Dopo l'oceanica manifestazione del 25 novembre, i boati contro il patriarcato che ancora uccide Giulia Cecchettin e centinaia di altre, la straordinaria mobilitazione di persone sui temi della violenza e disparità di genere di questo momento storico, è veramente spiacevole constatare come, nonostante tutto, all’interno di un movimento come quello di NUDM che è stato in grado in qualche modo di mobilitare ampi strati di popolazione su questi argomenti (anche in connessione con altri, altrettanto importanti, come il genocidio in corso a Gaza) e che si proietta verso lo sciopero del prossimo 8 marzo, risultano egemoni ed incontrastate le posizioni che da anni tendono a giustificare la prostituzione e la pornografia con il mantra, a mio avviso insostenibile, inascoltabile, che "sex work is work", invocandone una regolamentazione contrattuale “come accade con tutti gli altri lavori”. Queste posizioni prendono le mosse dall’assunto che la persona (di solito donna e/o migrante e/o trans) che “sceglie” di dedicarsi a questo tipo di “lavoro” lo debba poter fare nel principio dell’autodeterminazione, superando lo stigma che le avvolge da sempre e rivendicando il fatto che “lx lavoratrici sessuali da sempre si fanno pagare per quello che spesso il moralismo conservatore non consentiva di trovare nelle mogli, relegate socialmente a un ruolo di subordinazione e devozione” - come si legge nel post diffuso in occasionedella Giornata mondiale contro la violenza sulle persone che svolgono lavoro sessuale (17 dicembre). Nello stesso contesto veniva precisato il rifiuto di quella che viene definita come una strumentalizzazione, ossia l’equiparazione del sex work al fenomeno della tratta che sarebbe diverso perchè in questo caso la prostituzione è forzata e si basa su sfruttamento, ricatti e costrizioni, spesso aggravate dalla condizione di migranti irregolari delle persone trattate e prostituite.
È una fase storica in cui l'attenzione verso i temi di genere appare più alta che mai, pertanto bisogna essere in grado di capire che un conto è analizzare un fenomeno con le sole lenti del patriarcato - lasciando sempre troppo sullo sfondo l'insistenza delle dinamiche strutturali del capitalismo odierno - un conto è diffondere il falso mito che sia possibile concepire la vendita del corpo (perlopiù femminile) o del sesso come fosse qualunque altra merce, sposando cosi le parole d'ordine del patriarcato e del capitalismo più becero proprio da parte di coloro che, in particolare al primo, hanno voluto dichiarare guerra. La posizione del “sex work is work” fa sorgere il legittimo dubbio che in realtà per NUDM non sia un caso che la lotta al capitalismo resti sempre sullo sfondo: volendo escludere che tale organizzazione apprezzi realmente il sistema capitalistico, sorge però il legittimo dubbio che in realtà degli aspetti fondamentali del funzionamento del capitalismo non vi sia proprio alcuna contezza.
Come si può, infatti, essere della parte delle donne oppresse, tanto più se migranti (la famosa intersezionalitá, appunto) e fare finta di non vedere che è assolutamente vero che la prostituzione riguarda al 90% fenomeni di tratta e di sfruttamento delle donne migranti, e non l’infima percentuale di coloro che sceglierebbero questo tipo di occupazione? Come si può sostenere una posizione simile e non curarsi in alcun modo del fatto che per difendere la “libertà di poter lavorare col proprio corpo” di una manciata di persone si calpesta completamente la quotidianità di tutte quelle migliaia di persone che invece nella prostituzione vivono un inferno dal quale risulta loro impossibile districarsi? Come si può scrollarsi di dosso un simile peso semplicemente col meccanismo del “rifiutiamo la strumentalizzazione che equipara la prostituzione alla tratta”, come se il fatto di rifiutarlo ne eliminasse il potentissimo nesso reale che unisce questi due mondi? Come si può, infine, sostenere di combattere il patriarcato, di rifiutare il ruolo della mogliettina devota, ma illudersi che per farlo si possa rivendicare il ruolo della prostituta ossia l’unico altro ruolo in cui storicamente è stata relegata la donna, la cui funzionalità è sempre stata definita in base alle necessità e ai desideri maschili (purezza, affari, serietà uguale mogliettina, lussuria e sregolatezza uguale prostituta)?
Le sostenitrici del “sex work is work” ne fanno una questione di rispetto della libera scelta, dell'autodeterminazione, di necessità di regolamentare il fenomeno della prostituzione al fine di eliminare pericoli e disparità rispetto ad altri settori produttivi.
Ci sono solo alcuni piccolissimi problemini.
Uno. La “scelta e l'autodeterminazione" in questo campo non indicano assolutamente niente.
Due. Il mercato del sesso non produce assolutamente nulla se non il perpetuare della visione oggettivante del corpo femminile e del sesso, la prostituzione è solo una ulteriore condizione di sfruttamento dell'essere umano che pergiunta distoglie donne, migranti, trans, chiunque la pratichi, da lavori socialmente significativi.
Tre. Con la regolamentazione della prostituzione non si elimina nessun tipo di pericolo per le cosiddette “sex workers”.
