A seguito della pubblicazione di alcuni miei articoli sono pervenuti alla redazione, e al sottoscritto via social, obiezioni relative all’analisi e ai dati della produttività.
Provo a fornire qualche spiegazione, fermo restando che avrei dovuto precisare alcuni concetti in termini maggiormente rigorosi e con definizioni più appropriate, ma quando la scrittura deve ritagliarsi spazio tra il lavoro e la militanza sindacale, il tempo diventa tiranno e così può accadere che vengano dati per scontati alcuni passaggi che scontati non sono.
Ringrazio comunque i lettori, conscio che dalla critica, anche la più severa, scaturisce la ricerca e la crescita collettiva.
Renato Gatti, pur condividendo molte delle cose scritte nel mio ultimo articolo, fa sapere di non concordare con l’affermazione secondo cui la produttività sia aumentata non di poco. Egli sostiene che la produttività sia invece ferma da decenni e proprio questo stop abbia causato – in assenza della possibilità, esistente prima dell’introduzione dell’euro, di effettuare svalutazioni monetarie – la mossa del nostro sistema industriale di ricercare la competitività deprimendo i salari.
Gatti si dice d’accordo con Landini, favorevole a un piano con tre protagonisti: Sindacati, Confindustria e Governo, al fine di “dare al nostro assetto produttivo quelle potenzialità che esso ha ma che sono impedite dalla fuga dei capitali (payback e dividendi) promossa dal capitalismo finanziario”. “Tornare a un nuovo capitalismo produttivo partecipato e che precluda alla socializzazione dei mezzi di produzione” viene individuata come “l'unica strada percorribile” nell’attuale condizione delle forze produttive. Egli usa in verità l’espressione fattori produttivi, ma da marxista, considerando produttivi solo il fattore lavoro e il fattore natura e non il capitale, preferirei parlare di forze produttive.
Sull’argomento interviene, con un rapido scambio, anche Marta Fana alla quale va riconosciuto uno sguardo tanto acuto quanto capace di guardare alla sostanza del problema. Alla luce della sua obiezione sulla produttività stagnante (le parole sono mie), urgono alcune precisazioni ulteriori.
1) La produttività dell'economia italiana è in affanno non tanto per il debito pubblico, come asserito dai paladini dell'austerità, ma per le ragioni già analizzate da Luciano Gallino e da altri osservatori: i mancati investimenti pubblici e privati in nuove tecnologie, i processi di mera contrazione del costo del lavoro anche attraverso le delocalizzazioni. Sarebbe utile analizzare il concetto stesso di produttività e farlo (magari) utilizzando le analisi sull'economia fondamentale, giusto per affermare che la ricchezza di una nazione, il suo stesso benessere è dato anche dalla gestione pubblica, efficiente e innovativa, dei beni comuni. Pertanto sempre sulla produttività è fuorviante riflettere solo con i dati Istat.
2) Bisogna inoltre essere cauti a rammentare la produttività quale giustificazione delle richiesta di aumento dei salari. Molti giuslavoristi, ad esempio, a proposito di retribuzioni, puntano sulla dinamica negoziale più che su quella distributiva, collegando cioè parti sempre più grandi di salario al raggiungimento dei risultati. E la dinamica negoziale finisce con il ridurre i salari nel loro complesso stabilendo meccanismi di assurda competitività e divisione in seno alla forza lavoro. La dinamica negoziale avviene in questa fase storica decisamente al ribasso e per introdurre novità che si ripercuotono negativamente tanto sul potere di acquisto quanto su quello di contrattazione. Dinamica negoziale e pratica conflittuale non vanno d’accordo, non a caso si guarda ai paesi del Centro-Nord Europa con retribuzioni più alte ma salari flessibili, orari minori ma all'insegna della massima flessibilità, limitazioni del diritto di sciopero (spesso solo a parole visto che in Francia e Germania si può scioperare consecutivamente per giorni al contrario dell'Italia) ottenute da accordi di cooperazione tra imprese e lavoratori: se vuoi guadagnare di più devi essere a disposizione dell'azienda, un po' come accade anche con lo smart working, con lo scambio diseguale che avviene passando per il lavoro da casa, gli orari flessibili e l’intensità della produttività individuale sempre maggiore.
