Togliatti e il partito nuovo: la liquidazione del leninismo di Gramsci.

Nella terza parte conclusiva dello scritto “Antonio Gramsci, un rivoluzionario” approfondiremo come il corso togliattiano del PCI abbia snaturato l’orientamento leninista di Gramsci. Nelle conclusioni faremo emergere i limiti della strategia del “partito nuovo”.


Togliatti e il partito nuovo: la liquidazione del leninismo di Gramsci.

Abbiamo mostrato, quindi, come Gramsci non si allontani mai dal nocciolo rivoluzionario del suo pensiero. Durante il carcere egli approfondisce in modo originale la lezione leninista che arriva dall’Ottobre sovietico, ma non dimentica mai il carattere di sfruttamento della società borghese e l’inevitabilità della lotta di classe. Nonostante questo Gramsci diverrà l’elemento fondativo di quel “partito nuovo” togliattiano, che si caratterizzerà proprio per l’allontanamento dal leninismo e un recupero della socialdemocrazia. Ciò comporterà un progressivo snaturamento delle categorie gramsciane e del loro lascito politico. Confrontarsi, dunque, con la lettura di Gramsci fornita da Togliatti e dal PCI non rappresenta un mero esercizio accademico di esegesi di un intellettuale, ma costituisce un confronto essenziale tra le due diramazioni classiche della tradizione socialista, quella riformista e quella rivoluzionaria, e una disamina di quali siano i fondamenti teorici della mutazione genetica del movimento comunista internazionale dopo la Seconda Guerra Mondiale. Una simile analisi, data l’estrema brevità di questo scritto, può essere solo accennata, ma va condotta fuori da ogni tifoseria e contro ogni schematica agiografia o demonizzazione del PCI e del suo gruppo dirigente. Le critiche, difatti, devono essere sempre condotte con criterio politico, in modo razionale e dialettico, senza ridursi ad accuse di “tradimento” o esaltazioni di “genio” rispetto a una figura piuttosto che a un’altra. Chiarita questa nota di metodo si può passare alla rassegna dei discorsi e degli scritti di Togliatti su Gramsci. Gli interventi che Togliatti elabora negli anni su Gramsci mostrano una decisa mutazione nel linguaggio usato. In «Antonio Gramsci capo della classe operaia italiana» (1937 - 1938) il segretario in esilio del PCd’I definisce Gramsci “il primo marxista”, “il primo che comprende a fondo l’insegnamento rivoluzionario dei fondatori del socialismo scientifico” [1], per il quale “il problema del partito, il problema della creazione di un’organizzazione rivoluzionaria della classe operaia, capace di inquadrare e dirigere la lotta di tutto il proletariato” sia stato “al centro di tutta l’attività, di tutta la vita, di tutto il pensiero di Antonio Gramsci” [2]. Dopo avere ricordato come Gramsci si sia scagliato contro il “nullismo opportunista e riformista” [3] del Partito socialista italiano, precisa come “la dottrina marxista, liberata dalle scorie sotto le quali gli opportunisti avevano sotterrato la sua sostanza rivoluzionaria, riapparirà nella sua luce vera, come dottrina della rivoluzione proletaria e della dittatura del proletariato” [4]. Un principio che l’autore riscontra anche negli scritti di Gramsci, riportati in seguito nel testo [5]. A partire dal 1944, invece, si registra un profondo cambio di lessico, che sposta il piano dalla rivoluzione alla trasformazione graduale nel quadro della democrazia. Per Togliatti il termine della Seconda Guerra Mondiale rappresenta una “situazione profondamente diversa” e “altri sono gli obiettivi” da porre al popolo italiano rispetto agli anni di fondazione del partito [6]. Secondo questa inedita ottica politica Gramsci diventa colui che ha interpretato la classe operaia non più come un soggetto rivoluzionario da organizzare per rovesciare la borghesia, ma come "classe dirigente” per il “rinnovamento di tutta la vita economica, politica e sociale d’Italia”, capace di fondare nello spirito della più rigorosa dottrina marxista una politica completamente nuova per il socialismo italiano”, con la quale “si aprono al paese le strade sicure della libertà e del progresso” e il socialismo “diventa movimento nazionale, progressivo, liberatore” [7]. Quella che viene proposta, quindi, è una trasformazione graduale dei rapporti di produzione capitalistici, compatibilmente con il perimetro della democrazia borghese. Di conseguenza Gramsci deve cessare di essere considerato patrimonio del solo Partito Comunista e deve diventare un intellettuale di riferimento per qualsiasi italiano impegnato nella lotta per l’emancipazione al di là delle distinzioni politiche e delle fedi religiose [8]. Da quanto abbiamo richiamato la lettura di Gramsci da parte di Togliatti appare evidentemente stratificata e contraddittoria, passando dalla prospettiva rivoluzionaria di classe degli anni ’30 con l’obiettivo dichiarato della dittatura del proletariato a quella progressista nazionale per il “rinnovamento” dell’Italia del decennio successivo. Ciò che è in mezzo a questo cambiamento è una profonda modifica della strategia dei comunisti, annunciata con l’idea di un “partito nuovo”, un’espressione non casuale atta a sottolineare la differenza sostanziale con il corso precedente avviato proprio da Gramsci con le Tesi di Lione del 1926:

“Prima di tutto, e questo è l’essenziale, partito nuovo è un partito della classe operaia e del popolo, il quale non si limita più soltanto alla critica e alla propaganda ma interviene nella vita del paese con un’attività politica costruttiva (…) E’ chiaro che quando parliamo di partito nuovo intendiamo prima di ogni altra cosa un partito il quale sia capace di tradurre nella sua politica, nella sua organizzazione e nella sua attività di tutti i giorni, quel profondo cambiamento che è avvenuto nella posizione della classe operaia rispetto ai problemi della vita nazionale. La classe operaia, abbandonata la sua posizione unicamente di opposizione e di critica che tenne nel passato, intende oggi assumere essa stessa accanto alle altre forze conseguentemente democratiche, una funzione dirigente nella lotta per la liberazione del paese e per la costruzione di un regime democratico (…)  In pari tempo il partito nuovo che abbiamo in mente deve essere un partito nazionale italiano, cioè un partito che ponga e risolva il problema dell’emancipazione del lavoro nel quadro della nostra vita e libertà nazionale, facendo proprie tutte le tradizioni progressive della nazione.” [9]

Ecco il cambiamento del nuovo Partito Comunista: dalla critica alla "politica costruttiva", dall’opposizione alla “collaborazione con le altre forze democratiche”, dalla rivoluzione alla costruzione di un regime democratico dentro cui realizzare l’emancipazione del lavoro. Finita la guerra il PCI non dovrà "fare come in Russia” e sarà chiamato a “creare in Italia un regime democratico e progressivo” [10]. E’ l’idea togliattiana della “democrazia progressiva”, che dovrà distruggere le basi sociali del fascismo, liquidando la borghesia più reazionaria [11] attraverso l’unità d’azione con i socialisti e l'alleanza politica con la Democrazia Cristiana [12]. Il dibattito sulla portata storica del cambio strategico del PCI si è riaperto in occasione del centenario della fondazione del Partito Comunista d’Italia. Tra i libri pubblicati in Italia troviamo “La metamorfosi” di Luciano Canfora, uno scritto finalizzato a mettere in risalto e difendere le ragioni del “partito nuovo”, motivo per cui rappresenta un testo utile con cui confrontarsi per una critica politica. L’autore riprende diversi discorsi di Togliatti, mostrando come la fase aperta al termine della Seconda Guerra Mondiale non fosse semplicemente tattica, legata alla complessità dei rapporti di forza in un Italia segnata da vent’anni di fascismo, ma costituisse “una strategia di lungo respiro del tutto nuova”, incentrata sulla “democrazia politica”, le “riforme” e le alleanze politiche [13], attraverso la costruzione di un partito di massa [14], abbandonando l’impostazione leninista dell’organizzazione di rivoluzionari di professione. A partire dalla convinzione espressa nel 1943 di come “sarebbe assurdo, in un paese come l’Italia, pensare al governo d’un solo partito o al dominio di una sola classe” [15] e come la proclamazione di un’assemblea nazionale costituente sarebbe stata investita di “una funzione” capace di andare “ben oltre il riassestamento costituzionale: essa risolverà i problemi relativi alla nostra vita economica” [16]. Queste valutazioni saranno ribadite anche durante l’VIII congresso del PCI del dicembre 1956, quando Togliatti difenderà nuovamente "il terreno della democrazia” e inizierà a parlare chiaramente di riformismo, ritenendo “le norme di vita democratica e costituzionale non un ostacolo ma un aiuto a una costruzione socialista, che proceda con il minimo di rotture e sacrifici per le stessa masse lavoratrici e per il paese” [17]. Il cambio di prospettiva tra il corso gramsciano del PCd’I e quello di Togliatti va compreso e criticato nelle sue ragioni politiche e non può essere liquidato semplicemente attraverso l’accusa del “tradimento” opportunista, come se una cesura storica possa essere spiegata solo sulla base di motivazioni soggettive di singoli personaggi interessati al potere. Siamo evidentemente di fronte alla conseguenza di processi maturati rispetto allo “shock” fascista [18]. Le maturazioni soggettive sono connesse dialetticamente con l’oggettività delle fasi storiche. Gli esempi possono essere molteplici: l’avvento dell’opportunismo nella Seconda Internazionale favorito dal periodo di relativa stabilità del capitalismo a cavallo del XIX e XX sec, così come la successiva affermazione delle posizioni leniniste sulla necessità della rivoluzione di fronte al massacro del primo grande conflitto imperialistico [19]. In seguito il Comintern si troverà di fronte al fallimento della prospettiva di un contagio europeo dell’Ottobre sovietico, suggellato in modo emblematico dall’esito tragico delle insurrezioni tedesche (1919 - 1921) e dal “biennio nero “ italiano (1921-1922). La successiva presa del potere nazista (1933) e la sconfitta nella guerra civile di Spagna contro il fascismo franchista (1936-1939) produrranno non poche conseguenze sulla coscienza dei dirigenti comunisti. Se è vero che da un lato confermeranno l’inevitabilità dello scontro contro “la dittatura terroristica del capitale” [20], dall’altro spingeranno i comunisti in una situazione di estrema difficoltà, dalla quale si uscirà solo grazie all’allargamento delle alleanze con i fronti popolari e all’enorme sacrificio in termini di vite umane della Seconda Guerra Mondiale. L’avvento della reazione dopo il primo dopoguerra colpirà duramente la sezione italiana della Terza Internazionale, caratterizzata già di suo da un percorso molto frastagliato. Prima il PCd’I (1921) dovrà fare i conti con la figura di Amadeo Bordiga, croce e delizia del nascente partito per la grande autorevolezza e capacità organizzativa di cui era in possesso, contrastate però da un profondo settarismo politico. Appena l’organizzazione riuscirà a conquistare una posizione leninista matura, sintetizzata dalle Tesi di Lione di Gramsci (1926), quest’ultimo verrà incarcerato in meno di un anno, con la conseguenza che il partito perderà e non recupererà più il suo punto di riferimento intellettuale. A seguire il PCd’I piomberà nella lunghissima clandestinità spinto dal feroce sviluppo dittatoriale del regime mussoliniano e si scontrerà con le enormi difficoltà di mantenere un centro interno e la coesione di un gruppo politico segnato dall’imprigionamento di molte delle sue figure apicali. Tutte queste dolorose vicende se da un lato costituiranno un grande bagaglio di esperienza per i comunisti e un radicamento in Italia senza eguali rispetto alle altre forze politiche dissidenti, dall’altro influiranno negativamente sul processo di maturazione politica di un partito già fragile di suo, finendo per rafforzare un profilo dirigente come quello di Togliatti caratterizzato da “un fondo disincantatamente pessimistico in tutte le posizioni”, “che non va mai scordato valutando la misura della sua iniziativa e persino la fiducia di fondo in uno sviluppo gradualmente positivo dei rapporti di forza” [21]. Dalle sofferenze degli anni ’20 e ’30, dunque, dentro al movimento comunista internazionale  si forma una tendenza segnata dalla sfiducia nella classe proletaria e da un senso di impotenza per quanto riguarda una prospettiva generale di rivoluzione [22], punti deboli ritenuti da colmare mediante alleanze di classe con gruppi socialdemocratici e strati borghesi progressisti contro la parte più reazionaria della classe dominante. Il processo politico di revisione trova punto di lancio nell’impostazione strategica dei fronti popolari, cercando di mantenere ed estendere quest’ultima oltre la fase di lotta contro il nazifascismo, assumendola come orizzonte politico generale entro cui costruire il socialismo. Con la stabilizzazione borghese del secondo dopoguerra ciò che questi dirigenti riescono al massimo a concepire è la lotta economica come motore di una “democrazia progressiva”, però non più orientata all’instaurazione del dominio del proletariato. Una posizione evidentemente in contrasto con i principi fondamentali della lezione marxista e leninista, che riconosce nell’antagonismo di classe l’impalcatura dell’economia capitalistica e l'ineluttabilità della lotta per il potere tra il proletariato e la borghesia. La contraddizione essenziale che caratterizza la società borghese tra il profitto privato e il lavoro salariato, infatti, non ammette mediazioni, se non come momenti intermedi di un scontro inesauribile dentro una società iniqua e tale principio sarà ribadito ancora una volta proprio dall’esperienza storica successiva alla Seconda Guerra Mondiale. La strategia togliattiana della “democrazia progressiva”, annessa alla nuova forma organizzativa del “partito nuovo”, si scontreranno fin da subito con la cruda realtà degli interessi di classe dell’imperialismo. Le speranze di “rinnovamento» dell’economia italiana dentro un quadro costituzionale” e di “collaborazione con le altre forze democratiche" non supereranno la prova dei fatti: dalla rottura del governo di unità nazionale con l’esclusione delle sinistre (1947), passando dal tentato colpo di mano della “legge truffa" (1953), arrivando alla svolta a destra della Democrazia Cristiana con il governo Tambroni sostenuto dal MSI (1960), quest’ultimo respinto solamente grazie alla straordinaria risposta popolare antifascista. Sul piano del conflitto sociale sia gli anni ’50, sia quelli ’60, si apriranno con due stragi operaie: quella delle Fonderie Riunite di Modena (1950) e di Reggio Emilia (1960). Specularmente a livello internazionale si inasprisce la contrapposizione da parte dell’imperialismo contro il movimento comunista internazionale: la marginalizzazione del PCF in Francia nel 1947 analogamente