In un’epoca di cosiddetta globalizzazione, cioè di tendenziale costruzione del mercato mondiale mediante il tentativo di spartizione dell’intero globo da parte delle potenze imperialiste, è essenziale affrontare qualsiasi problematica in una prospettiva internazionale e internazionalista.
In quest’ottica il nostro paese appare sempre più una potenza imperialista, tutto sommato, di secondo rango; nel processo di finanziarizzazione e concentrazione degli apparati produttivi, le sue aziende sono sempre più dipendenti o interdipendenti con multinazionali, banche, o fondi d’investimento che hanno il loro centro direzionale nelle nazioni dominanti dei principali blocchi imperialisti: Germania, Stati Uniti e Giappone-tigri asiatiche, anche se quest’ultimo blocco in verità subisce sempre di più la concorrenza del capitalismo di Stato sino-vietnamita.
Gli stessi governi che si sono succeduti negli ultimi decenni alla guida dell’Italia – sempre più calzanti con la previsione di Marx, secondo la quale si sarebbero tendenzialmente ridotti a comitati per la gestione comune degli affari della borghesia – riflettono in maniera sempre più evidente i legami fra capitalisti italiani e potenze imperialiste transnazionali dominanti.
La nostra classe dirigente è, dunque, in misura crescente espressione d’una borghesia che tende, per diversi aspetti, a divenire subalterna rispetto a centri decisionali dislocati all’estero o che si pongono su un livello transnazionale. Se da un punto di vista militare e ideologico-sovrastrutturale netto appare il predominio dell’imperialismo angloamericano, in una prospettiva più strutturale, per ragioni storiche, culturali e geografiche, l’Italia è sempre più parte integrante del costituendo imperialismo europeo, egemonizzato dal punto di vista economico da Germania e Benelux, e in una prospettiva più complessivamente politica dall’asse franco-tedesco.
Dal punto di vista sovrastrutturale, dunque, per citare un caso particolarmente significativo, la tendenza alla precarizzazione della forza-lavoro è negli ultimi anni di matrice principalmente angloamericana, generalmente egemone nei cosiddetti organismi economici sovranazionali quali, in primis, la Banca Mondiale.
Gli ideologi europei, economisti, finanzieri e ceto politico-politicante – dopo la sconfitta epocale del movimento dei lavoratori salariati europei degli anni Ottanta e Novanta e dinanzi al restringersi dei margini di profitto a seguito della caduta del tasso di profitto e della conseguente grande crisi di sovrapproduzione – hanno progressivamente abbandonato il precedente modello concertativo franco-renano – fondato su alcune concessioni al movimento proletario dell’Europa occidentale, in cambio del suo mancato opporsi alla politica di sfruttamento colonialista e neocolonialista di quello che era chiamato “Terzo mondo” – per abbracciare il modello neoliberista anglo-americano. Si tratta di un modello che è stato, però, riadattato dal polo imperialista europeo nel senso ordoliberista, proprio della tradizione bonapartista-bismarckiana. L’introduzione del neoliberismo va di pari passo con l’adozione dell’organizzazione del lavoro di stampo toyotista.
Di fronte alla crisi economica e alla conseguente disoccupazione – dovuta alla ristrutturazione capitalista e alla concentrazione monopolista, con il conseguente aumento del capitale costante (macchinari) rispetto al variabile (forza-lavoro) –, dinanzi alla dislocazione degli apparati produttivi in paesi a più elevato sfruttamento del lavoro vivo e all’aumento dell’esercito industriale di riserva, si è imposta come unica soluzione il modello affermatosi con Thatcher e Reagan nel mondo anglosassone, che ha alla sua base la più moderna tecnica di organizzazione scientifica della produzione, per massimizzare lo sfruttamento della forza-lavoro: il toyotismo. Tale modello avrebbe prodotto prima in Giappone e poi nei paesi anglosassoni o da essi egemonizzati un notevole abbassamento dei tassi di disoccupazione mediante la precarizzazione, la libertà arbitraria di licenziamento, previa trasformazione dei sindacati da organizzazioni specializzate nella lotta di classe in organismi meramente concertativi, neocorporativi, volti a cogestire, in funzione subordinata, l’estrazione di plusvalore.
Quello che l’ideologia europea evitava di ricordare era che tali nuovi posti venivano creati o con abnormi aumenti dei ritmi e orari di lavoro o con l’abbassamento del salario al di sotto della soglia media, necessaria alla riproduzione del proletariato come classe. Così, ad esempio, ai lavoratori giapponesi la componente fissa dello stipendio veniva ridotta a un terzo della busta paga, mentre gli altri due terzi dipendono dalla “produttività”, cioè dai frenetici ritmi di sfruttamento e dalla quantità di prodotti venduti. Ciò comporta – in una fase di sovrapproduzione – gli straordinari volontari e non retribuiti la domenica e nei pochi giorni di “ferie” residuali, in cui i lavoratori si vedono costretti a dover vendere, gratuitamente, i prodotti del proprio lavoro.
La precarizzazione ha fatto sì che negli Stati uniti, in particolare, siano aumentati spaventosamente gli workingpoors. I salari nei nuovi posti di lavoro sono in maggioranza al di sotto della soglia di povertà, sebbene, per abbassare le tasse ai ricchi, si abbassino le tasse anche ai salariati. Questo, quando la situazione del paese è di una bilancia commerciale con l’estero in rosso, nonostante il corposo aumento della vendita di armi in tutto il mondo.
Andrebbe, inoltre, considerato che la diminuzione della disoccupazione è in gran parte apparente, ovvero vengono considerati come “occupati” anche persone che lavorano pochi giorni l’anno mentre molti disoccupati di lungo periodo sono esclusi dalle statistiche; il non trovare un lavoro adeguato è, dunque, considerato equivalente al non cercarlo.