3) Che sia alta o bassa la produttività collettiva, i salari crescono sempre meno di quanto sia aumentata la prestazione individuale del singolo lavoratore. Tutte le statistiche ci dicono che la quota di plusvalore aumenta progressivamente mentre si riduce quella che va ai salari, segno inconfutabile che dell’aumento della produttività beneficiano solo i capitalisti. Di conseguenza potrebbe indurre a equivoci non discernere tra produttività individuale e produttività tout court o parlare di produttività individuale in termini filosofici e astratti scollegati dalla organizzazione del lavoro.
Le puntualizzazioni della compagna Fana, che nel complesso condivido, mi forniscono l’occasione per l’interlocuzione con Gatti.
Infatti bisogna stare molto attenti quando si parla di produttività e non prendere per oro colato statistiche elaborate con metodologie spesso discutibili, come avviene platealmente con i dati sulla disoccupazione. Infatti l’aumento della produttività fa diminuire il valore unitario delle merci, quindi se si calcola la produttività in termini di Pil per per ora lavorata, può sembrare che cresca meno di quanto non avvenga in termini materiali, o addirittura ipotizzarne la stagnazione. Per esempio, la dinamica della produttività a prezzi costanti, ad oggi, è circa il 30% in più di quella a prezzi correnti. In ogni caso, esclusa la lunga parentesi della crisi iniziata nel 2008, la produzione materiale è cresciuta molto più del Pil e la produttività, anche quella certificata dalle statistiche ufficiali, cresce mediamente di diversi decimali in più dell’1% annuo dagli anni 70 fino al 2007. Tutt’ora, nonostante il calo della crisi, la sua crescita è superiore a quella del 1970.
Il prodotto per ora lavorata cresce in Italia meno che nei principali paesi occidentali più sviluppati (Usa, Germania, Gran Bretagna, Francia e Spagna) a causa delle evidenti debolezze strutturali; e tuttavia dal 1980 al 2014 passa da 32 dollari a 45, con un incremento di oltre il 40%.
Può sembrare poco, ma occorre considerare che molti lavoratori oggi operano a domicilio o comunque con mezzi strumentali propri e in questi casi il valore del capitale per addetto è sceso. Quindi, anche in costanza di output, sono da attribuire solo alla produttività del lavoro i maggiori profitti a parità di capitale investito. Nelle poche imprese che hanno investito in tecnologia l'aumento della produttività è più evidente e rilevabile anche a fini statistici, anche se sarebbe utile fare riferimento ad indicatori alternativi per una valutazione esaustiva.
Cerchiamo di intenderci con l’esempio della rete telefonica mobile realizzata in poco tempo, con personale ridotto, sicuramente con meno personale e in tempi più rapidi di quanto siano stati necessari anni fa con la telefonia fissa. Cos’è questo se non un aumento enorme di produttività in termini di valori d’uso? Un altro esempio può essere tratto dai progressi dell’informatica. Una capacità di elaborazione che non moltissimi decenni fa occupava una stanza ed era utilizzabile solo da pochi, oggi è alla portata di quasi tutti e sta nel palmo di una mano. In termini di valore, questi strumenti possono essere ben poca cosa. Ma come valori d’uso abbiamo assistito a una loro crescita esponenziale.
Naturalmente siamo ben lontani da condividere le proposte dei giuslavoristi oggi di moda, al contrario riteniamo necessario reintrodurre qualche rigidità nei rapporti di lavoro a tutela dei diritti dei lavoratori. Il concetto di flessibilità è tipicamente padronale e non può essere utilizzato asetticamente. E così l’aumento della produttività darebbe la possibilità ai lavoratori di partecipare alla spartizione di una torta più grande ma ciò non accade perché nel corso degli anni è cresciuto a dismisura lo sfruttamento del lavoro.
Sono d’accordo con Gatti che la competitività al ribasso dei salari e dei diritti sia una conseguenza del nostro minor ritmo di innovazione rispetto ai paesi concorrenti. E che con la nuova moneta le cose siano peggiorate. Tuttavia, tornando al modello gig economy, smart working, o come lo si voglia chiamare, non è errato parlare di sfruttamento del lavoro con pochi investimenti per limitare la caduta del saggio del profitto. Dubito fortemente che i processi di svalorizzazione del lavoro potranno essere invertiti con la via negoziale o una nuova concertazione Sindacati-Governo-Padroni senza rimettere in discussione il potere del capitale e i rapporti tra le classi. La conoscenza del passato dovrebbe indurre a riflettere su certe scorciatoie senza cadere nelle trappole che hanno già determinato decenni di crisi del movimento operaio.