La politica estera della UE riceve molta meno attenzione della politica estera degli Stati Uniti, il che è comprensibile dato il ruolo subordinato che gli europei svolgono nei confronti dei loro “alleati” d’oltremare. Tuttavia, poiché la leadership della UE è diventata sempre più aggressiva da quando l’operazione militare russa è iniziata lo scorso febbraio, forse vale la pena indagare quali principi la ispirino e verso quali orizzonti si muova.
Recentemente Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, e Josep Borrell, rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza della UE, hanno pronunciato due interessanti discorsi – la prima il 12 ottobre alla conferenza degli ambasciatori della UE e il secondo due giorni dopo in occasione dell’inaugurazione del College of Europe di Bruges, programma universitario progettato per coltivare la prossima generazione di diplomatici europei. Analizzare tali discorsi può aiutarci ad avere una visione più chiara della politica estera dell’Unione Europea.
Von der Leyen e l’ordine basato sulle regole
Il discorso di Ursula von der Leyen, decisamente più strutturato e analitico di quello di Borrell, parte dal conflitto ucraino, in cui la UE ha completamente sposato la parte ucraina, di cui loda l’eroismo e a cui assicura totale dedizione. L’altra parte nel conflitto, la Russia, è accusata di avere aggredito “senza alcuna provocazione” l’Ucraina e di avere costretto gli abitanti dei quattro oblast recentemente incorporati nella Federazione Russa di votare dei referendum sotto la minaccia delle armi, mentre Putin è accusato di avere minacciato l’uso del nucleare. Niente di nuovo; questo è ciò che ha ripetuto incessantemente e praticamente senza contradditorio la stampa occidentale – ma almeno sulla presunta minaccia di uso di armi nucleari forse varrebbe la pena leggere il testo integrale e autentico del discorso di Putin del 30 settembre in occasione dell’ingresso delle nuove repubbliche nella Federazione.
Comunque, per quanto riguarda Putin, un punto da sottolineare nel discorso di von der Leyen è questo: “Putin ha persino chiesto, nel suo discorso sull’annessione: ‘Chi è mai stato d’accordo su un ordine globale basato sulle regole?’ Ebbene, i russi l’hanno fatto sicuramente. Lo hanno fatto quando hanno firmato la Carta delle Nazioni Unite, proprio come tutte le altre nazioni del mondo... L’ordine globale basato sulle regole appartiene al mondo. È il miglior antidoto contro l’instabilità perpetua in tutti i continenti. E tutte le nazioni del mondo lo vedono…”.
Impossibile pensare che von der Leyen ignori la contrapposizione fra i due termini “ordine globale basato sulle regole”, direttamente tradotto dall’inglese rules-based global order, e “ordine globale basato sul diritto internazionale”. Quindi qui la malafede è evidente. Ultimamente infatti questa contrapposizione solo apparentemente semantica è diventata uno degli elementi costitutivi di due antitetiche visioni politiche: quella unipolare dell’Occidente globale a guida USA contro quella pluripolare del Sud del mondo, in cui la Cina sta rivestendo un ruolo sempre più rilevante.
“L’ordine internazionale basato sulle regole» sostenuto dagli Stati Uniti è in effetti un’altra versione della sua politica di potere. Questo è un tentativo di imporre la propria volontà e i propri standard agli altri e di sostituire le leggi e le norme internazionali comunemente accettate con le regole interne di alcuni paesi.
Nel mondo esiste un solo sistema internazionale, ovvero il sistema internazionale con l’Onu al centro. C’è un solo ordine internazionale, cioè l’ordine internazionale sostenuto dal diritto internazionale. E c’è un solo insieme di regole, ovvero le norme di base che regolano le relazioni internazionali, sostenute dagli scopi e dai principi della Carta delle Nazioni Unite” (da Verifica dei fatti: le falsità nella percezione statunitense della Cina, Ministero degli Esteri Repubblica Popolare Cinese).
E infatti ecco che nel discorso della presidente della Commissione Europea fa a questo punto la sua comparsa la Cina, che con la sua asserita ‘collaborazione senza limiti’ con la Russia metterebbe in pericolo ‘l’ordine del dopoguerra, costruito sui valori fondamentali della Carta delle Nazioni Unite’ (sic).
