Marx e la libertà ridotta ad alienazione della forza lavoro

Se sul mercato si presentava quale libero proprietario della propria merce, concluso l’affare, si scopre che egli non era un libero agente, che il tempo per il quale egli può liberamente vendere la propria forza-lavoro è il tempo per il quale egli è costretto a venderla. 


Marx e la libertà ridotta ad alienazione della forza lavoro Credits: https://www.repubblica.it/commenti/2019/01/25/news/il_giorno_in_cui_siamo_diventati_alienati_e_contenti-300983405/

Come denuncia Karl Marx la libertà sancita dai diritti umani nella accezione borghese è una libertà astratta – di cui solo una minoranza gode realmente – e individuale – il fondamento dell’insocievole socievolezza della burgherlische Gesellschaft [società civile borghese]. Per la maggior parte degli uomini tale libertà si riduce alla libera vendita della propria forza lavoro. La libertà della persona proprietaria della forza lavoro si definisce solo in negativo, quale libertà di alienare il proprio diritto: “la separazione della proprietà dal lavoro si presenta come legge necessaria di questo scambio tra capitale e lavoro”. La sua proprietà è negativa, la forza-lavoro è il non-capitale, è la mancanza degli strumenti di lavoro necessari alla sua realizzazione e dei mezzi di sussistenza indispensabili alla sua riproduzione. “È il lavoro vivo esistente come astrazione da questi momenti della sua effettiva realtà (e altresì come non-valore); questa completa spoliazione, pura esistenza soggettiva, priva di ogni oggettività, del lavoro” [1]. È la compiuta alienazione del suo essere atto, è mera potenza reificata nella persona [2]. Gli ideali politici della rivoluzione borghese, sono capovolti nella dura prassi della società civile: il lavoratore liberato decade nella merce più misera, la potenza e la quantità della produzione, riduce il proletario all’indigenza, “il risultato necessario della concorrenza è l’accumulazione del capitale in poche mani, e quindi la più terribile ricostruzione del monopolio” [3]. La forza lavoro liberata da ogni tutela politica, lasciata alla libera amministrazione della propria forza lavoro è costretta alla compiuta alienazione di se stessa pur di poter accedere ai mezzi di sussistenza. Se sul mercato si presentava quale libero proprietario della propria merce, “concluso l’affare, si scopre che egli «non era un libero agente», che il tempo per il quale egli può liberamente vendere la propria forza-lavoro è il tempo per il quale egli è costretto a venderla, che in realtà il suo vampiro non lascia la presa «finché c’è un muscolo, un tendine, una goccia di sangue da sfruttare»” [4]. Il volontario contratto con il capitale, la libera alienazione della propria merce deve essere negata dal proletariato quale classe, mediante un vincolo politico, una legge dello stato che gli impedisca di alienare sé e la sua “schiatta alla morte e alla schiavitù” e ai padroni di guastare lo strumento indispensabile alla valorizzazione del capitale. Dal “pomposo catalogo dei «diritti inalienabili dell’uomo»” [5] si passa alla rivendicazione della Magna Charta del tempo necessario alla riproduzione della propria forza lavoro quale merce. Al punto che il lavoratore si sente libero ”soltanto nelle sue funzioni animali, (…) e invece si sente nulla più che una bestia nelle sue funzioni umane” [6]. Il lavoratore non può riconoscersi né nel proprio corpo, che ha alienato al capitalista quale merce, né nella propria essenza spirituale, dal momento che l’attività sociale gli è estranea, né può riconoscersi negli altri, che gli sono contrapposti nella società civile e la cui attività gli è altrettanto estranea. La perdita dell’essenza sociale, il mancato riconoscimento di sé [7] e degli altri, il contrapporsi agli altri e a sé come a estranei, determinano anzi la perdita della libertà sostanziale. Va così smarrita l’umanità dell’individuo che, proprio nell’attività generica, nel lavoro produttivo è degradato ad animale, dal momento che non è più libero di fronte al prodotto del proprio lavoro, in quanto esso è ridotto a colmare il suo bisogno immediato di sussistenza [8] e in quanto egli non può riconoscervisi, dal momento che gli si contrappone nell’essenza alienata e ostile del capitale [9]. Il modo di produzione capitalistico degradando l’uomo a merce lo riduce, “corrisponendentemente a questa funzione, a un essere tanto spiritualmente che fisicamente disumanizzato. Immoralità, mostruosità, ilotismo degli operai e dei capitalisti” [10]. La piena affermazione dei rapporti di produzioni capitalisti è inversamente proporzionale alla perdita di ogni residuo di eticità “naturale”, spazzata via dal pieno affermarsi del diritto di proprietà che faceva sprofondare in sé ogni valore morale. “Le nazioni cominciarono a vantarsi cinicamente di ogni infamia che fosse un mezzo per accumulare capitale”, anche in aperta violazione non solo dei diritti del cittadino, ma anche di quelli del bourgeois [uomo] e dello stesso diritto formale, come dimostra una delle prime misure prese dal governo della borghesia inglese che giunta al potere strappa alla Spagna il monopolio della tratta di schiavi, con cui copre le sue attività di contrabbando [11].