Del resto, la disoccupazione è un fenomeno strutturale entro un modo di produzione come quello capitalistico, che comporta il costituirsi d’un esercito industriale di riserva, funzionale a ricattare i lavoratori occupati. La pressione della forza-lavoro disoccupata o sottoccupata garantisce il mantenimento del salario degli occupati ai livelli della mera sussistenza. Tanto più che la precarietà non comporta una reale riduzione della disoccupazione, ma produce la frammentazione delle attività lavorative fra più persone. Non si tratta ovviamente del «lavorare meno, lavorare tutti», unica soluzione auspicabile alla piaga sociale della disoccupazione, che Marx consigliava quale primo punto d’ogni programma proletario; dal momento che nel caso del lavoro precarizzato non restano eguali né il salario, diviso in due, né i ritmi di lavoro/sfruttamento, in generale intensificati.
Il problema è che, poiché tendenzialmente il salario corrisponde alla quantità di mezzi di sussistenza necessari alla classe dei lavoratori per riprodursi nel corso del tempo in quanto tale, così con la precarizzazione ed il dimezzamento dei salari il proletariato riesce a malapena a sopravvivere, non certo a riprodursi come classe. Si tratta di una soluzione che si potrebbe definire neomalthusiana, cioè la soluzione all’aumento del numero dei poveri sarebbe possibile rendendo sempre più difficile la riproduzione ai lavoratori precarizzati.
Se tale è il modello ideologico dominante ormai anche in Europa, qui tuttavia tali strategie d’urto non è stato possibile esportarle sic et simpliciter. Non certo per una presunta cultura maggiormente democratica delle borghesie europee, come colonialismo, imperialismo, nazi-fascismo, e neocolonialismo (tutti prodotti europei DOC) basterebbero a dimostrare, ma per la presenza di una tradizione maggiormente combattiva del proletariato rispetto a quella statunitense e per la presenza di movimenti sociali, per quanto sempre più sporadici, non ancora messi completamente in ginocchio dalla repressione, come accadde negli anni sessanta in Giappone, complice l’occupazione statunitense.
In Europa i dirigenti politici sedicenti socialdemocratici, che mantengono l’egemonia sulla maggior parte dei lavoratori, tentano di addolcire l’amara pillola della precarizzazione con una sofistica distinzione fra presunta flessibilità buona e precarizzazione selvaggia che sarebbe da rigettare. Rispetto alle terapie d’urto della destra liberale, tale politica “socialdemocratica” rappresenta una differenza quantitativa e non qualitativa. Del resto, come osservava già Gramsci appena dopo il primo conflitto imperialistico mondiale, le socialdemocrazie europee costituiscono ormai l’ala sinistra del partito della borghesia e non più l’ala destra del movimento proletario.
Per poter vincere lo scontro interno con l’ala destra della borghesia, le socialdemocrazie europee necessitano del sostegno dei sindacati i cui dirigenti, per quanto burocrati o corrotti possano essere divenuti, finché sono a capo dei lavoratori, per mantenervi l’egemonia di contro alle componenti rivoluzionarie, debbono ottenere alcune vittorie apparenti per celare le costanti reali sconfitte.
D’altra parte, per poter conquistare il governo senza assumere una prospettiva a favore delle masse, le socialdemocrazie hanno bisogno del sostegno di settori dell’alta borghesia disponibili ad appoggiarle in quanto garanti di una “pace sociale” che l’aperta lotta di classe delle destre tende a mettere, inevitabilmente, in discussione.
All’attacco frontale dei liberisti i socialdemocratici rispondono con una strategia neocorporativa, volta a coinvolgere anche le dirigenze sindacali nella spartizione delle quote crescenti di plusvalore sottratte ai lavoratori. Esemplare, a tal proposito, appare lo scippo del sistema pensionistico retributivo reso possibile, senza che si producesse un reale prolungato scontro di classe, mediante il coinvolgimento delle burocrazie sindacali nella gestione speculativa dei fondi pensione, che sarebbero necessari a integrare le magre pensioni prodotte dal sistema contributivo. In tal modo, i sindacati di sono resi complici, in posizione nettamente subordinata, dello scippo ai lavoratori della componente differita del salario sociale loro sottratta.
Nel loro tentativo di esportazione del modello sociale nippo-anglosassone sia la destra che la pseudo-sinistra trovano sostegno nel processo di unificazione europea condotto dai governi – cioè dai comitati d’affari che gestiscono gli interessi comuni delle diverse borghesie nazionali – per conto di banchieri e industriali. Il Trattato costituzionale europeo, sonoramente bocciato dai popoli che hanno potuto esprimersi nei referendum popolari, ma poi fatto passare, in modo occulto, pezzo per pezzo, ha formalizzato l’abbandono del modello capitalista renano a favore di quello nippo-anglosassone.
Dal punto di vista ideologico si gioca sul fatto che, in astratto, ogni persona razionale, ovvero di sinistra, dovrebbe trovare auspicabile il superamento degli egoismi e dei conflitti nazionali in organismi sovranazionali. A destra tale trasformazione si giustifica suscitando le pulsioni irrazionali e razziste ancora latenti in larghi strati delle masse. Queste vengono spinte a riconoscersi nel progetto sciovinista di un’unione continentale che dovrebbe consentire all’Europa di far fronte all’avanzare della Repubblica Popolare Cinese, del mondo islamico ideologicamente ridotto a “fondamentalista”, degli ex-popoli colonizzati che ora pretendono di uscire dal sottosviluppo.