Quindi è la volta dell’Iran, che attua politiche repressive nei confronti delle donne e reprime brutalmente le manifestazioni di protesta. Poiché la UE è sensibile alle sofferenze del popolo iraniano, aumenterà le sanzioni contro quel paese. Nell’uso delle sanzioni contro paesi terzi, la politica UE assomiglia sempre più a quella degli USA.
“In epoca antica, un esercito che non poteva conquistare una città racchiusa da mura difensive assediava la città per bloccare la fornitura dei rifornimenti necessari alle persone che vi risiedevano. Questa strategia non è cambiata in modo significativo da allora. Al giorno d’oggi, solo pochi paesi osano usare armi di distruzione di massa; al contrario, le sanzioni economiche sono sempre più utilizzate da alcune nazioni potenti, presumibilmente come un mezzo umano per imporre pressioni su un paese affinché cambi il suo comportamento e accetti di conformarsi a ciò che è stato chiesto...” (da “The Lancet”, autorevole rivista medica britannica).
Le sanzioni contro un paese sono intese a provocare sofferenze nei comuni cittadini, nella speranza che questi ne attribuiscano le cause ai loro governi provocandone quindi la caduta. Sul livello di sofferenze che tali sanzioni possono causare, basti ricordare un rapporto dell’Unicef del 1999 secondo il quale almeno 500.000 bambini morirono in Iraq come conseguenza diretta delle sanzioni imposte nel 1990 dall’Onu.
Un orizzonte globale per la UE
“In questi tempi di trasformazione e turbolenza, l’Europa deve impegnarsi ancora di più sulla scena mondiale. Dobbiamo consolidare la nostra capacità di proteggere i nostri valori. Dobbiamo raggiungere tutti i paesi, dalle democrazie che condividono la nostra visione ad altri che potrebbero condividere alcuni dei nostri interessi su questioni specifiche. Quindi oggi vorrei trarre alcune lezioni su come possiamo impegnarci con partner diversi. Innanzitutto con le democrazie che la pensano al nostro stesso modo; in secondo luogo, con i futuri membri della nostra Unione; terzo, con i paesi meno vicini; ed infine, con i paesi di tutto il mondo, come mezzo per promuovere i nostri interessi e per far avanzare i nostri valori sulla scena mondiale”.
Da questa premessa von der Leyen procede puntigliosamente a:
1) incensare il rapporto con gli USA che non è mai stato così forte e la cui fornitura di Gnl ha permesso ai paesi UE di limitare la dipendenza dai combustibili fossili russi;
2) parlare dell’allargamento dell’Unione (Albania, Macedonia del Nord, Bosnia Erzegovina, Ucraina, Moldova e Georgia) con il presupposto che i Balcani occidentali fanno parte della famiglia europea;
3) illustrare gli accordi sull’energia conclusi a giugno con Egitto e Israele, investimenti in Africa settentrionale su varie fonti energetiche e su programmi alimentari, futuri investimenti in Asia occidentale e Asia centrale;
4) accennare ad investimenti attraverso il progetto Global Gateway su sistemi sanitari e varie infrastrutture, per esempio digitali, in Africa e anche in Asia Pacifico.
Nell’enunciare le attuali e future azioni verso e con tali diversi soggetti, spicca in primo piano nel discorso l’impegno della UE per accelerare la transizione verso forme di energia pulita, sia da parte dei propri stati membri, sia dei paesi partner di progetti europei nel mondo.
Risultano invece totalmente assenti alcuni punti di criticità, non certo secondari, come ad esempio le problematiche di tipo ambientale legate all’estrazione, lo stoccaggio ed il trasporto via nave del Gnl statunitense, per non parlare del prezzo, superiore almeno del 30-40% rispetto a quello russo.
