Rivendicazione e rifiuto dell’identità
Il femminismo si riafferma negli Usa nei primi anni sessanta, prodotto da un clima culturale e un ambiente sociopolitico favorevole: le rivolte dei popoli coloniali (Cuba, Algeria, Vietnam), la Cina maoista, la protesta degli afroamericani, la rivolta nelle università. Le opere più note ricalcano Il secondo sesso (1949, tradotto in Usa nel 1953) di Simone de Beauvoir, La dialettica dei sessi di Shulamith Firestone e la politica del sesso di Kate Miller. Negli stessi anni nella componente femminile del movimento studentesco compare il tema dell’alterità. Discorsi di rivendicazione o di decostruzione dell’identità sono le risposte a una domanda che il femminismo si è sempre posto: chi e che cosa è una donna? Le femministe marxiste si sono rammaricate che la centralità di questi temi abbia messo in secondo piano quelli della salute e del lavoro; altre invece si sono convinte che il femminismo dell’uguaglianza avrebbe sbagliato tutto fino all’arrivo salvifico di quello della differenza.
In primo luogo il movimento di emancipazione della donna nella sua storia ha puntato su ciò che di uguale le donne avevano con gli uomini, in seguito sulla Madre, figura di prestigio nelle società patriarcali, poi un’altra strategia è stata puntare sulla strega, sull’immagine negativa del femminile come forma di identità.
A partire dagli anni Sessanta rivendicazioni di alterità hanno convissuto e si sono alimentate di complesse costruzioni filosofiche debitrici alla psicanalisi e di altrettanto complesse costruzioni psicoanalitiche debitrici della filosofia. Non sono testi di facile lettura. Così, ad esempio, il successo in Italia della lacaniana Luce Irigaray tra le femministe di sinistra si deve, paradossalmente, al fatto che probabilmente molte lettrici non hanno afferrato in pieno il messaggio dell’autrice.
In genere si rivendica la differenza quando non si vuole essere assimilati, pensiamo ai nazionalismi del primo ottocento (Germania, Italia) o al nazionalismo degli oppressi dei popoli colonizzati, alla negritudine (che però spesso riflette l’immagine dell’afroamericano costruita dal caucasico), a Malcom X che rifiuta per gli afroamericani la cultura caucasica, ma poi capisce che non si può inventarla come fanno i black muslims e inscrive la lotta degli afrodiscendenti nella lotta più generale dei popoli colonizzati e oppressi. La femminitudine è l’equivalente della negritudine.
La teoria femminista si servirà di Lacan, Derrida, Deleuze, ecc. Mentre i movimenti di donne in Europa e negli Usa si misurano con i problemi della costruzione di un soggetto politico, la french theory, dalla fine degli anni Settanta, si esercita nelle forme possibili della sua negazione. Una società considerata sempre più frammentaria e plurale, con soggetti deboli, con soggetti che si moltiplicano, moltiplicherebbero i punti di vista, ciascuno valido in un contesto parziale, purché non pretenda di costruire un sistema, una teoria universalistica, buona non solo per sé, ma anche per gli altri.
Di fronte al contesto di quegli anni il femminismo riprende il suo “doppio gioco” che consiste nell’indossare un’identità virtuosa o trasgressiva o nel rifiutarle entrambe. Esemplari sono a tal proposito Luce Irigaray e Judith Butler. Irigaray sostiene che il femminismo che rivendica l’uguaglianza dei diritti rischia di portare alla distruzione del suo genere, quindi la Dichiarazione dei diritti dell’uomo non può riguardare le donne a meno che non accettino di rinunciare al loro sesso.
Al polo opposto si colloca Judith Butler, teorica della gender theory, che nel suo undoing gender del 2004 sostiene di non avere alcuna fretta di dare una definizione inconfutabile della differenza sessuale che preferisce considerare una questione aperta, problematica e irrisolta. D’altra parte Butler è anche l’espressione di fenomeni politici nuovi. Non c’è più il nazionalismo della colonizzazione che suggeriva alla filosofia il tema dell’identità; c’è un nuovo movimento fatto di acronimi e che rappresenta le ragioni della sessualità che non obbediscono alla norma. Sono le sessualità disubbidienti che da invisibili vogliono essere riconosciute, che manifestano nei Pride; lottano per i diritti, per un orizzonte di liberazione. Il limite sta nelle pratiche di comunità. Rivendicare un’alterità significa prendere le distanze da altri, cristallizzarle. Le donne sono differenti dagli uomini, le lesbiche dalle donne, ogni donna è differente da sé…
Questa la teoria femminista, ma il movimento con le sue pratiche di lotta porta a diverse conquiste negli anni Settanta, pensiamo in Italia alle acquisizioni successive al ’68 (divorzio, aborto, nuovo diritto di famiglia, cancellazione delle barbare leggi sessiste).