Note:

[1] Marx, Karl, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, tr. it. di Grillo, E., Nuova Italia, Firenze 1968, p. 279.

[2] Vale la pena riportare per intero questo brillante passaggio dei Lineamenti: “la separazione della proprietà dal lavoro si presenta come legge necessaria di questo scambio tra capitale e lavoro. Il lavoro posto come il non-capitale in quanto tale è: 1) lavoro non-oggettivato, negativamente concepito (…). Come tale esso è non-materia prima, non-strumento di lavoro, non-prodotto grezzo: il lavoro separato da tutti i mezzi e gli oggetti di lavoro, dalla sua intera oggettività. È il lavoro vivo esistente come astrazione da questi momenti della sua effettiva realtà (e altresì come non-valore); questa completa spoliazione, pura esistenza soggettiva, priva di ogni oggettività, del lavoro. È il lavoro come miseria assoluta: la miseria non come privazione, ma come completa esclusione della ricchezza oggettiva. O anche, in quanto è il non-valore esistente, e perciò un valore d’uso puramente oggettivo, che esiste senza mediazione, questa oggettività può essere soltanto un’oggettività non separata dalla persona” ibidem.

[3] Id., Manoscritti economico-filosofici del 1844, tr. it. di Bobbio, Norberto, Einaudi, Torino 1968, p. 69. “Proprio perché l’economia politica non comprende la connessione del movimento storico, si è potuto di nuovo contrapporre, ad esempio, la dottrina della concorrenza a quella del monopolio, la dottrina della libertà di lavoro a quella della corporazione, la dottrina della divisione del possesso fondiario sono state svolte e comprese soltanto come conseguenze casuali, volontarie, violente del monopolio, della corporazione e della proprietà feudale, e non come conseguenze necessarie, inevitabili, naturali” ivi, p. 70.

[4] Id., Il capitale, vol. I, tr. it. di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1989, pp. 338.

[5] Ivi, pp. 338-39.

[6] Id., Manoscritti…, op. cit., p. 75. “Ciò che è animale diventa umano, e ciò che è umano diventa animale. Certamente mangiare, bere e procreare sono anche funzioni schiettamente umane. Ma in quell’astrazione, che le separa dalla restante cerchia dell’attività umana e le fa diventare scopi ultimi ed unici, sono funzioni animali” ibidem.

[7] “Per l’uomo che non è altro che operaio, per l’uomo in quanto operaio, le sue caratteristiche umane esistono soltanto in quanto esistono per il capitale a lui estraneo” ivi, p. 89). “Come egli rende a sé estranea la propria attività, così rende propria all’estraneo l’attività che non gli è propria” ivi, p. 82.

[8] “Così, come l’industria specula sul raffinamento dei bisogni, specula altrettanto sulla loro rozzezza: sulla loro rozzezza in quanto è prodotta ad arte, e di cui pertanto il vero godimento consiste nell’autostordimento, che è una soddisfazione del bisogno soltanto apparente, una forma di civiltà dentro la rozza barbarie del bisogno. Le bettole inglesi sono perciò una rappresentazione simbolica della proprietà privata” ivi, p. 134.

[9] “L’oggetto del lavoro è quindi l’oggettivazione della vita dell’uomo come essere appartenente ad una specie, in quanto egli si raddoppia, non soltanto come nella coscienza, intellettualmente, ma anche attivamente, realmente, e si guarda quindi in un mondo da lui creato” ivi, p. 79.

[10] Ivi, p. 90.

[11] Cfr. id., Il capitale, vol. I, cit., p. 822. “Con lo sviluppo della produzione capitalistica durante il periodo della manifattura la pubblica opinione europea aveva perduto l’ultimo resto di pudore e di coscienza morale. […] Si leggano per esempio gli ingenui annali commerciali del galantuomo A. Anderson. Vi si strombetta come un trionfo della saggezza politica inglese il fatto che l’Inghilterra estorcesse alla Spagna, nella pace di Utrecht, col trattato d’asiento (gli spagnoli chiamavano asiento i permessi per il traffico con le colonie, altrimenti monopolio della madre patria) il privilegio di esercitare da quel momento la tratta dei negri, che fino allora gli inglesi avevano esercitato soltanto fra l’Africa e le Indie Occidentali inglesi, anche fra l’Africa e l’America spagnola. L’Inghilterra ottenne il diritto di provvedere l’America spagnola di 4.800 negri all’anno, fino al 1743. In tal modo veniva anche coperto ufficialmente il contrabbando inglese” ibidem.

29/12/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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