Bene che l’Europa si senta così impegnata sul fronte della lotta al cambiamento climatico, ma siamo sicuri che alla sua sensibilità ecologica si accompagni un’adeguata consapevolezza dei bisogni e delle problematiche dei paesi in via di sviluppo? Vale a dire, le istituzioni europee si attengono al cosiddetto settimo principio delle responsabilità comuni ma differenziate concordato nella dichiarazione della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo del 1992, il cosiddetto “Summit della Terra”, secondo il quale “tutte le nazioni devono assumersi delle «responsabilità comuni» per ridurre le emissioni, ma ... i paesi sviluppati hanno la maggiore «responsabilità differenziata» dovuta al fatto storico di avere contribuito molto di più alle emissioni globali cumulative che sono causa del cambiamento climatico”? Recentemente, per esempio, l’Unione Africana ha protestato contro una risoluzione approvata dal parlamento UE il 14 settembre scorso che condanna il progetto di costruzione di un oleodotto in Africa orientale tra l’Uganda e la Tanzania adducendo preoccupazioni per l’ambiente e i diritti umani.
All’Unione Europea, preoccupata che le emissioni di carbonio derivanti dai combustibili fossili utilizzati nell’oleodotto avrebbero effetti negativi sui cambiamenti climatici, l’Unione Africana ricorda senza mezzi termini che nel frattempo alcuni paesi europei stanno persino valutando la ripresa dell’utilizzo del carbone!
Nel suo discorso von der Leyen esprime preoccupazione anche per “una crisi del debito legata alla ‘Belt and Road’... Decine di paesi sono fortemente indebitati con la Cina. Otto di questi paesi, dall’Angola al Laos, spenderanno nel 2022 oltre il 2% del proprio reddito nazionale lordo per pagare il debito con la Cina.
Il nostro programma di investimento Global Gateway mira a offrire ai paesi una scelta migliore, per offrire loro un’alternativa. Sono investimenti che saranno sostenibili, non solo per le finanze dei nostri partner – questo è importante, sì – ma anche per l’ambiente e, naturalmente, per le comunità locali.”
La Cina costruisce infrastrutture in Africa, Asia, America Latina, persino in Europa nel quadro della Belt and Road Initiative (Nuova Via della Seta) dal 2013. Decisi a contrastare questo progetto, gli USA e la UE hanno annunciato i propri rispettivi controprogetti Build Back Better World (B3W) e Global Gateway. Sul fatto che essi rappresentino davvero la scelta migliore, forse sarebbe meglio lasciar decidere i paesi interessati.
La questione della cosiddetta “trappola del debito” cinese è stata dimostrata per quella che è, ovvero una delle tante armi utilizzate dagli occidentali nella loro guerra di propaganda contro la RPC, in un articolo dal titolo “La trappola del debito cinese è un mito” su “The Atlantic”, nientemeno che da Deborah Brautigam, professoressa di Economia politica internazionale presso la School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University, la quale non può certo essere sospettata di simpatizzare per la RPC.
È vero invece che molti paesi in via di sviluppo hanno affermato di preferire i progetti di investimento proposti dalla Cina, non subordinati a condizioni politiche, a quelli occidentali sostenuti dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, che richiedono invece l’adozione di misure politiche e sociali le quali impattano fortemente la vita delle popolazioni locali e quasi sempre portano ad un indebitamento dei paesi interessati di gran lunga superiore al 2% di cui parla von der Leyen per Laos ed Angola.
Attenzione: elefanti nella stanza
Il discorso della presidente della Commissione Europea è assai significativo non solo per ciò che afferma, ma anche per ciò che non dice – non proprio bazzecole, bensì veri e propri “elefanti nella stanza”.
Elefante 1: molta attenzione è dedicata al tema dell’approvvigionamento energetico della UE, ma neppure una parola viene spesa sul tema del sabotaggio dei due gasdotti Nord Stream 1 e 2, che pure sono infrastrutture strategiche costruite principalmente per volontà di paesi europei e la cui proprietà è compartecipata da compagnie europee insieme con il gigante russo dell’energia Gazprom. Tale sabotaggio è un atto gravissimo dal punto di vista del diritto internazionale e ha causato inoltre danni ambientali non ben quantificati. Eppure sia le istituzioni europee sia i media occidentali sembrano mantenere un silenzio quasi tombale sulla questione.