al caso italiano, nel 1956 la messa al bando del Partito Comunista Tedesco e la sanguinaria Guerra di Corea nel continente asiatico (1950-1953). Tale elenco, che non pretende di essere esaustivo, è la dimostrazione dell’ostilità dell’imperialismo e della borghesia italiana a non tollerare nemmeno posizioni progressiste come quelle teorizzate in ambito europeo, in totale contrasto con le speranze di collaborazione democratica e di riforma strutturale del capitalismo italiano teorizzate nella linea progressista del PCI togliattiano. Di fronte all’insostenibilità delle possibilità “collaborazioniste” e “gradualiste", la linea del PCI non solo non verrà corretta, ma si rafforzerà nella pessimistica sfiducia nei rapporti di forza, conducendo il partito al progressivo sprofondamento nell’ideologia borghese e alla sua stessa liquidazione. Tale percorso politico seguirà parallelamente la fine del compromesso sociale del paradigma keynesiano (i “Trent’anni Gloriosi” 1945-1973) e il conseguente assalto liberista della fine degli anni ’70. Un’intera fase storica che testimonia l’essenziale brutalità dello scontro di classe che attraversa l’economia capitalistica, nonostante la sconfitta della reazione nazifascista. Di fronte allo sviluppo della “Guerra Fredda” l’errore strategico togliattiano non può essere giustificato su un’impossibile "capacità profetico-previsionale sovrumana di un dirigente politico” [23],come ad esempio motivato da Canfora in difesa del “pragmatico realismo” di Togliatti. Piuttosto un profilo come quello del segretario del PCI doveva essere ben conscio della natura fondamentale di sfruttamento del capitalismo monopolistico e dell’impossibilità di una transizione progressiva a un ordine socialista antitetico a quello del profitto borghese. L’esperienza storica, in particolare la fase neoliberista a cui stiamo assistendo, sono la più evidente smentita di qualsiasi possibilità di “democrazia progressiva” e dell’idea per cui “le azioni riformiste, in linea generale, avanzano lentamente, con cautela, grado a grado, ma non vanno mai all’indietro”, [24] quasi la storia avanzasse per un progresso stadiale. Le parole usate da Togliatti dimostrano un evidente ritorno alla visione riformista di Turati [25], riportando i comunisti italiani al punto di partenza dal quale si erano mossi con la scissione di Livorno. Questa prospettiva, che apparentemente sembra concreta di fronte a rapporti di forza ritenuti insufficienti [26], si dimostra perdente sul lungo periodo. L’attacco senza precedenti alle conquiste della classe lavoratrice scatenato a partire dagli anni ’70, il neocolonialismo, così come lo sviluppo della guerra a livello globale e la crescente competizione tra monopoli, confermano la necessità di un pensiero che sappia essere autenticamente rivoluzionario. La sfida è riuscirlo a declinare in assenza di una crisi acuta del capitalismo, come quella avvenuta nei due conflitti mondiali, traducendolo in un’epoca caratterizzata dal contrattacco borghese e dalle macerie dell’esperienza socialista novecentesca tra il crollo dell’URSS e la diffusione del revisionismo. Seppure sia impossibile riproporre schematicamente l’esperienza delle rivoluzioni socialiste di matrice leninista del secolo precedente, perché si innestarono in contesti politici ed economici completamente differenti da quelli imperialisti attuali, ad esempio la Russia zarista e le ex colonie [27], tuttavia non si può disperdere i principi politici e l’esperienza accumulata contro un modo di produzione fondato su rapporti di potere e sfruttamento. Di queste difficoltà era consapevole Antonio Gramsci, su cui concentrò la sua attenzione durante l’esperienza carceraria. Da un punto di vista della strategia appare di enorme utilità la differenza politica articolata da Gramsci tra “guerra di movimento” e “guerra di posizione” [Q 1613]. La prima è caratterizzata dallo “sfondamento»”[Q 1614], dall’assalto alle posizioni nemiche, mentre la seconda è quella di “assedio” [Q 802], segnata dal logorio e dalla capacità di resistenza su lungo periodo, analogamente come fu l’esperienza delle trincee nella Prima Guerra Mondiale dal punto di vista bellico. Per Gramsci già Lenin si accorse “che occorreva un mutamento dalla guerra manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel 17, alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente”, poiché se “in Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa”, in Occidente lo Stato è “solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte” [Q 866]. In questo senso le nazioni a “capitalismo maturo” costituiscono un contesto politico significativamente diverso alla Russia zarista, essendo attraversate da un articolato strato di corpi intermedi, che irretiscono il proletariato nell’ideologia borghese e ne assorbono la potenzialità conflittuale:

