L'8 settembre è una data periodizzante della storia italiana e ne rappresenta uno dei passaggi più discussi e controversi per la rilevanza politicoistituzionale che ha assunto nelle vicende del Paese, anche se a volte questo momento è oggetto di interpretazioni non sempre corrette sul piano storiografico perché inquinate da visioni ideologiche e di parte. Proprio in questi giorni, peraltro, la questione è tornata d’attualità in occasione delle celebrazioni del 73° anniversario dell’inizio della Resistenza con i fatti di Porta S. Paolo a Roma.
La fine del fascismo (25 luglio del 1943) fu il portato della guerra e dei suoi effetti disastrosi sulla vita dell'Italia intera: trovava conferma quanto gli antifascisti avevano preconizzato negli anni precedenti lo scoppio del conflitto, in riferimento agli esiti catastrofici che esso avrebbe assunto. Ma dire che la guerra sia stata un fattore importante per la caduta del fascismo non significa trascurare gli altri aspetti come, purtroppo, da qualche tempo si tende a fare nel dibattito politico e storiografico. Un'altra causa fu rappresentata senz’altro dalla resistenza al fascismo cominciata sin dagli anni Venti e continuata nei lunghi e terribili anni della dittatura, nel corso della quale il prezzo pagato dagli antifascisti fu altissimo. A farne le spese furono soprattutto i comunisti e poi via via tutti gli esponenti dello schieramento antifascista che, o furono uccisi o finirono nelle carceri del feroce regime mussoliniano: non per caso, modello degli altri regimi fascisti - a cominciare da quello nazista - che si imposero in Europa negli anni Trenta.
E a tal proposito è utile sottolineare la politica di unità antifascista adottata da comunisti e socialisti a partire dal 1935, dopo che per anni si erano scontrati all'insegna di uno sterile settarismo; politica di unità antifascista che fu messa in pratica durante la guerra civile spagnola (19361939), che tra l'altro forgiò molti dirigenti della Resistenza italiana.
Ma il sacrifico dei combattenti antifascisti nel periodo del terrore fascista non fu vano: la rete clandestina degli antifascisti, che agiva soprattutto nelle carceri del regime, che funsero da straordinaria scuola di formazione, fece sì che si accentuasse il distacco del popolo italiano dal regime fascista quando esso entrò in guerra decretandone nei fatti la fine. Ancora: l'ultimo anno di vita del regime manifestò lo sfacelo dello Stato e fece capire l'entità del disastro che stava per abbattersi sul nostro Paese. Fu per questo che l'opposizione, soprattutto quella comunista, si mosse in modo più esplicito riuscendo ad organizzare anche gli scioperi: famosi quelli del marzo '43, che provocarono la rabbiosa reazione dei fascisti e dei loro alleati tedeschi, dato che mettevano a nudo la intrinseca debolezza della dittatura.
Lo sbarco in Sicilia degli alleati nella notte tra il 9 e 10 luglio del '43 squadernò la crisi del regime sotto gli occhi del mondo intero: l'Italia era il ventre molle dell'Asse e non era neanche in grado di tenere lontano dal suo territorio il nemico. Mussolini e la sua ventennale dittatura erano giunti all'ultimo atto e di lì a poco (25 luglio) il fascismo sarebbe diventato storia passata.
La fine del fascismo veniva comunicata agli italiani attraverso la radio, prima dal re e poi da Badoglio, che assumeva il governo militare del paese con pieni poteri. Le parole di Badoglio non lasciavano adito a dubbi: "La guerra continua, l'Italia duramente colpita nelle sue province invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa delle sue millenarie tradizioni". In realtà, la monarchia non aveva favorito la caduta di Mussolini per instaurare un sistema democratico; voleva, al contrario, mantenere il potere senza introdurre alcun cambiamento sostanziale. Il re e Badoglio erano molto spaventati della partecipazione popolare alle manifestazioni che avevano salutato la fine di Mussolini e si avventurarono in una sorta di dittatura militare che avrebbe dovuto sostituire quella fascista. L'emblema di ciò è la circolare Roatta del 27 luglio: "Nella situazione attuale qualunque perturbamento dell'ordine pubblico, anche minimo e di qualsiasi tinta, costituirà tradimento e può condurre ove non represso a conseguenze gravissime; ogni movimento dev'essere inesorabilmente stroncato in origine;[…]; le truppe procedano in formazione di combattimento, aprendo il fuoco a distanza, anche con mortai e artiglieria, senza preavvisi di sorta, come se si procedesse contro il nemico…". E infatti dopo questa allucinante circolare fu aperto il fuoco sugli operai delle Reggiane, causando nove morti; poi a Bari: ventitré morti e settanta feriti; e scontri e incidenti si susseguirono in molte parti d'Italia. Tutto ciò era la dimostrazione che non si poteva fare affidamento sulla monarchia, che lasciava il paese senza indicazioni in balìa degli eserciti stranieri. I soldati italiani che si ribellarono ai tedeschi, agirono per proprio conto, non ci furono direttive, nessuna strategia né tattica.
