La fine dello stato di emergenza sancisce la cancellazione di molte norme a tutela dei lavoratori e delle lavoratrici con fragilità riconosciute dal medico competente (del lavoro); nei due anni pandemici i fragili sono stati adibiti al lavoro con modalità agile al fine di preservare il loro già precario stato di salute, ma erano coperti anche per l’assenza dal lavoro, qualora incompatibili alle prestazioni in presenza e con funzioni non gestibili con la modalità a distanza.
La decisione del governo, che pone fine allo stato di emergenza a partire dal 1° aprile 2022, risulta illogica e incomprensibile stando ai circa 100mila contagi giornalieri e al numero elevato di ricoverati e deceduti.
Che il ministro Brunetta agognasse il ritorno in presenza per tutti/e era risaputo, come pure già analizzate, almeno da parte nostra, le criticità legate alla prestazione agile che resta una forma di alienazione e una tipologia lavorativa che impone un aumento delle mansioni esigibili e a costi ridotti per le amministrazioni pubbliche (zero straordinari, mancata corresponsione dei buoni pasto, non applicazione di alcuni istituti contrattuali).
Eppure solo pochi giorni fa il governo aveva scritto, nella bozza di decreto circolata prima della pubblicazione, di prolungare le tutele dei fragili fino al 30 giugno 2022.
Ma di questa proroga non c’è traccia alcuna nella versione finale e pubblicata del Decreto Legge 24/2022 scaricando la patata bollente ai singoli enti e prevedendo in linea di massima il ritorno al lavoro in presenza per tutti/e.
Vengono così a mancare due tutele per i lavoratori fragili che non potranno lavorare in smart working né saranno coperti per le assenze dal servizio qualora svolgano mansioni non riconducibili alla modalità agile.
Le differenze tra il privato e il pubblico nella gestione dello smart working saranno sempre più marcate a conferma di quel pregiudizio ministeriale di cui abbiamo sempre parlato. Infatti nel privato la proroga vale fino al 30 giugno mentre nel pubblico impiego è terminata lo scorso 15 ottobre.
Non vale perfino il buon senso sulla prevalenza del lavoro in presenza con alcuni giorni in smart working all’interno di un calcolo plurimensile.
Analogo discorso vale per gli anziani non autosufficienti sottoposti a un autentico ricatto: consigliate ai vostri figli e nipoti di ricorrere alle prestazioni di previdenza e sanità integrative perché un domani il welfare universale non riuscirà a garantire la necessaria cura.
Sulla spinta del neokeynesismo di guerra intravediamo tagli al welfare e il ricorso a prestazioni private sarà oggetto di scambio con parti del salario.
In Italia ci sono un milione di badanti prevalentemente donne e immigrate. Le Rsa non sono in numero sufficiente per accogliere i non autosufficienti, e i costi a carico di famiglie e sistema sanitario pubblico sono giudicati insostenibili.
Nonostante tutte le considerazioni sulla necessità di rimettere salute e cura della persona al centro delle politiche del welfare constatiamo che la direzione intrapresa dal governo va in direzione opposta.
Da anni il lavoratore vive una situazione di indebitamento derivante dalla precarietà contrattuale e dalla perdita di potere di acquisto salariale, se a questo aggiungiamo la riduzione dei servizi derivanti dal welfare possiamo immaginare quale saranno le politiche governative verso i soggetti deboli per salute precaria o per condizione sociale.
La soluzione prospettata è quella di ricorrere a sanità e previdenza integrative rinunciando al Tfr, un autentico ricatto reso possibile dalla partecipazione attiva dei sindacati rappresentativi, gli stessi che tacciono sui tagli nei prossimi tre anni alla sanità pubblica.