Flessibilità e precariato occupano da tempo un posto di rilievo nel dibattito politico-economico quali principali caratteristiche delle “nuove” tipologie di lavoro che sono state via via introdotte: contratti a termine, apprendistato, lavoro a chiamata, stagionale, part-time, a progetto. L’ideologia dominante considera il precariato una variante distorta della flessibilità prodotta dalla discontinuità occupazionale e retributiva che impedisce di pianificare la propria esistenza. La flessibilità, invece, consentirebbe ai lavoratori di non esser più legati allo stesso lavoro per tutta la vita, mutando mansioni e impieghi in modo da accrescere le proprie competenze professionali e, di conseguenza, il valore della propria forza-lavoro.
La realtà ha, al solito, smentito tali narrazioni ideologiche, mostrando quanto sia sempre più arduo tracciare una chiara distinzione fra i due concetti, in quanto la flessibilità, all’interno del modo di produzione capitalistico, è stata funzionale alla diffusione del lavoro precario, favorendo la disarticolazione progressiva dei vincoli legali che regolano le condizioni di lavoro e i licenziamenti. Proprio perciò la flessibilità mentale è ancora oggi la competenza più ricercata sul mercato del lavoro. Si sono persino commissionati un numero crescente di studi volti a indagare la struttura del pensiero flessibile e si è finanziata una narrazione ideologica volta a estetizzare la flessibilità.
Il processo di produzione oggi dominante tende, sotto la pressione della concorrenza, a ridurre l’apporto del lavoro umano al prodotto finale a fronte della crescente produttività automatizzata, ovvero a sostituire il lavoro umano con le macchine. Col progredire tecnologico, la specifica attività creatrice di valore dell’operaio tende a risolversi in frantumi atomizzati di un processo complessivo, regolato dalle macchine, che il lavoratore non è più capace di comprendere, essendo ridotto a accessorio vivente dell’azione delle stesse macchine. Tale tendenza del capitale in tal modo ha accumulato come sua proprietà – come capitale fisso – la stessa scienza e la crescente abilità delle forze produttive sociali, depositata nelle macchine, soverchiando sempre più il lavoro umano facendolo apparire superfluo, riducibile a proporzioni sempre più esigue, per quanto indispensabili alla valorizzazione del capitale, ma rigidamente a essa subalterne.
Nel modo di produzione oggi dominante si determina dunque, nei paesi investiti da una crisi economica come quella in corso, un ingente aumento della disoccupazione, ovvero in termini scientifici, una progressiva sovrapproduzione relativa della forza-lavoro. In effetti, più il modo di produzione capitalistico si sviluppa, più il lavoro meccanico sostituisce il lavoro umano, più si viene formando una sovrappopolazione della forza-lavoro a fronte della possibilità di impiego. Così il sedicente “mondo libero” ha reagito alla crisi di capitale scaricandola, come al solito, sul “mondo del lavoro”.
In tale contesto, la soluzione a tale drammatica crescita della disoccupazione, viene individuata dagli imprenditori nel rendere flessibile l’organizzazione del lavoro, in modo da poter assumere i lavoratori di cui abbisognano in un determinato momento senza vedersi costretti a tenerli sotto contratto oltre il necessario. In altri termini, le imprese sfruttano le situazioni di crisi per far apparire indispensabile, agli occhi degli stessi lavoratori, l’introduzione di forme di lavoro flessibile e precario, per facilitare le assunzioni mediante contratti poco vincolanti e meno costosi a livello previdenziale.
L’arma estrema – indicata in una nuova flessibilità del lavoro – viene a configurarsi come tentativo di compensare la perdita secca del lavoro, a carico di masse crescenti di proletari in tutto il mondo, con una precarizzazione generalizzata di occupazione e salario. Quest’arma, che assume la parvenza sensazionale della “solidarietà” tra poveri emarginati, è in realtà la forma del sostegno diretto che la borghesia dominante esige, imponendola ai propri sudditi.
Ciò nonostante la disoccupazione è rimasta, in media, più che doppia rispetto a quella degli anni sessanta, nonostante l’alto grado di sottosalarizzazione, precarietà e irregolarità-regolarizzata dei nuovi posti di lavoro. “Il lavoro ci sarebbe – si usa dire – sono i soldi per retribuirlo che mancano!” Se i “lavoratori” decidessero di lavorare gratis, o a metà prezzo, comunque sottocosto, vedreste che la cosiddetta disoccupazione si dissolverebbe come nebbia al sole. Prova evidente ne sono i nuovi posti di lavoro in paesi capitalisti come gli Usa, tutti irregolari, in nero o interinali. Se si accetta di lavorare da working poor diviene indubbiamente più agevole trovare qualsiasi tipo di occupazione.
È l’accumulazione capitalistica che costantemente produce, in proporzione alla propria energia e al proprio volume, una popolazione lavoratrice relativamente addizionale, ossia eccedente i bisogni medi di valorizzazione del capitale, e quindi sovraprodotta. Dunque la popolazione lavoratrice produce in misura crescente, mediante l’accumulazione del capitale da essa prodotta, i mezzi per rendere se stessa relativamente eccedente. D’altra parte, se una sovrappopolazione di lavoratori è il prodotto necessario dell’accumulazione, questa sovrappopolazione diventa, al contempo, la leva dell’accumulazione capitalistica e addirittura una delle condizioni della stessa sopravvivenza del modo di capitalistico di produzione. La forma di tutto il movimento dell’industria moderna si sviluppa, in effetti, dalla costante trasformazione di una parte della popolazione lavoratrice in un esercito di riserva alle dipendenze del capitale. La sovrappopolazione relativa esiste in tutte le sfumature possibili. Ne fa parte ogni lavoratore durante il periodo in cui è occupato part-time o è disoccupato. Essa appare ora acuta al momento delle crisi, ora cronica in epoche di stagnazione, e assume ininterrottamente le tre forme già descritte da Marx: fluttuante, latente e stagnante.
