Il testo che segue è stato scritto all’inizio del mese, prima del cessate il fuoco a Gaza. Lo pubblichiamo ugualmente in quanto ritenuto di interesse per un dibattito interno al nostro paese.
Il nuovo acuirsi della questione palestinese è senza alcun dubbio uno degli elementi che ha segnato maggiormente il 2024. Da un lato la reazione scomposta di Israele ha mostrato a milioni di persone in Italia e nel mondo, assuefatte dalla propaganda atlantista, il carattere violento di tale regime; dall’altro lato, invece, nel Vicino Oriente si è assistito ad un ulteriore improvviso crollo delle condizioni di vita delle popolazioni civili, e si sono anche intravisti i limiti nelle capacità di chi, nel mondo, ha provato a sostenere il popolo della Palestina con boicottaggio, contrasto al governo, occupazioni universitarie, etc.
Questo articolo non vuole avere la pretesa di fornire un bilancio o delle prospettive per questa grandiosa e tragica lotta mondiale, ma si propone di analizzare alcune delle fratture che il grande movimento reale e di idee ha prodotto durante quest’anno, in particolare in Italia.
Quale lotta di classe?
Iniziamo da una delle questioni che negli ultimi anni hanno maggiormente influenzato la visione del mondo e la prospettiva politica di intellettuali e formazioni marxiste in Italia: l’approccio geopolitico nell’analizzare il contesto internazionale. Questa tendenza, che in alcune circostanze si è fatta anche erede del campismo dello scorso secolo, si fa ogni giorno più egemone, riuscendo ad interessare segmenti sociali fino ad oggi estranei alla politica attiva, ma non è priva di contraddizioni. In particolare sembra emergere con sempre maggior forza tanto più si rafforza il pessimismo ed il disfattismo, o dall’altro lato l’astratto messianismo di chi la pone al centro della propria visione del mondo. Ecco allora che a fare la storia non sono più le classi sociali, relegate a mero attore passivo (se presente) nell’analisi, e che non è più possibile fare nulla per ribaltare i rapporti di forza in Italia a causa dell’imperialismo finanziario, o dello strapotere del dollaro, della deindustrializzazione, e così via; ecco anche come, d’altro lato, la lotta di liberazione nazionale palestinese non potrà giungere a risultati considerevoli fintantoché non avrà il sostegno di un blocco di paesi, e che ci si esercita nell’analisi militare fin nel minimo dettaglio, ritenendola l’elemento centrale, in un contesto di pura guerra di potenza tra stati e/o attori non statali, capace per sé sola di determinare la vittoria o la sconfitta.
Ugualmente sulla stessa tendenza è la posizione di chi sostiene l’impossibilità di una risoluzione basata sui rapporti di forza della questione nazionale palestinese, per la quale auspica invece una risoluzione fondata sul diritto internazionale, sul ruolo dell’ONU, sui diritti umani. Tale posizione non può che risultare ancora più astratta della precedente, in quanto, astraendo persino dai rapporti di forza tra gli stati in prospettiva di una soluzione giuridico-morale della questione, dimentica che anche la legge e la morale sono prodotto della lotta di classe tra gli stati e negli stati.
Esemplificativa della prima tendenza qui esposta è la reazione di ampi settori della sinistra di classe agli accadimenti siriani: svanita ogni idealistica possibilità di ritenere la Russia un paese cardine dell’antimperialismo mondiale, tolta dall’equazione la possibilità di intervento cinese e ridotta al lumicino l’influenza dell’asse della resistenza nella regione, il rafforzamento di Israele, delle petromonarchie e della Turchia, anche tramite i Fratelli Musulmani, nonché il deciso ricollocamento della Siria come paese sostenitore dello sterminio del popolo palestinese, non può che apparire a costoro come un segnale decisivo di sconfitta. Anche in questo caso non si potrebbe fare altro che concordare con questa che è una corretta analisi dei rapporti di forza tra gli stati, se non fosse che per farlo è necessario nascondere sotto il tappeto la questione centrale del ruolo delle masse popolari arabe. Tale analisi campista, oggettivista, incentrata sui rapporti di forza qui ed ora non può che rappresentare solo una parte della realtà, quella dettata dal pessimismo della ragione, le cui conclusioni non permettono di vedere l’intero. L’ottimismo della volontà, invece, spinge a considerare la reazione delle popolazioni arabe di fronte al crollo del regime di Bashar al-Assad: la rinata mobilitazione in Cisgiordania, che lascia sperare in una futura nuova intifada [1]; le avvisaglie di mobilitazioni di massa in Egitto [2] (dove comunque si è svolta la prima manifestazione non autorizzata a sostegno della Palestina dal 7 ottobre [3]), probabilmente favorite da quello stesso rafforzamento regionale dei Fratelli Musulmani e che tuttavia rischiano di mettere in profonda crisi il ruolo regionale che il paese ha assunto dall’affermarsi del regime di al-Sisi; il popolo siriano, ancora abbastanza silente ma che non viene tenuto in considerazione nel momento in cui si analizza quale sarà la futura sorte del suo paese.
