Nel regime di proprietà privata, che conosce il suo apice con la società capitalista, come osserva a ragione Gramsci, “gli individui valgono in quanto sono proprietari di merce e commerciano la loro proprietà, anche gli operai hanno dovuto ubbidire alle leggi ferree della necessità generale e sono diventati mercanti dell’unica loro proprietà, la forza-lavoro e l’intelligenza professionale” [1]. D’altra parte, in quanto il capitale e lo stesso meccanismo della concorrenza e della crisi portano a mantenere quasi sempre a un livello elevato l’esercito industriale di riserva, i lavoratori salariati essendo “esposti ai rischi della concorrenza” tendono ad accumulare “la loro proprietà”, ossia la forza-lavoro, “in ‘ditte’ sempre più vaste e comprensive” (24), quali le confederazioni del lavoro. In tal modo sono venuti sviluppando, dalle prime organizzazioni di categoria, “questo enorme apparato di concentrazione di carne di fatica”, ovvero la Confederazione generale del lavoro.
Così facendo, organizzandosi e contrapponendosi in modo congiunto agli interessi opposti del padronato, sono riusciti via via a imporre “prezzi e orari” che hanno consentito di disciplinare il mercato della forza-lavoro. A tale scopo “hanno assunto dal di fuori”, fra gli intellettuali generalmente della piccola e media borghesia, “o hanno espresso dal loro seno” degli intellettuali organici, che insieme hanno finito con il costituire “un personale d’amministrazione di fiducia”, ossia i funzionari sindacali, “esperto in questo genere di speculazioni”, per meglio vendere la forza-lavoro, “in grado di dominare le condizioni del mercato, capace di stipular contratti, di valutare le alee commerciali, di iniziare operazioni economicamente utili” (ibidem).
Quindi, quando i funzionari sindacali erano ancora in grado di svolgere adeguatamente la loro funzione, erano in grado di vendere non al livello più basso del suo valore la capacità di lavoro dei salariati sfruttati. Al di là della capacità più o meno oggi perduta dei sindacalisti di saper svolgere coscienziosamente il loro mestiere, “la natura essenziale del sindacato” era ed è, necessariamente, “concorrentista” e, dunque, non può essere “comunista”. In altri termini anche quando i sindacalisti tornassero a svolgere nel modo più coscienzioso il loro lavoro, il sindacato non potrebbe comunque divenire uno “strumento di rinnovazione radicale della società” (24). Il sindacato, infatti, può al massimo “offrire al proletariato dei provetti burocrati”, ma non può certo costituire “la base del potere proletario” (ibidem). Mirando a formare, quando ancora ci riesce, dei “provetti burocrati” il sindacato non può offrire alcuna possibilità di selezionare al suo interno “delle individualità proletarie di dirigere la società”, una volta affermatosi il socialismo, né al suo interno potranno mai “esprimersi le gerarchie in cui si incarni lo slancio vitale, il ritmo di progresso della Società comunista” (24).
Anche perché il sindacato è in quanto tale, in tutte le sue diverse declinazioni, “sindacati di mestiere, le Camere del Lavoro, le federazioni industriali, La Confederazione Generale del Lavoro”, non sono altro che “il tipo di organizzazione proletaria specifico nel periodo di storia dominato dal capitale” (Ibidem). Perciò, Gramsci non può che constatare che il sindacato è essenzialmente “parte integrante della Società capitalistica, e ha una funzione” – la vendita della forza-lavoro – “che è inerente al regime di proprietà privata” (24).
Proprio per questo nel momento in cui la società capitalista entra in crisi, anche in sindacato, come oggi è sotto gli occhi di tutti, vive una crisi analoga. Dunque, per dirla con Gramsci, possiamo constatare come anche se vi fosse ancora una situazione molto più avanzata della nostra attuale frammentazione del fronte sindacale, che gli impedisce nei fatti di portare a termine la sua stessa funzione principale di non svendere la forza lavoro, ossia se vi fosse ancora “l’organizzazione proletaria che si riassume, come espressione totale della massa operaia e contadina, negli uffici centrali della Confederazione del Lavoro”, essa non potrebbe che attraversare “una crisi costituzionale simile per natura alla crisi in cui vanamente si dibatte lo Stato democratico parlamentare” (22).
D’altra parte il sindacato, nella forma che ha assunto nei paesi a capitalismo avanzato, ha un tipo di organizzazione ben diverso da quello che potrà assumere in una società socialista. In effetti, in uno Stato socialista, a parere di Gramsci, il sindacato, in particolare industriale, avrà un “vasto e magnifico compito”, in quanto dovrà inaugurare “un ordine nuovo di produzione, in cui l’impresa sia basata non sulla volontà di lucro del proletario, ma sull’interesse solidale della comunità sociale che per ogni branca industriale esce dall’indistinto generico e si concreta nel sindacato operaio corrispondente” [1]. D’altra parte il sindacato non appare generalmente pronto a svolgere una tale funzione, come dimostra ad esempio la storia della Repubblica dei consigli ungherese. I sindacati non solo si astennero “da ogni lavoro creatore” nello Stato sovietico, rimanendo inerti dal punto di vista economico, ma “i funzionari sindacali suscitarono” dal punto di vista politico “continui ostacoli alla Dittatura” del proletariato, sino a costituire “uno Stato nello Stato” (36). Anzi non di rado i sindacalisti addirittura si opposero alla socializzazione delle fabbriche sebbene, osserva Gramsci, “la socializzazione fosse il dovere per eccellenza dei sindacati”.
