Contro ogni volgarizzazione e dogmatizzazione del marxismo, che ne ha segnato la sconfitta nella lotta per l’egemonia, e contro la sua contaminazione con l’ideologia dominante è necessario ritornare allo spirito filosofico e rivoluzionario del marxismo occidentale.
Di Renato Caputo
Dopo la sconfitta della rivoluzione in Occidente e con l’affermarsi della dirigenza staliniana, il marxismo sovietico si è progressivamente irrigidito sino a divenire una ideologia di Stato, un insieme dogmatico di dottrine più assimilabile a una visione del mondo mitologico-religiosa che a una concezione scientifico-filosofica. Tale impostazione è divenuta prevalente anche negli altri Paesi del “socialismo reale”, anche perché si trattava nella maggioranza dei casi di Paesi arretrati, precapitalistici sia dal punto di vista delle strutture, che delle sovrastrutture.
Lo sviluppo di questa “religione” politica, popolare, laica e immanente – che ha preso progressivamente il posto delle precedenti credenze trascendenti, individualistiche e reazionarie – ha certo contribuito al tentativo di transizione al socialismo. Del resto, sull’esigenza di una religione funzionale alla trasformazione rivoluzionaria di un intero mondo storico avevano insistito i grandi teorici della rivoluzione borghese, a partire da Jean-Jacques Rousseau e i grandi rivoluzionari borghesi come Maximilien de Robespierre, ed era stata affrontata dal grande pensatore liberale Benedetto Croce, analizzando il necessario passaggio dalla visione scientifica dell’umanesimo al suo realizzarsi storicamente, mettendo in movimento le masse, attraverso una riforma religiosa come quella protestante.
D’altra parte, come già la Riforma protestante aveva finito con il divenire intollerante rispetto al proprio fondamento scientifico e filosofico umanista, così, anche a causa del continuo stato di assedio e dalla condizione di arretratezza in cui il socialismo ha tentato di realizzarsi, l’attitudine dogmatica non solo ha prevalso ma ha finito per marginalizzare o reprimere la tendenza scientifica e filosofica. In tal modo il marxismo “orientale”, il marxismo del “socialismo reale”, ha finito con l’essere sempre meno reattivo agli stimoli che provenivano dagli sviluppi più recenti della cultura e della scienza nei Paesi a capitalismo avanzato. Da questo punto di vista la Guerra Fredda è stata persa anche al livello delle sovrastrutture.
Ciò ha reso particolarmente difficile la lotta per l’egemonia nei Paesi a capitalismo avanzato, anche perché spesso il marxismo è stato volgarizzato per renderlo fruibile a delle masse abbrutite dallo sfruttamento e dall’alienazione del lavoro salariato. L’ideologia dominante ha così avuto gioco facile nell’accusare il marxismo di essere dogmatico e, quindi, antiscientifico e antifilosofico, e così oggi nelle facoltà di filosofia dei Paesi a capitalismo avanzato si insegnano più i pensatori di un remoto passato, più gli ideologi del fascismo e del nazionalsocialismo piuttosto che gli esponenti del marxismo. Con il paradosso che intellettuali anche di “sinistra” del nostro Paese preferiscano insegnare, in modo acritico o addirittura apologetico, il pensiero reazionario di Nietzsche, Heidegger o Carl Schmitt, piuttosto che il pensiero rivoluzionario di Lenin, Gramsci o Lukács o preferiscono i pensatori postmoderni o neopositivisti, ritenendoli scientifici, ai Sartre, Marcuse e Bloch, i quali sarebbero da dimenticare in quanto ideologici e superati.
Con tali presupposti non è difficile comprendere come gli eredi del più grande partito comunista del mondo occidentale si siano fatti guidare da due democristiani doc come Prodi e Renzi, mentre molti esponenti del partito socialista sono divenuti berlusconiani.
Per ricominciare a contrastare l’ideologia dominate, che rischia sempre più di tramutarsi in un pensiero unico, è indispensabile recuperare la dimensione scientifico-filosofica del marxismo, distinguendola in modo netto dalle sue pur necessarie volgarizzazioni e dogmatizzazioni. Da questo punto di vista è certamente utile riscoprire quella concezione del marxismo, così detto “occidentale”, che a partite dagli anni Venti si è sviluppata nei Paesi a capitalismo avanzato in contrasto sia con la progressiva dogmatizzazione del marxismo in Unione Sovietica, sia con la sua positivizzazione, che ha favorito l’affermazione di posizione “revisioniste” all’interno della Seconda Internazionale.
A questo proposito un’opera particolarmente preziosa è certamente Storia e coscienza di classe, pubblicata da György Lukács nel 1923, non a caso considerata il fondamento del marxismo occidentale. Di contro allo scientismo positivista - di cui aveva fatto tesoro il revisionismo di Bernstein denunciando le origini hegeliane delle concezioni rivoluzionarie di Marx [1] - e al dogmatismo sovietico, Storia e coscienza di classe rimette al centro dell’indagine il metodo filosofico del pensiero di Marx, che ha il suo fondamento nella dialettica hegeliana. Solo in tal modo diviene possibile liberare il marxismo dall’egemonia del pensiero allora dominante, quale espressione della classe dominante borghese, il positivismo che aveva preteso di poter indagare i fenomeni del mondo storico e sociale con il metodo delle scienze naturali, fondato su basi statistico-matematiche e sull’osservazione empirica dei fenomeni. Ciò aveva portato a un riduzionismo della complessità, al suo interno contraddittoria, del mondo storico e sociale, con il risultato di naturalizzare gli assetti sociali del modo di produzione capitalistico, assunti come dei “fatti” e non come dei processi storici, risultato di determinate scelte economiche e politiche, sulla base di considerazioni utilitariste condizionate dalla concezione del mondo e dai rapporti di forza fra le classi.