Parliamo del 7 ottobre
La sbandata geopolitico-campista, o giuridico-moralista, di ampi settori delle forze della sinistra di classe ha accompagnato anche la battaglia per le idee che si è prodotta relativamente agli avvenimenti militari, dal 7 ottobre in poi. Spesso anche in questo caso con analisi raffinate, ma che mancavano il punto perché incapaci di cogliere le relazioni dialettiche tra gli elementi considerati. Ecco allora come ritenere primario elemento di rilievo il piano miliare ha prodotto la distorta percezione o che ci si trovasse dinnanzi ad una tragedia senza precedenti e senza possibilità di appello, davanti la quale ogni altra considerazione al di là della disperazione per lo sterminio fosse violenta ed insultante, oppure che si trattasse di un tremendo atto genocidiario, certo, ma ultimo tentativo disperato dell’entità sionista, ormai in crisi irreversibile e certamente destinata a cadere sotto i colpi della resistenza palestinese, di Ansar Allah e di Hezbollah. Anche queste prospettive, che hanno accompagnato tanta della battaglia per le idee prodottasi dal 7 ottobre in poi su questa questione, hanno perso influenza di fronte al crollo della Siria: il riaprirsi della questione curda in tutte le sue laceranti contraddizioni, il ridimensionamento dell’asse della resistenza e la plausibilità di un cessate il fuoco prossimo a Gaza stanno ponendo e porranno sempre più altre questioni all’ordine del giorno.
Passati tanti mesi di questo dibattito, ci limitiamo qui a notare solo che la mobilitazione sulla questione nazionale palestinese ha subito con questa battaglia di posizioni una sostanziale schizofrenia, in cui ci si trovava davanti un popolo vittima del primo genocidio ripreso in diretta della storia umana, ma allo stesso tempo anche capace di sconfiggere, da solo o quasi, l’imperialismo occidentale sul terreno militare. C’è stato chi, per tirarsi fuori da questo paradosso, e probabilmente anche per placare la propria pasciuta coscienza, ha voluto vedere nella netta separazione (o addirittura contrapposizione) tra Hamas ed i palestinesi, assunti entrambi come entità assolute rappresentative delle due contrapposte percezioni della situazione, il bandolo della matassa: i palestinesi sono i buoni uccisi, Hamas il cattivo gruppo, da loro separato, che invece fa la guerriglia e li manda a morire. Un’interpretazione delle cose, questa, che peraltro ignora la presenza di molteplici forze organizzate locali e generali nella resistenza palestinese, incluse forze comuniste e socialdemocratiche. La realtà è che l’attività militare della resistenza ha grande sostegno tra la popolazione (prova ne sia che tale resistenza è tuttora attiva nonostante più di un anno di guerra di sterminio), ma che essa può oggi dire di aver resistito e anche di aver danneggiato l’entità sionista e l’imperialismo solo in quanto quell’attività militare ha avuto un tale risultato politico, e non come attività militare in sé! Il terreno militare fine a sé stesso non permette la sconfitta definitiva dell’imperialismo nella regione, specialmente quando si tratta di forze di guerriglia (e dunque di una guerra asimmetrica, molto funzionale in difesa e logoramento, meno in senso offensivo), e non può allora servire se non come risposta ad aggressioni e strumento di prima organizzazione, di esempio o di copertura di una più ampia di lotta di massa in tutte le componenti del popolo palestinese, sostenuta dal movimento internazionale, che sola può garantire la vittoria nell’autodeterminazione del popolo palestinese in tutta la sua terra, dal fiume al mare. Su questo piano nella regione la vittoria si può ancora conquistare, e nel mondo già molto è stato fatto, data la sostanziale perdita di egemonia, almeno in potenza, che l’imperialismo occidentale ha subito dal suo smaccato sostegno all’aggressione genocida dell’entità sionista.