Tale apparente paradosso è presto spiegato da Gramsci con i limiti spirituali dei sindacalisti, prigionieri di “una psicologia burocratico-riformista”, che li porta a preoccuparsi innanzitutto di perdere, con la socializzazione dell’industria, “il potere che avevano fino allora esercitato sugli operai” (Ibidem). Anche perché “la funzione per cui il Sindacato si era sviluppato fino alla Dittatura” del proletariato “era inerente al predominio della classe borghese”, senza contare che i funzionari erano del tutto privi di “una capacità tecnica industriale” che gli consentisse di svolgere un ruolo di rilievo nelle fabbriche socializzate e, proprio per questo, finivano con il sostenere “l’immaturità della classe proletaria alla gestione diretta della produzione” (36). Da qui la loro sostanziale avversione alla dittatura del proletariato in nome della “‘vera‘ democrazia” ovvero, denuncia Gramsci, i funzionari sindacali si schieravano per “la conservazione della borghesia nelle sue posizioni principali di classe proprietaria” (ibidem).
Il loro scopo era, infatti, non quello di liberare finalmente il proletariato dallo sfruttamento, dalla necessità stessa di dover vendere per potersi riprodurre la propria forza-lavoro, ma piuttosto miravano a perpetuare – come se nulla fosse successo, e come se ciò fosse possibile dopo la rottura rivoluzionaria – “l’era dei concordati, dei contratti di lavoro, della legislazione sociale”, unicamente allo scopo del tutto particolaristico di tornare a “essere in grado di far valere la loro competenza” (36). A tale scopo, non potendo assumere, senza perdere qualsiasi credibilità agli occhi delle masse proletarie, posizioni apertamente contro-rivoluzionarie, per frenare il processo rivoluzionario in atto pretendevano, come fanno spesso gli opportunisti, “che si attendesse la… rivoluzione internazionale” fingendo di non capire “che la rivoluzione internazionale si manifestava appunto in Ungheria con la Rivoluzione ungherese, in Russia con la Rivoluzione russa, in tutta Europa con gli scioperi generali, con i pronunciamenti militari, con le condizioni di vita rese impossibili alla classe lavoratrice dalle conseguenze della guerra” (37).
Tali posizioni obiettivamente disfattiste furono enunciate in modo esemplare da uno dei più importanti funzionari sindacali nell’ultima riunione del soviet della capitale del paese: “nel momento storico attuale”, ovvero nel momento dello scontro decisivo con forze della contro-rivoluzione, il governo dei consigli è costretto alla ritirata “per non far sanguinare il proletariato ungherese, per salvarlo e conservarlo nell’interesse della Rivoluzione mondiale, perché un giorno la grande ora della Rivoluzione socialista mondiale deve pur scoppiare” (Ibidem). Dunque, in nome di un’utopistica rivoluzione mondiale, che sarebbe spontaneamente prima o poi scoppiata, bisognava arrendersi alle forze armate della contro-rivoluzione e nei fatti consegnare al necessariamente terribile e spietato terrore bianco le avanguardie del proletariato, trasformando la gloriosa esperienza della Repubblica dei consigli ungheresi nella prima esperienza di dittatura fascista.
In tal modo gli “organismi tradizionali” del proletariato ungherese, ovvero i funzionari sindacali di spicco, lo condannavano, come denunciò a ragione un dirigente comunista, al dominio del terrore bianco che con “lo staffile addolcirà le torture della fame”. In tal modo la “vera democrazia” invocata dai dirigenti sindacali “sarà instaurata in Ungheria, poiché tutti quelli che potevano dir qualcosa saranno uguali nel riposo della tomba e gli altri godranno gli stessi diritti allo staffile dei boiari” (38). In tal modo, arrendendosi alle forze della contro-rivoluzione non era difficile prevedere che la stessa “disputa” sollevata dai funzionari sindacali se la dittatura del proletariato “deve servirsi della forza o della dolcezza cesserà, poiché la borghesia e i boiari avranno già deciso il metodo della loro dittatura: centinaia di forche annunzieranno come la disputa sia finita a favore della borghesia, per la debolezza del proletariato” (ibidem).
Nota
[1] Le citazioni di questo scritto sono tratte dagli articoli di Gramsci “Sindacato e Consigli”e “I Sindacati e la Dittatura” pubblicati su “l’Ordine Nuovo” l’11 febbraio e il 25 ottobre 1919, più tardi ripubblicati in Bordiga-Gramsci, Dibattito sui consigli di fabbrica, Samonà e Savelli, Roma 1971. Nel testo, fra parentesi tonde, indicheremo la pagina di quest’ultima edizione corrispondente ai brani degli articoli sopra citati.