Non ci addentriamo a trattare le teorie degli anni ottanta e la concezione dell’intersezionalità, ma è importante sottolineare che, a partire dagli anni novanta, con l’affermarsi delle politiche neoliberiste abbiamo assistito a un forte attacco ai diritti sociali e a quelli conquistati dalle donne. Vi è una ondata reazionaria che vuole imporre il ritorno alla cosiddetta famiglia tradizionale e pretenderebbe di confinare la donna nel ruolo di madre e moglie. D’altra parte tale controffensiva reazionaria, che procede parallelamente all’attacco alla 194, non appare in grado di rimettere in discussione direttamente il diritto al divorzio.
In Italia le questioni del salario e della divisione sessuale del lavoro non possono che divenire centrali per lo sviluppo di un movimento per l’emancipazione della donna che voglia evitare di essere strumento di liberazione solo per alcune. I dati forniti dall’Istat sono catastrofici: il lavoro part-time è al 32,2% (era al 21% nel 1993), il 30% delle donne lavoratrici madri lascia il lavoro per motivi familiari e il 30% è il tasso di occupazione femminile al sud (il 46% a livello nazionale), vi sono notevoli discriminazioni per le neo-madri, il 72% delle donne è responsabile dei lavori di cura, le donne sono per lo più escluse dalle occupazioni più redditizie e dal lavoro a tempo pieno, vi è un enorme disparità di reddito che si riflette anche sulle pensioni. Part time e flessibilità del lavoro femminile comportano indigenza e dipendenza dal partner. Pensiamo, inoltre, anche a tutti i giovani precari colpiti dalla femminilizzazione del lavoro ovvero dall’estensione a giovani lavoratori delle medesime condizioni di precarietà, atipicità e scarsa retribuzione che hanno sempre caratterizzato il lavoro femminile.
È un fatto poco controverso che occorre battersi per l’occupazione femminile, contro le discriminazioni di genere sui luoghi di lavoro, per la parità di salario. Questione più complessa e dibattuta è il modo in cui sarebbe meglio occuparsene.
Verso un nuovo femminismo: giovane, di classe e antirazzista
L’Italia è stata uno degli ultimi paesi a capitalismo avanzato ad approvare una legge sulle unioni civili, ha tassi di occupazione femminili fra i più bassi di Europa, con l’80% dei ginecologi obiettori di coscienza e con la legge sulla procreazione assistita che è uno strumento punitivo nei confronti della donna. A causa dei tagli ai servizi pubblici di cura, agli asili nido e alle forme pubbliche di assistenza le famiglie sono dovute ricorrere al lavoro a basso costo degli immigrati. Insomma un nuovo movimento per l’emancipazione della donna è oggi più che mai urgente. Ma di che tipo di movimento abbiamo bisogno?
Le condizioni di vita delle donne in Italia sono diversificate a causa della precarizzazione del lavoro tra le nuove generazioni, dall’arrivo delle donne immigrate prive di diritti, dal fatto che le donne trans sono marginalizzate dal mercato del lavoro ed esposte a un surplus di violenza maschile. Il movimento per l’emancipazione delle donne dovrebbe, in particolare, battersi per le donne più vulnerabili alle politiche di austerità, alla violenza maschile, alla discriminazione sui posti di lavoro. Dovrebbe essere un movimento di lavoratrici e di lavoratori in grado di ricomprendere al proprio interno le donne precarie, le immigrate, le studentesse, le disoccupate, etc. Non si può più parlare di un maschile e di un femminile, non basta parlare di oppressione di genere: questa oppressione assume forme diverse a seconda dell’appartenenza di classe, dello status sociale. Un nuovo movimento per l’emancipazione della donna, che lotti contro l’oppressione e lo sfruttamento, oggi deve battersi in difesa dei diritti sociali e civili, contro l’austerità e i tagli ai servizi, contro la precarietà e la disoccupazione. Si ha bisogno di un movimento per l’emancipazione della donna rumoroso, arrabbiato, di classe, antirazzista, conflittuale, caratterizzato da una significativa presenza di giovani e immigrate, mentre andrebbero evitate forme di organizzazione separatiste.