Armiamoci e partite
Concludiamo ora con due considerazioni, di cui una riguarda la Palestina ed una l’Italia. Per la prima, abbiamo detto che la crisi siriana sta producendo forti avanzamenti nella mobilitazione popolare del territorio della Palestina storica nel quale è sempre stata più forte la lotta delle Intifade, ovvero la Cisgiordania. Aggiungiamo a ciò che tale lotta ha costretto a rivelare con sempre maggiore chiarezza il ruolo subalterno che l’ANP ha nei confronti di Israele, fornendo anche in questo caso una profonda chiarificazione tanto a settori della popolazione araba e palestinese quanto a milioni di persone nel mondo. Questa consapevolezza, data in particolare dagli eventi di Jenin, è tanto preziosa che da sola riesce quasi a rendere indispensabili tali accadimenti, le cui scosse di assestamento si sono sentite anche in Italia, in particolare su quel fronte che abbiamo definito giuridico-morale, e che vedeva (o ancora vede) nel riconoscimento internazionale dell’ANP la chiave del successo dei palestinesi. Bel successo! Armarsi contro l’invasore coloniale ed essere per questo attaccati dal proprio governo!
In Italia, la debolezza delle organizzazioni di classe o genericamente di massa si è manifestata con più forza che in altri paesi, come più spiccato è stato il settarismo delle burocrazie di partito, sindacali, di area politica. È stato per questo che, forse unico caso nel mondo occidentale, sono state le organizzazioni palestinesi a fare fronte unico ed a organizzare la mobilitazione popolare contro il genocidio e/o a sostegno della resistenza. Da più parti sono piovute critiche sulla direzione che queste organizzazioni hanno dato alla mobilitazione, anche nei loro continui contrasti, ma è stata molto raramente posta la questione centrale e decisiva del ruolo e del rapporto tra le organizzazioni palestinesi ed italiane che sarebbe necessario avere in Italia. Infatti, tra i gruppi nazionali di palestinesi in Italia, API, UDAP e Comunità palestinesi hanno sostanzialmente in ogni caso corrispettivi in Palestina, spesso anche con forti contrasti reciproci, se non aperte opposizioni: come chiedere allora a referenti politici di organizzazioni di un altro Stato di decidere al posto degli italiani quale politica adottare in Italia? Come lamentarsi se tale politica assume caratteristiche palestinesi, essendo fatta da palestinesi? Tutto questo non dimostra nulla se non il disfattismo e la debolezza delle organizzazioni politiche italiane, che nei casi in cui hanno provato a prendere spazio nelle mobilitazioni a scapito dei gruppi palestinesi l’hanno fatto per biechi interessi di area e per portare avanti la politica di piccolo cabotaggio tanto amata a queste latitudini.
È il momento, anche di fronte alle fratture sempre più incisive tra le organizzazioni di palestinesi in Italia, prodotto inevitabile dell’acuirsi degli scontri in Cisgiordania, che i comunisti italiani rivendichino la centralità dell’unità delle organizzazioni italiane nella mobilitazione del nostro paese, ovvero di chi sa (o dovrebbe sapere) al meglio quali parole d’ordine, quali avvenimenti, quali metodi organizzativi e azioni di lotta siano le più adatte alla popolazione del nostro stato. Lasciamo ai palestinesi il ruolo che è giusto a loro competa, ovvero quello di farci da guida e da assistenza nella comprensione delle dinamiche della loro regione, e riappropriamoci del ruolo che è nostra responsabilità: condurre agli obiettivi stabiliti un movimento di massa nel nostro paese, contro il governo imperialista alleato del sionismo e contro le attività a sostegno del tentativo genocidario israeliano. Oppure, smettiamola di dirci avanguardie.
Note:
[1] Qui un articolo che anticipava la possibilità di questo processo.
[2] Tale risultato è temuto dallo stesso al-Sisi, come si vede qui, o da Israele, come è segnalato qui.
[3] Per vedere la situazione a pochi mesi prima del crollo del regime siriano, si legga qui.