Nei centri dell’industria moderna i lavoratori sono ora respinti, ora di nuovo attratti in misura maggiore. La sovrappopolazione esiste qui in forma fluttuante. Un tale costante flusso presuppone l’esistenza nelle campagne del mondo intero di una sovrappopolazione costantemente latente, il cui volume si fa visibile solo nel momento in cui l’accumulazione allargata del capitale schiude i canali di deflusso in maniera eccezionalmente larga. Questi lavoratori che vengono dall’agricoltura sono sfruttati al minimo del salario e si trovano sempre con un piede dentro la palude del pauperismo. La terza categoria della sovrappopolazione relativa, quella stagnante, costituisce una parte dell’esercito industriale attivo, ma con una occupazione assolutamente precaria. Essa offre in tal modo al capitale un serbatoio inesauribile di forza-lavoro flessibile e disponibile. Il controllo operaio sulla proprietà della forza-lavoro sta subendo, dunque, l’aggressione capitalistica attraverso l’allargamento sconfinato dell’esercito industriale di riserva e l’abbassamento qualitativo e, quindi, il deprezzamento del valore della forza-lavoro stessa.
D’altra parte la flessibilità del lavoratore e la precarietà del suo impiego possono essere considerati, almeno da Adam Smith in poi, una peculiarità del modo capitalistico produzione. In effetti la forza-lavoro nasce precaria: “il concetto di lavoratore libero implica già che egli è povero: virtualmente povero. Per le sue condizioni economiche egli è una mera capacità di lavoro viva, quindi con tanto di bisogni vitali. Indigenza in ogni senso, che non ha, in quanto capacità di lavoro, un’esistenza oggettiva per realizzarla. Se per caso il capitalista non ha bisogno del suo pluslavoro, egli non può effettuare il suo lavoro necessario. La forza-lavoro può eseguire il suo lavoro necessario solo se il suo pluslavoro ha un valore per il capitale, se cioè è valorizzabile per il capitale. Quando perciò questa possibilità di valorizzazione è impedita da un ostacolo qualsiasi, la forza-lavoro stessa si presenta al di fuori delle condizioni di riproduzione della sua esistenza; il lavoro necessario si presenta come superfluo, perché quello superfluo non è necessario. Necessario lo è solo nella misura in cui è la condizione per la valorizzazione del capitale” [1].
Soltanto nel modo di produzione fondato sul capitale il pauperismo si presenta come risultato del lavoro stesso, dello sviluppo della forza produttiva del lavoro. Se da un lato la sua accumulazione aumenta la domanda di lavoro, dall’altro essa aumenta l’offerta di lavoratori mediante la loro “messa in libertà”, mentre allo stesso tempo la pressione dei disoccupati costringe i lavoratori occupati a rendere liquida una maggiore quantità di lavoro rendendo, in tal modo, l’offerta di lavoro in una certa misura indipendente dall’offerta di lavoratori. Il movimento della legge della domanda e dell’offerta di lavoro su questa base porta a compimento il dispotismo del capitale.
La proletarizzazione avveniva già nell’ottocento nelle forme fluttuanti (attrazione e repulsione della forza-lavoro), latenti (stabilizzazione dell’attesa di lavoro, rischio costante di caduta nel pauperismo), stagnanti (lavoro irregolare, pauperismo spesso irreversibile). Il proletario vive in una condizione di libertà fittizia, in quanto per vivere ha bisogno di vendere a qualcun altro la propria capacità (fisica o intellettuale non fa differenza in questo caso) per un quantitativo di ore, in cambio di una somma di denaro necessaria alla sussistenza sua e della (eventuale) famiglia. La forza lavoro è legalmente libera, ma è vincolata dal bisogno fisiologico di dover vendere comunque l’unica merce di cui dispone dalla nascita e che “ha mercato” e quindi un valore e un prezzo (il salario): la capacità lavorativa contenuta nelle proprie fibre muscolari o cerebrali. L’intuizione rivoluzionaria borghese è consistita nel comprendere quanto fosse vantaggioso “liberare” i membri delle classi subordinate da vincoli legali, alienandoli, dunque, dalla condizione di merce, rendendo merce, invece, solo la parte di cui realmente necessitavano per organizzare socialmente la loro produzione: la forza-lavoro, ossia la capacità fisica e intellettuale di interagire con la natura, come con le macchine.
Il lavoro a progetto, stagionale, in affitto ecc. è, dunque, il modo sicuramente ottimale per realizzare l’autovalorizzazione del capitale, ossia l’accumulazione di nuovo capitale, reale finalità della produzione. Non è peraltro una novità, dato che la precarietà del lavoro salariato è nata insieme al capitalismo e ne ha permesso “vita, morte e miracoli”, sebbene venga presentata demagogicamente come una peculiarità del “nuovo millennio”, per di più passeggera e riformabile.
La novità quindi non è nella strategia, permanente, ma nell’adeguamento tattico alla fase. Se ancora nell’Ottocento era sufficiente sostituire i più qualificati con i meno qualificati, uomini con donne, adulti con giovani ecc., oltre a questi meccanismi sempre in auge, se ne sono aggiunti altri più efficienti.
Note:
[1] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. II, La Nuova Italia editrice, Firenze 1978, p. 268.