondamentali del nostro paese (pensioni, scuola, lavoro) si siano ottenute in brevissimo tempo. Dunque a noi pare che l’argomento cardine che legittima la riforma della Costituzione nella propaganda del “si”, ovvero quello di velocizzare i procedimenti legislativi, non regga nemmeno al confronto coi numeri che hanno sempre la testa dura.
Sul “fronte” del NO.
In questi giorni ha fatto molto discutere l’eterogeneità del fronte del “no”. A giudicare da alcune analisi semplicistiche sembrerebbe che il tentativo, a dire il vero ben riuscito, sia quello di dipingere il fronte del NO come un calderone indistinto di “gufi”. E’ bene invece chiarire che esistono diverse prospettive e punti di vista all’interno della coalizione.
C’è il “no” degli opportunisti di destra, i quali pur essendo pienamente d’accordo con la deforma (e infatti l’hanno anche votata come ha fatto Forza Italia), sono vinti dall’opportunismo del momento. Dare un colpo al governo Renzi e al Partito Democratico può essere un collante utile a ricostituire un polo della destra, oggi dilaniato dalla perdita del leader carismatico e dall’assottigliamento degli spazi politici conquistati apertamente dalla politica renziana.
Esiste il “no” dei “disperati”, cioè quello della sinistra Dem, i quali, con un sussulto di gloria, sono spinti a risalire sulle barricate per evitare di essere sbranati dal mostro che loro stessi hanno creato, Renzi. Solo che i barricaderos del PD sono senza prospettiva: infatti, l’essenza filopadronale della politica renziana non viene messa granché in discussione, non essendoci stato nessun sollevamento su questioni concrete importantissime come Jobs Act , Buona scuola e DDL Madia.
Esiste infine il “no” Sociale. Il “no” di chi sfida le forze conservatrici del paese sul piano dell’applicazionedella Costituzione e non della sua decostruzione, cioè sul piano del rinnovamento reale del paese, perché a ben vedere la riforma che propone Renzi ci riporta indietro di diversi decenni. Altro che progresso!
La Costituzione ancorché meritevole di cambiamenti in senso progressista rappresenta ancora oggi un terreno di difesa dei diritti della classe lavoratrice estremamente avanzato che purtroppo rimane largamente insondato in assenza del conflitto di classe.
Sulla “difesa” della Costituzione.
Ci venga infine concessa una breve replica contro quella penosissima e patetica retorica renziana del “fare fare fare” e del referendum come “derby tra passato immobile e futuro dinamico” che (ahinoi) rimanda alla mente gli anni delle declamatorie futuriste e pre-fasciste: gli anni in cui si proclamava l’abbattimento dell’ “immobilità pensosa, dell’estasi e del sonno” del passato attraverso l’esaltazione del “movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno”[1].
Uno degli argomenti maggiormente contestati, infatti, riguardo il “no” alla riforma Renzi-Boschi è proprio l’accusa di immobilismo e di conservazione irriducibile del dettato costituzionale del ’48. E’ senz’altro vero che tra i sostenitori del “no” ci siano quelli che sostengono ostinatamente che la Costituzione “non si tocca”; ma questa non è affatto una posizione condivisa tra chi, invece, si pone neiconfronti della questione della deforma costituzionalein un’ottica che dev’essere necessariamente progressista. E’ infatti noto a tutti che la Costituzione italiana nata dalla Resistenza, a seguito di un compromesso tra componenti ideologiche che difendevano differenti interessi politici, abbia impostato un discorso di stampo marcatamente antifascista, che favorisse il più possibile un pluralismo sociale e politico e le condizioni per lo sviluppo di una maggior dignità economica e sociale della classe lavoratrice. Ciò non toglie tuttavia che ‒ e utilizziamo non a caso le parole dell’allora presidente dell’Assemblea costituente e dirigente del PCI, Umberto Terracini ‒ “è stato così raggiunto in misura apprezzabile l'obiettivo di assicurare in generale ai cittadini uno standard di vita migliore per quanto compatibile col sistema storicamente in atto” e che quando saranno finalmente maturate le condizioni per passare ad un sistema più avanzato, ovverosia quello socialista, “si porrà il problema non già di questa o quella revisione parziale della costituzione democratica, ma della sua sostituzione totale” [2].
È bene rimarcare ancora una volta, quindi, il significato politico del “no” dei comunisti di fronte a questo genere di riforme che altro non sono se non il tentativo smaccato di fare coincidere la forma, ossia la legge scritta nero su bianco, con la sostanza che oggi, com’è sotto gli occhi di tutti, si concreta in una formula che unisce alla diminuzione della democrazia e allo smantellamento dei diritti della classe lavoratrice, l’autoritarismo politico, economico, militare e culturale imposto a diversi livelli dalla classe dirigente nazionale e sovranazionale dell’UE e degli Stati Uniti. Quindi non certo un “no” generico e indiscriminato nei confronti del cambiamento, come vorrebbe propagandare la retorica populistica e futuristica di Renzi, ma un “no” specifico a questa riforma e a tutte quelle precedenti e successive che miravano, mirano e mireranno a modificare la Costituzione rendendola più vuota e regressiva anziché maggiormente progressista rispetto all’impianto originale.