“La struttura massiccia delle democrazie moderne, sia come organizzazioni statali, che come complesso di associazioni nella vita civile costituiscono per l’arte politica come le trincee e le fortificazioni permanenti del fronte nella guerra di posizione" (Q 1567)

Sul piano politico la confusione tra i due tipi di guerra “avviene per una inesatta comprensione di ciò che è lo Stato (nel significato integrale: dittatura + egemonia)” [Q 811], cioè di misconoscimento della struttura articolata che il potere assume nei paesi imperialisti. Questa importante riflessione di Gramsci risulta ancora più preziosa di fronte alla complessa epoca storica in cui stiamo vivendo. Pur essendo la guerra di posizione gramsciana una lotta rivoluzionaria, cioè atta a rovesciare la classe dominante, essa esclude l’idea di uno scontro campale con la borghesia, ma prospetta un assedio continuo, un’azione costante di logoramento diretta a disarticolare il vasto apparato egemonico e coercitivo dello stato capitalista.

Conclusioni

Abbiamo mostrato con puntuali riferimenti ai testi come tutto il pensiero di Antonio Gramsci sia interno a una prospettiva rivoluzionaria dagli scritti giovanili alle note carcerarie. Le riflessioni e le categorie che lui ha elaborato, anche quelle più richiamate in ambito accademico, non sono separabili dal nocciolo leninista del suo percorso intellettuale e costituiscono un’irrinunciabile cassetta degli attrezzi per le sfide del presente. Oggigiorno una prospettiva di rivoluzione, come quella che ha caratterizzato l’esperienza militante di Gramsci, appare inattuale, legata al contesto storico della prima metà del Novecento e a quello della liberazione coloniale, ma di fronte al contrattacco liberista degli ultimi decenni sono proprio le aspettative riformiste, come quelle incarnate dalla "democrazia progressiva” e dal “partito nuovo” di Togliatti, ad essere state nuovamente confutate dalla Storia come possibilità strategiche e ad apparire oggi insostenibili. Non bisogna nascondersi come la sconfitta storica del movimento comunista al termine del secolo scorso e la tenuta generale del capitalismo a livello globale, nonostante il ciclo di crisi iniziato dagli anni ’70, costituiscono insieme una barriera notevole al recupero di un’ipotesi rivoluzionaria. Ci troviamo a vivere, quindi, in un’epoca chiaroscurale, nella quale il capitalismo continua ad avviluparsi in crisi continue, a produrre sempre più miseria, distruzione ambientale e guerre, mentre paradossalmente è riuscito a imporsi sul negativo che avrebbe dovuto rovesciarlo. Di fronte a questa apparente aporia storica i comunisti devono saper ripartire pazientemente sulla base di una visione proiettata sui tempi lunghi, così come lo stesso Gramsci ci aiuta a mettere a fuoco. Sono proprio i Quaderni a richiamarci alla durevole crisi organica del capitale, a causa delle “forze di vischiosità insospettate” che una formazione sociale può dimostrare [Q 1744] e delle “rivoluzioni passive” [1088-1089] che il potere può operare come correttivi, seppure quest’ultime possano rappresentare solo delle soluzioni