Ho usato nel sommario la figura retorica dell’aposiopesi per lasciar intendere quanto viene invece taciuto dai media e dai sindacati rappresentativi: le pensioni di domani saranno da fame in perfetta continuità con gli odierni salari.
L’Italia riuscirà a uscire indenne dalla senescenza che in 30 anni farà passare la fascia di popolazione in età lavorativa dal 63,8% al 53,3% della popolazione totale?
Gli industriali pensano di risolvere il problema con flussi di immigrazione controllata (come avvenuto nella Germania di fine secolo scorso), ipotesi contrastata dai partiti di centrodestra per i quali invece sarebbe sufficiente conservare gli attuali equilibri, o meglio squilibri, per salvaguardare il loro bacino elettorale e soprattutto interessi particolari che potrebbero uscire sconfitti, o comunque ridimensionati, dai processi di ristrutturazione capitalista e dalla svolta cosiddetta green.
Dietro alle politiche anti-immigrazione non si nasconde solo l’atavico sospetto verso la popolazione non autoctona, ma anche la salvaguardia dei rapporti di classe oggi esistenti.
Se guardiamo alle politiche migratorie dei paesi dell’Est europeo, Polonia e Romania, colpisce la piena disponibilità all’accoglienza dei profughi ucraini che stride con il trattamento disumano riservato ad altri migranti respinti alle frontiere e lasciati morire di freddo senza alcun aiuto. Una sorta di umanità a tempo, negata ad alcuni ma strombazzata verso altri, con tanto di aiuti comunitari in deroga alle norme esistenti.
L’intero arco parlamentare italiano, e non solo, è combattuto tra la difesa acritica del presente e la preoccupazione del futuro, o se preferiamo inter spem et metum, come avrebbero detto i latini, tra la speranza verso il futuro e il terrore per i tempi presenti.
Indagando il passato diventiamo consapevoli del presente. Non vale solo per la guerra, ma anche per salari e pensioni. Se ripercorriamo gli ultimi 40 anni di storia italiana ed europea, cogliamo tratti comuni nelle riforme del sistema previdenziale e nelle dinamiche salariali, pur con differenze tra paese e paese.
Le pensioni future saranno così basse da determinare misure attive di sostegno da parte dello Stato. Dopo decenni di salari irrisori l’assegno previdenziale seguirà tale sorte tra vuoti contributivi e “marchette” insufficienti a garantire una vecchiaia dignitosa.
La questione previdenziale non può ridursi alla querelle sulle finestre di uscita dal mondo del lavoro. Per questo dovremmo ripartire da un argomento tabù tanto per la classe politica e sindacale quanto per i lavoratori e le lavoratrici: la necessità di cancellare il sistema di calcolo contributivo per poi affrontare le questioni salienti riguardanti l’età pensionabile.
Negli ultimi mesi numerosi contratti nazionali hanno rafforzato il ricorso al welfare previdenziale, alle pensioni e alla sanità integrative, consapevoli che lo Stato sociale di domani non sarà in grado di sostenere gli anziani usciti dal mondo lavorativo.
Il venir meno di quel principio solidaristico, alla base del compromesso neokeynesiano, porta alla situazione attuale: siano i lavoratori e le lavoratrici a pagarsi le integrazioni delle pensioni di domani con la stampella della previdenza complementare, rinunciando al trattamento di fine rapporto (Tfr). Se le pensioni di domani non saranno sufficienti a fronteggiare l’aumento del costo della vita, è evidente che la perdita del potere di acquisto di salari e pensioni sarà arrivata a un punto di non ritorno. E i sacrifici saranno interamente scaricati sulla forza-lavoro che baratterà il proprio Tfr con la previdenza integrativa lasciando libero lo Stato nell’opera di progressivo smantellamento del welfare.
Nel corso degli ultimi 40 anni neoliberisti la spesa previdenziale è stata abbattuta grazie al sistema di calcolo contributivo che condanna le pensioni di domani a cifre irrisorie corrispondenti al 50 o 60% dell’ultimo stipendio. Nel contempo si innalza l’età pensionabile arrivando ai fatidici 70 anni di età per uscire dal mondo del lavoro. Nell’arco di pochi decenni lavoreremo quasi un decennio in più dei nostri genitori che quasi sempre avranno trovato un impiego a un’età inferiore alla nostra. Ma se calcoliamo l’ammontare dell’assegno contributivo e l’intera vita ci rendiamo conto di quanto regressive siano state le riforme imposte dall’alto con il silenzio-assenso dei sindacati.
Nonostante tutto un problema si presenta all’orizzonte. Anni di tagli alla sanità hanno cambiato le carte in tavola e così l’aspettativa di vita, dal 2019, è in piena decrescita.
La Ragioneria dello Stato ha dovuto prendere atto di questa situazione, iniziata ben prima della pandemia e così fino al 2026 l’età pensionabile non subirà aumenti. Ma è sufficiente questo dato per cantar vittoria?
La legge 122/2010 stabiliva l’incremento dell’età pensionabile di tre mesi ogni due anni. Aumentando l’aspettativa di vita anche l’uscita dalla produzione sarebbe stata posticipata. Ma nonostante tutto l’assegno previdenziale è comunque destinato a perdere potere di acquisto rispetto alle ultime buste paga.
Restano vigenti meccanismi funzionali a sostituire la forza-lavoro più anziana scaricando sulla contabilità generale i costi di uscite anticipate comunque penalizzanti per lavoratori e lavoratrici, uscite impropriamente ribattezzate ricambio generazionale giusto per occultare i processi di ristrutturazione dell’economia capitalistica in atto.
Quel programma minimo di classe tante volte invocato non trova spazio nell’agenda sindacale. Ricordiamolo ancora una volta:
- riduzione dell’orario di lavoro (parliamo di riduzione effettiva e non della distribuzione in un arco temporale plurimensile attraverso il ricorso a orari multiperiodali);
- un sistema di calcolo dell’assegno previdenziale basato non sui contributi versati ma sulle retribuzioni percepite;
- un salario orario minimo di 10 euro che determinerebbe la crisi di alcuni contratti, come multiservizi e cooperative, costruiti ad arte per favorire i processi di esternalizzazione e privatizzazione;
- la sostituzione del personale in uscita con nuovi organici assunti alle stesse condizioni economiche;
- sostituzione del codice Ipca per la rilevazione degli aumenti del costo della vita, che fa perdere potere di acquisto ai salari, con meccanismi più congrui, come era la scala mobile;
- riduzione dell’età pensionabile senza decurtazioni economiche.
Al contrario, si parla di incrementare l’uscita di forza-lavoro anziana per sostituirla con contratti precari o a basso costo. Non pensiamo si possa cantare vittoria per aver conservato la pensione di vecchiaia, fino al 2024, a quota 67 anni e men che mai per aver congelato i requisiti per l’uscita anticipata fino al 2026. Negli anni immediatamente successivi torneremo ai meccanismi decisi dalla Fornero che resta il faro guida in materia previdenziale. L’età pensionabile riprenderà a salire e i meccanismi di calcolo dell’assegno resteranno invariati stabilendo i 42 anni di contributi per l’uscita anticipata. E questo ammontare diventa proibitivo in un mondo del lavoro dove la precarietà e i vuoti contributivi saranno dominanti per cui ciò che in in via teorica è possibile, sarà nella pratica un traguardo difficilmente raggiungibile.
Le dinamiche salariali e quelle previdenziali non possono quindi essere disgiunte e scollegate da una necessità insopprimibile: il recupero del potere di acquisto perduto. È questo l’argomento rimosso dall’agenda sindacale e politica.