È necessario sottolineare come, a parere di Lukács, questo modo ideologico di pensare del positivismo rispecchi ciò che avviene nel modo capitalistico di produzione e, più in generale, nelle società caratterizzate dalla divisione del lavoro e dalla conseguente parcellizzazione dell’attività lavorativa, che favorisce la scomposizione della complessità del reale in un insieme di fatti “isolati”, talmente semplici da poter essere ridotti al mero aspetto quantitativo.
Il metodo dialettico, alla base della visione del mondo filosofica di Marx, si contrappone proprio a questa considerazione positivizzante dei fenomeni sociali, che non ne consente la storicizzazione, occultandone la natura transitoria e i legami che li uniscono fra di loro quali parti di una totalità organica, come il modo di produzione. Proprio perciò l’indagine marxiana della società deve fondarsi sul concetto hegeliano di totalità che consente, come sottolinea Lukács, di considerare la società non come un mero aggregato di fatti indipendenti, osservabili e analizzabili con il metodo statistico-matematico, ma come un insieme organico, in cui ogni componente trova senso unicamente nella relazione con le altre e con la totalità.
Contrapponendo il metodo delle scienze naturali, proprio della visione del mondo positivista funzionale alla borghesia, a quello dialettico delle scienze sociali e insistendo sull’importanza del concetto filosofico di totalità, Lukács critica anche il Diamat, ovvero la dogmatizzazione del marxismo che si stava attuando in Urss. Il Diamat, assolutizzando delle riflessioni di Engels sulla filosofia della natura, aveva preteso di fare della dialettica il metodo scientifico valido per comprendere ogni ambito del reale, una sorta di grimaldello che consentisse di disvelare la verità sia del mondo naturale che del mondo umano. Al contrario, Lukács considera la dialettica certo essenziale per l’analisi delle scienze storico-sociali, ma non egualmente risolutiva per la comprensione del mondo naturale; del resto lo stesso marxismo non può essere considerato, come avveniva in Urss, come una teoria generale dello sviluppo dell’intera realtà, ma come una teoria critica della società capitalista.
Nel 1923, oltre a Storia e coscienza di classe, esce Marxismo e filosofia, in cui Karl Korsch analizza le ragioni della sconfitta della rivoluzione in Occidente. Pur essendo presenti le condizioni storiche oggettive per il processo rivoluzionario, dato lo sfaldamento e il discredito della classe dirigente, in particolare in Germania dopo la sconfitta nella Grande Guerra, la coscienza rivoluzionaria delle masse si era dimostrata inadeguata. Ciò porta Korsch ad insistere sulla centralità dell’elemento soggettivo, della volontà agente e della prassi politica quali componenti decisive del marxismo. Come dimostrano le Tesi su Feuerbach, il marxismo non può essere ridotto a un’analisi critica della società capitalistica o a una previsione “scientifica” della sua progressiva crisi. Il marxismo mira alla realizzazione della filosofia in quanto critica della realtà sociale e sua trasformazione rivoluzionaria.
La teoria critica nel marxismo è inseparabile dalla prassi rivoluzionaria, per cui la coscienza soggettiva non può esser considerata un riflesso dell’essere sociale, come sostenevano tanto la Seconda Internazionale quanto il Diamat. In tal modo però, si era dimenticato che la soggettività è parte integrante della realtà e del processo della sua trasformazione. Il reale è in costante sviluppo a partire dall’azione della classe rivoluzionaria che lo viene trasformando [3]. La realtà, dunque, non può essere considerata un insieme di fatti, in quanto è espressione dialettica della connessione strettissima fra natura e storia, fra ambiente sociale e individui che con esso interagiscono.
Note:
[1] Eduard Bernstein (1850-1932), esponente di spicco della SPD, in una serie di articoli apparsi su Die Neue Zeit, poi rielaborati in I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1899), si è proposto di ristabilire la consonanza fra prassi gradualista, riformista del partito, e teoria massimalista. Richiamandosi al socialismo di impronta positivista, elaborato in primis da Dühring, Bernstein, mirava a porre in discussione i presupposti filosofici del marxismo e, in primo luogo, le sue origini nella concezione dialettica della storia di Hegel, che aveva portato Marx a considerare la lotta di classe il motore dello sviluppo storico. Così Bernstein, dal punto di vista politico, ritiene storicamente superata la concezione della presa del potere per via rivoluzionaria. La lotta per una nuova società è ormai da considerarsi un’inutile utopia, dal momento che gli pare possibile risolvere le contraddizioni del capitalismo mediante una politica di riforme.
[2] L’interpretazione del marxismo di Korsch, come filosofia della prassi, si lega alla centralità che assumono nella sua teoria i consigli dei lavoratori come strumenti del processo rivoluzionario e, al tempo stesso, nucleo portante della futura società socialista dal punto di vista economico e politico. La prassi rivoluzionaria dei consigli costituisce la migliore verifica della teoria critica dal momento che, per Korsch, ogni scienza sorge e ha validità solo in quanto consente di risolvere bisogni pratici e contraddizioni sociali.
[3] La stessa teoria del riflesso, secondo Korsch, è viziata dal dualismo di soggetto ed oggetto, di essere e pensiero, dualismi estranei al pensiero dialettico. Korsch non intende negare che la coscienza rifletta la realtà, ma vuole mostrare come quest’ultima sia a sua volta prodotto dell’azione cosciente dell’uomo.