temporanee alle inevitabili contraddizioni del modo di produzione capitalistico. La “viscosità” della storia impone ai comunisti una resistenza tenace, attraverso la quale scardinare l’apparato statale. Articolare oggi una “guerra di posizione”, difatti, significa svolgere un lavoro politico di massa capace di intercettare e alimentare tutte le fratture del capitalismo, in cui consistono le lotte prodotte inevitabilmente dalle contraddizioni strutturali dell’economia del profitto. Per fare ciò, tuttavia, occorre la massima duttilità nella tattica, ossia la maggiore capacità sul piano politico di rapportarsi dialetticamente con una realtà molto lontana da una coscienza politica di cambiamento di paradigma. In sostanza, attualizzare oggi la concezione di guerra di posizione, significa condurre una guerriglia sociale e ideologica di ampio respiro, con grande intelligenza e in modo organizzato. Come abbiamo visto negli scritti di Gramsci, difatti, solo un partito rivoluzionario dotato di una profonda conoscenza delle leggi di sviluppo materiale può centralizzare le forze antagonistiche al capitale e riuscire a rovesciare i rapporti di forza. Al contrario la frammentazione di sindacati, comitati e collettivi, nonostante possano rappresentare esperienze importanti di contropotere, non potranno mai risultare vincenti sul dominio borghese, poiché quest’ultimo è dotato dell’apparato organizzativo dello stato capitalista, contro la quale solo un sufficiente livello di strutturazione politica potrà avere la meglio in un momento favorevole di crisi della classe dominante. In conclusione due sono i piani da tenere mettere in dialettica: il radicamento nelle lotte espresse dalla spontaneità della classe e la costruzione di un soggetto rivoluzionario capace di superare la diaspora comunista. Questo è quanto aveva capito Gramsci quando spiegava come la “democrazia operaia” si costruisca già immediatamente nei numerosi organismi autonomi che si sviluppano dentro le contraddizioni capitalistiche, tuttavia senza dimenticare la necessità di un’organizzazione capace di centralizzare la loro resistenza al capitale. Lo scenario politico attuale vede la divaricazione di questi due momenti, tra movimenti in grado di sviluppare tante battaglie seppure divise e prive di prospettiva, e piccoli partitini o gruppi identitari, sedicenti comunisti, incapaci a costruire una qualsiasi unità e mancanti di un radicamento effettivo nella realtà sociale. Questo è il prodotto storico della compromissione dei partiti comunisti del Novecento: la divaricazione mortale tra l’autonomia del politico delle organizzazioni partitiche con la loro compromissione riformista e l’opposto rifiuto del partito con il conseguente scivolamento nella frammentazione extraparlamentare e movimentista. Riuscire a ricucire questa cesura, facendo sintesi tra il piano della lotta e la costruzione dell’organizzazione, è la sfida storica che si prospetta per tutti coloro che ritengono lo scontro di classe l’unico terreno possibile attraverso il quale continuare a immaginare un’alternativa alla barbarie imperialista.