Elefante 2: sulla questione dei Balcani occidentali, von der Leyen afferma “Il loro [dei nostri oppositori] obiettivo è creare un cuneo tra i Balcani occidentali e il resto d’Europa. Eppure, e questo è commovente, la stragrande maggioranza dei cittadini dei Balcani occidentali aspira a far parte dell’Unione Europea. Dobbiamo cogliere il momento. Dobbiamo spingere per questo slancio. I Balcani occidentali appartengono alla nostra famiglia e dobbiamo renderlo molto, molto chiaro. È un po’ come negli anni Settanta, quando Spagna, Portogallo e Grecia scelsero la democrazia. O quando i combattenti per la libertà abbatterono il muro di Berlino”.
Chissà come suonano queste parole alle orecchie del popolo della Serbia, dove è ancora aperta la ferita provocata dall’aggressione della NATO del 1999 con la conseguente creazione del Kosovo, attualmente percorso da gravi tensioni foriere di altri prossimi conflitti nella regione.
Elefante 3: c’è da chiedersi infine se le varie istituzioni europee si pongano mai la domanda di come le loro dichiarazioni, azioni ed iniziative possano essere accolte dai paesi che l’Europa ha colonizzato, rapinato e ridotto in schiavitù per secoli e che ora esse pretendono di mettere in guardia contro i pericoli russo e cinese.
Questo terzo elefante assume addirittura proporzioni mastodontiche nel discorso pronunciato da Josep Borrell a Bruges il 14 ottobre scorso.
Le metafore poetiche di Borrell
“Sì, l’Europa è un giardino. Abbiamo costruito un giardino. Tutto funziona. È la migliore combinazione di libertà politica, prosperità economica e coesione sociale che l’umanità è stata in grado di costruire, le tre cose insieme...
Il resto del mondo... non è esattamente un giardino. La maggior parte del resto del mondo è una giungla e la giungla potrebbe invadere il giardino. I giardinieri dovrebbero occuparsene, ma non proteggeranno il giardino costruendo muri. Un bel giardinetto circondato da alte mura per impedire l’ingresso della giungla non sarà una soluzione. Perché la giungla ha una forte capacità di crescita e il muro non sarà mai abbastanza alto per proteggere il giardino.
I giardinieri devono andare nella giungla. Gli europei devono essere molto più coinvolti con il resto del mondo. Altrimenti, il resto del mondo ci invaderà, in modi e mezzi diversi”.
Così Borrell, rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, si è rivolto alla prossima generazione di diplomatici europei – i giardinieri della metafora – in occasione dell’inaugurazione del College of Europe di Bruges, un’accademia diplomatica europea.
Stavolta l’elefante ha dimensioni così colossali che è praticamente impossibile non vederlo.
Così il 17 ottobre il capo ad interim della delegazione UE negli Emirati Arabi Uniti è stato convocato dalle autorità di Abu Dhabi per dar conto dei commenti fatti dal capo della politica estera della UE e l’ufficio di Josep Borrell ha ricevuto una richiesta di spiegazione scritta. Secondo il Ministero degli Affari Esteri degli Emirati i commenti razzisti di Borrell hanno contribuito a un peggioramento del clima di intolleranza e discriminazione in tutto il mondo.
Così “i nostalgici del colonialismo riaffiorano come mostri”, ha twittato martedì 18 ottobre il ministro di Stato del Qatar, Hamad al-Kawari, in risposta a Borrell.
E prima ancora la portavoce del ministro degli Esteri russo Maria Zakharova: “L’Europa ha costruito quel ‘giardino’ attraverso il barbaro saccheggio della ‘giungla’. Borrell non avrebbe potuto esprimerlo meglio: il più prospero sistema del mondo, creato in Europa, nutrito da radici in colonie che hanno spietatamente oppresso”.
