Spesso è stato osservato quale ruolo nefando stia giocando l’informazione rispetto alla Guerra del Golfo [1]. I critici non tanto ne sottolineano l’unilateralità e la non attendibilità, quanto la densità ideologica: che le notizie dai fronti di battaglia siano sottoposte a censure preventive e a deformazioni interessate può addirittura essere comprensibile e opportuno (per esempio, rispetto a esigenze diplomatiche e militari). Ciò che indigna è, invece, la pertinace, “totalitaria” utilizzazione dell’informazione per costruire l’opinione pubblica (cioè, delle larghe masse) intorno ad alcuni concetti non semplici ma rozzi, non precisi ma netti, non plausibili ma indiscussi.
In realtà, tale indignazione, in un certo senso, è ingiustificata: è assai probabile (a esser cauti) che un analogo imbarbarimento culturale caratterizzi ogni guerra (anche non guerreggiata), in particolare nell’epoca moderna, se non altro a partire dalla Prima guerra mondiale – intendo da quando il conflitto ha assunto carattere totale, da quando l’assassinio di massa coinvolge indifferentemente soldati e civili, e da quando il reale teatro dello scontro militare non è che l’aspetto più evidente e drammatico di un coinvolgimento in realtà universale (e questo è, appunto, anche oggi il caso).
Il denunciato ruolo dell’informazione sembra piuttosto dover orientare verso altre inferenze e deduzioni. Una in particolare: non è serio chiedersi – come oggi torna a farsi – se questa o quella guerra sia o non sia “giusta”.
Se giusto/ingiusto è polarità morale, allora, implica una radicalità, universalità e libertà, assolutamente non riconoscibili né alla guerra, né a qualunque rilevante vicenda politica.
Infatti, ogni volta che l’azione politica assume carattere rilevante (quindi, non solo nelle guerre) il potere statuale getta, a dir così, la maschera, rilevando appieno la sua funzione manipolatrice, la sua destinazione di strumento per imporre credenze, la cui forza non dipende dalla plausibilità razionale, sì piuttosto da valori estrinseci, come l’insistenza, la valenza emozionale, la rozza semplicità.
Se così stanno le cose, ecco che allora una condizione della vita morale – intendo il mio trovarmi libero di fronte alla responsabilità della scelta – è oggettivamente tolta: la società intera è cacciata in una condizione priva di alternative, in cui la retorica propagandistica si fa del tutto invasiva; dotata dei potenti strumenti manipolatori di cui lo Stato e le classi dirigenti dispongono, la propaganda entra in ogni modo nel profondo, nei livelli meno controllati della mente individuale e di massa, per cementare il “fronte interno”, per distruggere il desiderio stesso di un punto di vista autonomo e razionale.
La prospettiva morale, inoltre, non tollera certe separazioni (tra “noi” e “gli altri”, tra “amici” e “nemici”), da cui l’azione politica non solo non può prescindere ma di cui è addirittura costituita. Si pensi – per prendere la cosa in un suo vertice estremo e, dunque, più chiaro – a quel principio, che già la riflessione greco-classica elaborò, per cui è moralmente preferibile patire un torto, che non rendersene responsabile. Si tratta di un principio che, come è chiaro, taglia alle radici ogni ottica utilitaristica, da cui, invece, la politica non può certo prescindere. Dunque, non vale indignarsi per un certo uso dell’informazione, né è serio discutere il valore morale anche di questa guerra.
La realtà è che la vicenda politica, in quanto tale, si svolge secondo grammatiche particolari, presuppone agenti e finalità, che non sono quelli operanti in sede morale. È di questa determinatezza, specificità del politico, che dobbiamo realisticamente prendere atto – come d’altronde una lunga tradizione di pensiero ci apprende.
Cosa deriva da questa necessità? Dobbiamo forse accettare la guerra e in particolare questa guerra?
NO. Ne deriva, invece, che proprio emergendoci dentro la dimensione politica, prendendo atto delle sue regole, dei suoi autori e delle sue finalità, dunque, radicandosi nell’effettivo terreno politico, è così collocandosi che dobbiamo definire le nostre ragioni contro la guerra, contro questa guerra.
Appunto, diversi sono gli attori dell’agire politico; e alcuni – per i loro progetti, interessi e credenze – debbono portar guerra (anche non guerreggiata); in caso contrario, dovrebbero rinunciare a ciò che rappresentano, dovrebbero dismettere il ruolo che storicamente loro appartiene.
Ma vi sono anche altri soggetti, i cui interessi e finalità si coniugano con forme crescenti di autogoverno democratico, con lo sviluppo della razionale, consapevole gestione della vita sociale, con la conseguente, pratica presa d’atto, che il “mondo è interconnesso”, che ognuno di noi non tanto appartiene a quella o questa patria, quanto piuttosto è cittadino di un’unica patria, è membro di una unica umanità, la quale non conosce né differenze di razza, né differenze religiose, ma solo ostilità profonda per quegli interessi particolari e costituiti, in tanto perseguibili, in quanto producono divisione, sfruttamento e guerra.
Questi, al fondo, i termini attuali dello schieramento politico possibile. E noi ci schieriamo contro la guerra, appunto.
Note:
[1] Il riferimento è alla Prima guerra del Golfo che fu combattuta dal 1990-1991 contro l’Iraq da una coalizione di 35 paesi.