 

Note:

 

1 P. TOGLIATTI, Scritti su Gramsci, a cura di G. Liguori, Roma, Editori Riuniti, 2001, p. 62

 

2 Ivi, p. 63

 

3 Ivi, p. 66

 

4 Ivi, p. 72

 

5 Ivi, p. 73. Togliatti cita: “La rivoluzione è tale […] quando si incarna in un tipo di Stato, quando diventa un sistema organizzato di potere […] La rivoluzione proletaria è tale quando dà vita a uno Stato tipicamente proletario, che svolge le sue funzioni essenziali come emanazione della vita e della potenza proletaria” A. GRAMSCI, La taglia della storia, in L’Ordine Nuovo

 

6 Ivi, p. 103

 

7 Ivi, p. 123 (corsivo mio)

 

8  Togliatti sostiene: “ma guai a noi, comunisti, se credessimo che il patrimonio di Antonio Gramsci è solamente nostro. No, questo patrimonio è di tutti, di tutti i sardi, di tutti gli italiani, di tutti i lavoratori che combattono per la loro emancipazione, qualunque sia la loro fede religiosa, qualunque sia la loro credenza politica”. Ivi, p. 128.

 

9  P. TOGLIATTI, Avanti verso la democrazia! (1944) citato in P. SPRIANO, Storia del Partito

comunista italiano (vol. 8 parte seconda), Torino, Giulio Einaudi Editore, 1975, p. 388

 

10 Ivi, p. 389

 

11 P. TOGLIATTI, Per la libertà d’Italia, per la creazione di un vero regime democratico, in SPRIANO

(1975), p. 390

 

12 Ivi, p. 391

 

13  L. CANFORA, La metamorfosi, Cles (TN), Editori Laterza, 2021, p. 22

 

14  Ivi, p. 25

 

15  P. TOGLIATTI, Opere, citato in CANFORA (2021),  p. 34

 

16  P. TOGLIATTI, Discorso al teatro La Pergola (1944), in CANFORA (2021), p. 26

 

17 P. TOGLIATTI, Opere Scelte, in CANFORA (2021), p. 52

 

18  Sempre Canfora su Togliatti “Egli ha maturato la convinzione che la sconfitta subita nel 1919-22 e 

la lunga durata del fascismo sono state una lezione che ha cambiato totalmente lo scenario:

un’esperienza storica culminata nella guerra (…)” L. CANFORA, La metamorfosi, Cles (TN), Editori

Laterza, 2021, p. 22

 

19 LENIN, Il fallimento della Seconda Internazionale (1915), in Il socialismo e la guerra, Milano,

Edizioni Lotta Comunista, 2008, p. 37

 

20  G. DIMITROV, Rapporto al VII Congresso dell’Internazionale Comunista (1935), citato in P.

SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano (Vol. 3°), Torino, Giulio Einaudi Editore, 1976, p.

21-22

 

21 G. DIMITROV, Rapporto al VII Congresso dell’Internazionale Comunista (1935), citato in P.

SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano (Vol. 3°), Torino, Giulio Einaudi Editore, 1976, p.

21-22

 

22  cfr. P. TOGLIATTI in Rinascita (28 luglio 1962), citato in CANFORA, La metamorfosi, Cles

(TN), Editori Laterza, 2021, p. 56

 

23  Ivi, p. 33

 

24  P. TOGLIATTI, Rinascita, 28 luglio 1962, in L. CANFORA (2021), Ivi p. 57

 

25  cfr. F. TURATI, Discorso al XVII Congresso Socialista, 1921: “Nell’azione che non è l’illusione,

che non è il miracolo, la rivoluzione in un giorno o in un anno, ma è la abilitazione progressiva,

faticosa, misera, per successive graduali conquiste, obiettive e soggettive, nelle cose e nelle teste, della

maturità proletaria a subentrare nella gestione sociale: sindacati, cooperative, potere comunale,

parlamentare, cultura, tutta la gamma, questo è il socialismo che diviene! E non diviene per altre vie:

ogni scorciatoia non fa che allungare la strada; la via lunga è la sola breve.”

 

26  cfr. CANFORA (2021), p. 33

16/03/2024 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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