Le previsioni economiche per l’anno 2022, diffuse a inizio anno, dovranno essere riviste perché l’annunciata ripresa economica sarà fortemente ridimensionata dalle conseguenze della guerra, tra cui il rincaro delle tariffe energetiche e dei prodotti di prima necessità.
Se guardiamo alcune statistiche possiamo comprendere come la ripresa nel Vecchio Continente, e soprattutto in Italia, fosse assai ridotta se confrontata con i dati economici Usa. Del resto anche gli aiuti economici dell’Unione Europea (Ue) alle nazioni in crisi per la pandemia sono state ben poca cosa rispetto agli interventi decisi dall’Amministrazione Biden.
Qualcuno potrà obiettare che ogni economia decide interventi in base al proprio Pil, ma complessivamente dovremmo guardare anche alla sostanza degli interventi e agli effetti reali sull’andamento dell’economia e dell’occupazione e sulla distribuzione delle ricchezze, che continua a essere sempre più diseguale in tutti i paesi a capitalismo avanzato.
Stando ai dati Istat, la ripresa italiana presenta innumerevoli contraddizioni, e parliamo di analisi antecedenti alla guerra in Ucraina.
Proviamo a fare una sintesi ragionata:
- la ripresa del 2021 non compensa le perdite del 2020;
- i posti di lavoro di nuova creazione sono per lo più a tempo determinato e con contratti di breve durata. Detto in altri termini ci sono troppi part-time e contratti precari a fronte di alcuni occupati con orari lavorativi settimanali superiori a 50 ore (straordinari compresi ovviamente);
- la formazione è ancora del tutto insufficiente, nella Pubblica Amministrazione, in 12 anni, è crollata del 40%;
- non ci sono dati significativi che attestino l’aumento dei giovani laureati e con specializzazioni richieste dal mercato del lavoro;
- cresce il sottoutilizzo della forza lavoro ed esistono contratti per i quali sono richieste mansioni inferiori ai titoli posseduti e ovviamente se ne accettano le proposte per fame;
- l’ascensore sociale è da tempo quasi bloccato;
- l’abbandono scolastico è rimasto invariato, anzi calano immatricolazioni e laureati e perfino i diplomati;
- il part-time involontario, riguardante soprattutto le donne, è calato di poco e siamo ancora lontani dai livelli dell’occupazione dei paesi Ue soprattutto nelle regioni meridionali;
- il lavoro è anche questione di genere perché le giovani madri occupate sono assai meno delle coetanee senza figli il che induce a riflettere sulla organizzazione del lavoro e sulle insufficienti misure di welfare;
- il Pnrr guarda soprattutto a contratti precari e a tempo determinato divenuto da anni la tipologia contrattuale dominante, al contempo riprende anche il lavoro somministrato con rapporti a tempo indeterminato quando l’interinale dovrebbe essere pensato, al pari del tempo determinato, per un tempo ridotto in attesa di regolarizzazione del rapporto di lavoro;
- gli infortuni e le morti sul lavoro, come anche le malattie professionali, non diminuiscono il che conferma la arretratezza del sistema produttivo costruito su elevati carichi di lavoro e condizioni di instabilità e insicurezza. Esiste ed è documentata statisticamente una forte correlazione fra precarietà dei rapporti di lavoro e infortuni, per motivi ovvi;
- sono aumentati, oggi al Cnel ce ne sono quasi 1000, i contratti nazionali applicati nei luoghi di lavoro, molti dei quali con paghe orarie inferiori a un ipotetico salario minimo;
- il potere di acquisto dei salari è stato eroso da aumenti delle tariffe energetiche e da rinnovi contrattuali irrisori;
- non è all’ordine del giorno l’abbassamento dell’età pensionabile o la revisione del codice Ipca (l’attuale meccanismo, rivelatosi del tutto inadeguato, di indicizzazione dei salari). Si pensa invece a tagliare la spesa sociale per finanziare la riduzione del costo del lavoro, rinviando alcuni ipotetici aumenti alle misure del welfare aziendali (che sono di solito detassate);
- negli ultimi 20 anni, con il calo del potere d’acquisto di salari e pensioni, è calata vertiginosamente anche la domanda.
Alla luce di queste considerazioni, scaturite da innumerevoli rapporti e relazioni, è possibile pensare alla riduzione del costo del lavoro come leva per la ripresa dell’occupazione e dell’economia? È lecito pensare che le associazioni datoriali siano tartassate di tasse quando da decenni si va verso accordi di secondo livello basati sulla detassazione e in costante deroga al contratto nazionale di lavoro da applicare?
Questi sono gli argomenti dirimenti per il mondo sindacale se vogliamo restituire forza contrattuale e potere di acquisto ai salariati.