Il governo Draghi favorisce di nuovo le imprese con lo sblocco dei licenziamenti e con nuove regole degli appalti.
Dal 1° luglio le imprese dell’industria e dell’edilizia potranno scegliere se utilizzare la cassa integrazione ordinaria in modo gratuito, risparmiando così mediamente una cifra di ben oltre il 10% della retribuzione, o licenziare.
Da parte sua la normativa sugli appalti stravolge le regole preesistenti e prevede la libertà di subappaltare a imprese più piccole o cooperative il 50% dei lavori. Non solo: questa normativa vale fino a ottobre 2021 ed è temibile che dopo questa data possa essere introdotta la piena libertà di subappaltare, come chiede a gran voce l’Ue). Altre “semplificazioni” riguardano consistenti esoneri dall’effettuazione di gare, e l’estensione delle gare basate sulla “massima convenienza", che significa gare al ribasso.
Da oggi in poi non parleranno di licenziamenti ma di semplici aggiustamenti fisiologici, chi perderà lavoro e salario dovrà arrendersi a una sorta di legge naturale e sperare nella sorte o nella benevolenza padronale.
È difficile rinunciare al sarcasmo nel commentare gli articoli apparsi sulla stampa degli ultimi giorni. Quanti parlano di aggiustamenti fisiologici non hanno mai sperimentato direttamente la drammatica condizione della perdita del lavoro. Senza salario viene messo in discussione anche il diritto all’abitare, l’istituzione familiare entra inesorabilmente in crisi e le condizioni di vita diventano drammatiche.
Esiste una vasta letteratura e una sterminata produzione cinematografica a descrivere le condizioni di vita di quanti vengono licenziati, eppure non c’è traccia di questa memoria abilmente rimossa nell’immaginario collettivo dei media.
Si è ormai affermata l’idea dell’instabilità del lavoro secondo cui si può essere facilmente licenziabili e con altrettanta rapidità riassunti. Ma questa visione ideologica del mercato occupazionale è presente solo nell’immaginario dispotico dei padroni.
Guardiamo alcuni dati Istat. Nel periodo pandemico sono andati perduti 813mila posti di lavoro e da gennaio 2021 a fine maggio sono arrivati solo 123mila nuovi posti. A farla da padrone sono i contratti precari e a tempo determinato, calano ai minimi termini quelli stabili e le partite Iva crollano ai minimi storici.
Se perdi un posto stabile difficilmente ne ritroverai un altro alle medesime condizioni, sarebbe sufficiente questo dato per confutare la narrazione tossica e sempliciotta del capitalismo che distrugge e crea occupazione. Si afferma invece una crescente precarizzazione occupazionale e di vita.
I dati sopra riportati dimostrano che anche in presenza del divieto di licenziamenti collettivi, causa pandemia, si sono persi tanti posti di lavoro. I 20mila posti di lavoro creati nell’ultimo bimestre sono quasi solo a tempo determinato. Naturalmente quel dato delle le statistiche ufficiali viene letto come la fotografa della ripresa occupazionale.
I padroni, che già contavano su politici malleabili, ora hanno installato direttamente personale proprio al governo e portano a casa i risultati sperati. I lavoratori e le lavoratrici, per quanto ne dica Landini, che ebbe l’infelice idea di dichiararsi favorevole al nuovo governo, invece no.
Per anni ci hanno raccontato la storia di un mercato del lavoro asfittico per la presenza di troppi vincoli imposti ai datori, il governo ha accordato aiuti fiscali innumerevoli, ha costruito il Piano Nazionale di Ripresa e Resilenza sugli interventi strutturali indicati dalle amministrazioni locali e dalle associazioni datoriali, col risultato che tre quarti dei fondi andranno alle imprese, comprese quelle che non hanno subito rilevanti danni dal Covid. È stata ampliata la soglia degli appalti senza gara ed esteso il subappalto.
Il divieto dei licenziamenti collettivi viene cancellato in nome dell’Europa. Ci viene detto che i paesi Ocse non hanno adottato provvedimenti del genere ed è arrivato il momento per l’Italia di riallinearsi alle politiche intraprese dall’Ue.
Stesso ragionamento sui subappalti. Si è posto fine a una legislazione nazionale costruita per circoscrivere quella giungla contrattuale e lavorativa alimentata dalla ricerca del massimo ribasso che poi ha avuto ripercussioni negative sulle condizioni di vita e retributive di milioni tra lavoratori e lavoratrici.
Per anni i padroni hanno adottato processi di delocalizzazione produttiva ottenendo la cancellazione di tutele individuali e collettive, hanno ottenuto l’innalzamento dell’età pensionabile e rafforzato quei contratti costruiti al ribasso per rendere convenienti gli appalti. I sindacati rappresentativi pensano che la soluzione sia quella di porre fine ai cosiddetti contratti pirata, sottoscritti da sindacati autonomi a misura di impresa, ma dimenticano che tanti Contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl) da loro stessi ideati presentano caratteristiche analoghe, costruiti come sono sul proposito della riduzione del costo del lavoro.
Basterebbe confrontare il Ccnl autonomie locali, il più basso dei comparti pubblici, con quello delle cooperative sociali o multiservizi per comprendere quanto sosteniamo, ossia che la giungla contrattuale è stata alimentata dalla proliferazione dei Ccnl e dal sistema degli appalti e dei subappalti.