Tralasciando il punto numero due che si spiega già ampiamente da sé, va ricordato alle care compagne favorevoli alla mitologia del “sex work is work” che i concetti di “autoderminazione” o “scelta” o “consenso” non hanno nulla a che fare col desiderio. Il desiderio, infatti, e solo questo, è o dovrebbe essere, la sola cosa a determinare il fatto che un qualsiasi rapporto sessuale possa essere posto in essere: il desiderio contemporaneo di entrambi i partner, s’intende, con particolare riferimento al desiderio femminile. Quando invece parliamo di consenso o di scelta della donna che si prostituisce parliamo solo della sua accettazione passiva rispetto alla vendita del rapporto sessuale e del proprio corpo, alla sua consapevolezza che sarà il denaro a sanare l’assenza di desiderio nei rapporti che verranno intrattenuti “per lavoro”, alla sua scelta di ricorrere allo strumento della dissociazione psicologica per sopportare di essere fisicamente abusata da persone verso le quali non si prova alcun desiderio sessuale, ma che pagano per fingere che sia così - tanto è vero che dando uno sguardo alle recensioni dei compratori di sesso (che si possono leggere, tra i vari posti, anche su questo interessante blog) ci si rende perfettamente conto di come sia l’acquirente a determinare i rapporti di vendita, a pretendere di comandare, a pretendere di trovarsi dinnanzi una donna “partecipe” dell’atto sessuale e non assente o addirittura lamentosa e piagnucolante, insomma il compratore di sesso paga una somma di denaro per inscenare una situazione di proprio dominio sul corpo della donna comprata che pretenderebbe di estendersi anche alla sfera emotiva della stessa: ma una compravendita privata può, tuttalpiù sanare l’aspetto del consenso, appunto, ma non può certo pretendere di comprare il desiderio, che resta il reale discrimine di un rapporto sessuale sano e che per questo non può esistere nel mondo della prostituzione fondato, al contrario, solo sulla compravenditia dell’oggettto-persona che si prostituisce, del suo mero consenso ad assecondare la domanda maschilista di sesso.
Da ciò pertanto deriva, visto che la presenza stessa di un mercato del sesso dipende ed è determinata dalla presenza dei compratori del sesso, che sono principalmente uomini, che l’inserimento “consapevole” (nei termini appena descritti) nello stesso mercato da parte di una “sex worker” significa solo che essa accetta supinamente la logica patriarcale e capitalista per cui ogni cosa può divenire merce e in particolare la donna, visto che la sua differenziazione dalla “cosa” in questo contesto risulta particolarmente ostica.
Bisogna essere consapevoli che “prendere a pugni il patriarcato”, o abbatterlo, rischia di rimanere solo un sogno se non si è disposte a problematizzare la questione della prostituzione, a capire gli enormi limiti e le incongurenze di una impostazione che giustifica la logica per cui uno dei due sessi ha imposto per secoli un certo “mercato” in cui l’altro sesso è ridotto a merce, a oggetto, è comprabile, è insultabile “perchè se a un cliente piace insultare durante il sesso non glielo si può certo impedire, visto che sta comprando quella merce”. Bisogna prendere consapevolezza che si parla di violenza sulle donne anche - e soprattutto - quando si parla di prostituzione e pornografia e che la questione della morale qui c’entra ben poco, che combattere “lo stigma che ancora colpisce le sex worker” è questione incomparabilmente più arretrata che combattere il sistema che ne impedisce la reale emancipazione, sistema che normalizza la necessità di concepire questo tipo di merce come unico escamotage alla marginalizzazione sociale (ecco perchè non è un caso che la prostituzione sia “scelta”, quando di “scelta” si può parlare, dalle categorie sociali più borderline che ci siano o da una intersezione tra le tre, donne, migranti, trans).
La strategia della regolamentazione del mercato del sesso non viene, paraltro, a determinare una condizione realmente favorevole a nessuno se non al compratore stesso: nei Paesi dove la prostituzione è stata regolamentata, è stato già ampiamente documentato da inchieste e ricerche come, in realtà, ad esempio, il numero di donne prostituite uccise dai compratori sià maggiormente elevato rispetto a Paesi che adottano la strategia del sanzionamento della domanda di sesso.
In generale numerosi sono gli esempi che sconfessano il mito della “Puttana Felice” (The Pimping of Prostitution dell’autrice e giornalista britannica Julie Bindel) e bisogna fare ancora una volta la pace col fatto che la realtà della prostituzione oggi, a livello mondiale, è una realtà in cui la tratta delle persone e la malavita si annidano grandiosamente nelle maglie di imprese apparentemente legali, dove lo sfruttarore e il pappone si possono fregiare del ruolo di datore di lavoro, di affarista e reinvestire i propri profitti milionari nelle grandi catene dei bordelli che sono ora maggiormente diffuse e richiamano grossi quantitativi di forza lavoro, visto che queste grandi imprese del sesso sono libere di promuovere formule “all you can fuck”, massimizzando i profitti sul corpo e l’attività delle donne riducendone al minimo le paghe, e “pacchetti tutto compreso”.
Su questi aspetti nello specifico rimando ai numerosi articoli che si possono reperire in rete e in particolare a uno di quelli pubblicato sul nostro giornale già sei anni fa ed invecchiato benissimo.
Sono anni che lo ripetiamo e siamo sempre di più a prenderne consapevolezza, ma a un certo punto bisogna operare una chiara scelta di campo su questo tema: combattere in maniera netta il patriarcato e il sistema capitalistico su cui ancora oggi così bene esso si innesta, significa necessariamente rigettare la mitologia della “prostituta felice e consapevole” e sanzionare la domanda di sesso, in quanto senza i compratori non esisterebbe nè la prostituzione, nè la tratta.