La guerra in Ucraina e il nuovo ordine mondiale
“Questo è un momento serio della storia e dobbiamo mostrare la nostra unità, la nostra forza e la nostra determinazione. Determinazione completa... È chiaro che dobbiamo continuare a sostenere l’Ucraina e dobbiamo continuare a cercare soluzioni diplomatiche quando possibile. Per il momento, non ci sono, ma un giorno o l’altro dovranno esserci” [Ma il 9 aprile scorso, di ritorno da Kiev, Borrell, lungi dal parlare di negoziati per finire il conflitto, dichiarava: questa guerra sarà vinta sul campo]. Siamo in un momento di creazione... Il sistema basato sulle regole che difendiamo è messo in discussione come mai prima d’ora... Bene, il sistema basato sulle regole – e qui abbiamo il [presidente della Russia, Vladimir] Putin che dice, sfidando direttamente il sistema: chi decide quali sono queste regole? E grazie a Dio il sistema ha reagito molto bene ieri con il voto alle Nazioni Unite con più di 140 paesi che hanno bocciato l’annessione illegale – l’annessione forzata – di una parte dell’Ucraina alla Federazione Russa... Ma se posso dirlo... devo anche dire che sono preoccupato perché ci sono state troppe astensioni. Quando più o meno il 20% della comunità mondiale ha deciso di non sostenere o non rifiutare l’annessione russa, per me sono troppi. Sono troppi... [da notare che quel 20% di cui parla Borrell, però, equivale a circa la metà degli abitanti del pianeta] … Dopo questa guerra, ci sarà un periodo di instabilità e dovremo costruire un nuovo ordine di sicurezza. Come integriamo la Russia – la Russia post-Putin – in questo ordine mondiale è qualcosa che darà molto lavoro alle persone che pensano alla diplomazia, a come esercitarla e implementarla.” [La Russia post-Putin?! Che facciamo se i nove pacchetti di sanzioni contro la Russia continuano a non ottenere l’effetto sognato dalla UE? Organizziamo un colpo di stato a Mosca? O forse l’ennesima rivoluzione colorata?]
La guerra e l’arte della diplomazia
Nel frattempo nel nostro continente, in Ucraina, continua la guerra devastante che ormai personaggi di spicco della politica statunitense, compreso il Segretario alla Difesa Lloyd Austin, hanno ammesso sia una guerra di procura che la NATO a guida USA intende combattere in Ucraina “fino all’ultimo ucraino” per indebolire la Russia.
Ammettiamo pure che questa guerra sia nell’interesse degli USA, ma siamo sicuri che questo interesse coincida con quello degli ucraini e degli europei?
A sette mesi da quando il conflitto in Ucraina si è trasformato da strisciante guerra civile in una guerra tout court, in Ucraina migliaia di uomini sono morti e continuano a morire in battaglia e una parte del territorio è già andata perduta, mentre nei paesi dell’Unione si sta dispiegando una crisi economica e sociale che non potrà che aggravarsi con l’avvicinarsi dell’inverno.
D’altra parte lo stesso Borrell, in un precedente discorso del 10 ottobre, ammetteva che “la nostra prosperità si è basata sull’energia a basso costo proveniente dalla Russia. Gas russo: economico e presumibilmente conveniente, sicuro e stabile... E l’accesso al grande mercato cinese, per le esportazioni e le importazioni, per i trasferimenti tecnologici, per gli investimenti, per avere beni a basso costo... Quindi, la nostra prosperità si basava su Cina e Russia: energia e mercato.”
Che cosa ha fatto la diplomazia europea per impedire il disastro della guerra? Dove e come si è differenziata dalla politica degli USA e della NATO? Come ha risposto alle richieste di garanzia che la Federazione Russa da anni poneva di fronte alla continua espansione della NATO? Perché i due maggiori paesi europei – Francia e Germania – non hanno svolto con onestà e diligenza il ruolo di garanti degli Accordi di Minsk che si erano assunti nel 2015?
E quando ad aprile le trattative di pace fra Russia ed Ucraina in corso ad Istanbul sono state fermate dalla visita di Boris Johnson a Kiev, che cosa ha fatto la diplomazia UE per far rivivere le possibilità di risoluzione del conflitto?
Putin, von der Leyen, Borrell passeranno e saranno sostituiti da altri, ma la Russia farà sempre parte del continente europeo, quindi la scelta razionale ed etica non può che essere una sola: assicurare la pacifica convivenza di russi e degli altri europei, nel riconoscimento e rispetto dei reciproci diritti alla sicurezza.
Perché, come saggiamente afferma Tang Shiping, professore di Relazioni Internazionali alla Fudan University di Shanghai, “l’arte della diplomazia non è cercare l’emotivamente gratificante, ma il razionalmente possibile all’interno di vincoli geografici”.