Quando poi si parla di appalti dimentichiamo come proprio il diritto comunitario sia stato costruito per favorire la libera circolazione dei capitali, di beni, forza lavoro e servizi all’interno dei paesi dell’Ue rimuovendo gli ostacoli delle legislazioni nazionali.
L’obiezione dei grandi capitalisti è stata da sempre quella di invocare la liberalizzazione totale del sistema degli appalti. C’è chi vorrebbe perfino sospendere l’attuale codice, sempre in nome di quella deregolamentazione sulla quale hanno banchettato per decenni gli alfieri del neoliberismo. Ma cancellare o riscrivere il codice degli appalti potrebbe anche rappresentare un pericolo per arginare i fenomeni corruttivi oltre a cancellare le tutele collettive di una forza lavoro di per sé debole e ricattabile.
L’Ue ha sempre criticato i limiti imposti ai subappalti dalle legislazioni nazionali. Lo sblocca cantieri perciò portava dal 30 al 40% il subappalto, oggi il governo Draghi eleva la soglia al 50%. Ma il risultato ottenuto non accontenta le associazioni datoriali che a breve chiederanno la piena applicazione delle normative comunitarie per le quali il ricorso al subappalto resta senza vincoli.
Esiste una suggestione diffusa in certi ambienti secondo cui non servirebbero normative nazionali demandando invece alle Regioni la definizione di regole per limitare i subappalti. Anche questa prospettiva, che si sposa con l’autonomia differenziata, potrebbe portare a una giungla ingovernabile e a differenze di trattamento da territorio a territorio in cui a pagare sarebbero esclusivamente i lavoratori e le lavoratrici.
La riscrittura eventuale del codice degli appalti non nasce con la pandemia. Da anni si critica, anche negli ambienti economisti liberal, i punteggi “eccessivi” alla offerta tecnica (pensata come limitazione del principio dell’offerta economica più bassa). Si invoca maggiore libertà di scelta per la stazione appaltante, dimenticando che così facendo si va verso il rafforzamento del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
E l’offerta economica più vantaggiosa è quella che di solito abbassa il costo del lavoro e riduce gli investimenti a tutela della salute e sicurezza. L’appalto integrato, inoltre, se reintrodotto, non considerando adeguatamente la qualità progettuale, rischierebbe di accrescere i costi finali con la successiva necessità di varianti di vario genere e sovente fuori da ogni controllo.
Sul banco degli imputati anche il principio di rotazione, di per sé imperfetto, pensato per evitare che ad aggiudicarsi le gare siano sempre le stesse ditte, una norma suggerita anche come misura di contrasto alla corruzione e alle infiltrazioni mafiose e per favorire il mercato.
Negli ultimi anni le gare pubbliche indette da una centrale unica di committenza (la Consip) sono servite per abbassare il costo del lavoro a causa dell’unica ottica di ridurre i costi sostenuti dagli enti pubblici per la erogazione di beni e servizi. L’esperienza concreta aiuta a comprendere che standardizzare i costi di determinate operazioni può determinare un prezzo di aggiudicazione che sovente non tiene conto delle difficoltà reali di certi processi lavorativi e impone all’appaltatore processi riorganizzativi dei tempi, degli orari e del lavoro stesso all’insegna del maggiore sfruttamento (sovente vengono adottati dei sistemi di controllo a distanza per abbattere i tempi morti e costringere la forza lavoro a ridurre oltre il ragionevole le pause fisiologiche).
Un discorso a parte merita poi il danno erariale. Numerose procedure di aggiudicazione vengono sospese dalle amministrazioni in autotutela. Le ditte escluse fanno ricorso alla Magistratura e in molti casi chiedono il risarcimento del danno.
Le amministrazioni in certi casi si sono rivalse sul funzionario o dirigente pubblico che magari ha operato solo nell’interesse dell’Ente, secondo i principi di correttezza e buona fede e a tutela della legalità. È evidente come il danno erariale rappresenti una minaccia costante all’operato dei funzionari pubblici. Da qui scaturisce la necessità di rivedere la normativa correndo il rischio tuttavia di alleggerire il sistema dei controlli per scongiurare magari la sospensione dell’appalto in autotutela. Il governo è attento a questo tema solo perché i ritardi negli appalti determinerebbero il mancato accesso ai fondi europei, non per tutelare la pubblica amministrazione dall’illegalità.
Ci sembra evidente che la questione degli appalti, come quella dei licenziamenti collettivi, sia stata affrontata solo dal punto di vista padronale per garantire la ripresa dell’economia a discapito di controlli e tutele collettive.
Per questo pensare di avere ottenuto dei risultati apprezzabili, come fa la Cgil, è una mera illusione che non tiene conto dell’effettiva posta in gioco. Già l’ipotesi che circolava precedentemente, cioè la proroga al 28 agosto dello sblocco dei licenziamenti, era malvista dai lavoratori e dai sindacati. Come pensano di reagire ora che l’ipotesi è del tutto peggiorativa? E come può essere accettata la deregulation degli appalti e l’accelerazione dei lavori nei cantieri in un paese dove muoiono sul lavoro ben oltre tre lavoratori al giorno e dove imperversano le infiltrazioni mafiose?
Sulla questione degli appalti e del blocco dei licenziamenti servirebbe una grande mobilitazione e uno sciopero nazionale di tutti i lavoratori. Va superata sia la frammentazione dei sindacati più conflittuali sia la passività dei sindacati confederali e favorire la discesa in campo anche delle Rsu.