Se sono stati persi i rapporti di forza che nel ’48 avevano consentito ai comunisti di realizzare una Costituzione di compromesso ‒ e non di combinazione ‒ con le altre forze politiche, oggi non possiamo certo consentire di svuotare di significato politico l’approdo di quello sforzo, il frutto di quelle condizioni più favorevoli alla classe lavoratrice, in nome di un cambiamento che ha il sapore di una corsa all’indietro. Motivo per cui non possiamo che chiedere la reale e concreta applicazione della Costituzione del ’48, nella parte in cui legittima il popolo ad essere sovrano (e non i rappresentanti nominati dai capi partito) e fa del lavoro e del diritto al lavoro (e non certo del precariato ai massimi storici, del lavoro gratuito e dei voucher) l’elemento fondante della Repubblica; o ancora, nella parte in cui sancisce che il principale compito di chi governa è quello di favorire lo sviluppo e la dignità della persona umana e di rimuovere gli ostacoli economici e sociali alla partecipazione effettiva sia politica che economica e sociale dei lavoratori, motivo per cui la Costituzione impone oltre alla tutela del lavoro anche i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. E via dicendo.
La Costituzione è migliorabile?
Tuttavia, volgendo uno sguardo critico alla nostra carta costituzionale (e checché ne dica Renzi o JP Morgan) anche oggi ci sarebbe molto da modificare se la si volesse rendere maggiormente progressista.
Cominciando, innanzitutto, con l’eliminazione del vincolo di pareggio di bilancio contenuto nel nuovo articolo 81 e con l’eliminazione del principio di preminenza del diritto comunitario su quello nazionale attraverso l’eliminazione del vincolo contenuto nell’articolo 117 comma. E una corretta lettura dell’art. 11; articolo che, anziché venire utilizzato per dare “copertura” giuridica alla preminenza dell’UE, dovrebbe essere enfatizzato nella previsione fondamentale del ripudio della guerra per avviare un processo di fuoriuscita dell’Italia dalla NATO.
Ci sarebbe inoltre da introdurre esplicitamente il termine “laicità” con riferimento ai rapporti del nostro paese in relazione alle tematiche religiose. Dall’attuale impianto della Costituzione (artt. 7 e 8), infatti, è indubbio che si possa ricavare un “principio” di laicità dello Stato il quale, tuttavia, oltre a non venire esplicitamente menzionato in questi termini nel dettato normativo (in questo caso con l’intento di impedire la famosa unità conseguente tra forma e sostanza), resta purtroppo un principio tradito: le ingerenze della Chiesa cattolica nei fatti politici italiani e nella vita delle persone, infatti, rappresentano un fenomeno mai sopito e nemmeno nascosto, come dimostrano i molteplici modi attraverso i quali essa fornisce o ha fornito indicazioni di voto su leggi specifiche fuori e dentro il Parlamento (legge 40 su tutte), l’influenza cruciale sui temi dell’aborto, dell’obiezione (che anche recentemente ha provocato la morte delle donne in ospedale), del testamento biologico e dell’eutanasia, della sessualità e dei diritti civili ad essa collegati. Senza contare la chiara e netta preminenza accordata alla Chiesa cattolica rispetto alle altre religioni, sia in termini confessionali, nella prassi, sia in termini politici, visto il richiamo contenuto nell’articolo 7 ai Patti Lateranensi che solo attraverso una modifica della Costituzione potrebbero finalmente venire sciolti unilateralmente.
In considerazione delle differenti forme familistiche e non ortodosse che si sono venute sempre più a creare e che naturalmente dovrebbero possedere pari dignità e tutela rispetto al modello tradizionale di stampo cattolico, vi sarebbe anche da riformulare la parte dell’articolo 29 in cui si incentra sul contratto matrimoniale la rilevanza di un nucleo familiare. Sarebbe migliorabile anche la formulazione dell’articolo 37 nella parte in cui fa riferimento esclusivamente alla donna con riguardo all’ “adempimento della sua essenziale funzione familiare”, poiché, sebbene il dettato costituzionale paia concentrarsi unicamente sul rapporto di maternità, presta il fianco ad interpretazioni che andrebbero surclassate e di odore patriarcale.
Non è possibile in questa sede dilungarsi in modo organico in merito ai possibili miglioramenti che potrebbero rendere ancora più avanzata “la Costituzione più bella del mondo” ‒ per usare una nota espressione di benigniana memoria, prima che lo stesso reputasse preferibile “votare si, pur comprendendo il no” perché il fatto che lo stimatissimo Renzi voglia cambiare in questo modo la Costituzione “è meglio del nulla”. Quello che è certo è che il 4 dicembre non ci resta che dire “no” ad un cambiamento che non farebbe altro che acuire tutto quello che già conosciamo nei suoi aspetti più bui e regressivi. Il cambiamento vero lo otterremo solamente lavorando nella direzione ostinata e contraria, che ci porti verso la strada che non abbiamo ancora mai battuto: quella in cui saranno finalmente i lavoratori nella posizione di concedere l’elemosina agli arroganti oppressori di sempre.
Note
[1] Il riferimento è al Manifesto del Futurismo, scritto da Marinetti e pubblicato nel 1909.
[2] Queste parole di Terracini sono state scritte a trent’anni dalla promulgazione della Costituzione, nel 1978, e sono tratte da Costituzione: la Carta Costituzionale, Umberto Terracini (a cura di), in AAVV, Storia d’Italia, vol.1, Firenze, La Nuova Italia, 1978.