Vediamo allora di fare il punto di quello che era successo: 1) la caduta del fascismo è da attribuire sia ai fattori esterni che a quelli interni; 2) la resistenza al fascismo è cominciata molto prima che il regime cadesse; 3) la monarchia si libera di Mussolini, ma vuole continuare nella politica ultraconservatrice e antipopolare che da sempre la caratterizza; 4) l'esercito italiano è inerte nei confronti degli eserciti stranieri, in particolare terrorizzato dai tedeschi; anzi, viene attivato dai capi per sparare contro le manifestazioni popolari; 5) i militari italiani che reagiscono sono una sparuta minoranza, mentre l'Italia è completamente occupata dai tedeschi e dagli angloamericani; 6) nei quarantacinque giorni c'è una significativa attività antifascista foriera di quell'organizzazione resistenziale che prenderà le mosse a partire dall'8 settembre; 7) la notizia dell'armistizio, firmato a Cassibile dal generale Castellano e dal generale Bedell Smith (per conto di Eisenhower) il 3 settembre, chiude i quarantacinque giorni e dà contemporaneamente il via alla Resistenza, che nell'arco di venti mesi (25 aprile '45) porterà l'Italia alla libertà.
Dunque, tra il 25 luglio e l'8 settembre è diffusa la sensazione del disastro e del caos, uniti al sentimento di indignazione verso il tradimento della monarchia che ingenera lo spirito del "tutti a casa", come sola salvezza dai "fuochi nemici". Ma c'è anche la risposta: certo, non ancora organica e completa, ma significativa su quasi tutto il territorio nazionale, al Nord e al Sud. Ad agosto manifestazioni di protesta a Napoli e nei paesi vicini; proteste anche in Sicilia e in altre regioni.
Poco prima della fine di agosto circa tremila detenuti e confinati comunisti, solo una parte di tutti i detenuti e confinati comunisti, vengono liberati, ma comunque tenuti sotto stretta osservazione, e cominciano ad organizzare la lotta per decretare la fine definitiva del fascismo. Non per caso a Roma, Milano, Torino, in Emilia e in Toscana, nel Centro e al Sud, i Comitati antifascisti di fronte nazionale, costituitisi nel corso dei quarantacinque giorni, stanno acquistando una struttura e una iniziativa politica, capace di proporli come interlocutori del governo Badoglio.
È evidente che si individua nel nazifascismo il nemico principale e che si lavora per una riscossa nazionale affinché alla fine della guerra l'Italia non debba essere umiliata. Gli antifascisti auspicavano, inoltre, l'unità di popolo ed esercito, la necessità di prendere accordi "per fare fronte a tutte le esigenze della lotta". Sappiamo, però, che le alte gerarchie militari erano di diverso avviso e osteggiavano questa alleanza che avrebbe potuto assumere valenza politica dirompente: era in gioco l'assetto futuro dell'Italia dopo vent'anni di regime mussoliniano. E più passano i giorni e le settimane e minori diventano le possibilità di cacciare i tedeschi: più difficile a settembre che a luglio; peraltro i comandi fuggiranno con il re e il problema non sarà neanche posto concretamente, ma di questo parleremo dopo.
Pertanto, essendo stata respinta dal governo la soluzione di appoggiarsi al popolo nella resistenza armata e restando in campo solo la possibilità della contrapposizione delle forze militari, che non furono chiamate a combattere dal re e dai generali, la difesa dell'Italia era già compromessa e la parte settentrionale del paese era di fatto sotto il dominio dell'invasore tedesco, nettamente superiore all'esercito italiano.
Queste linee essenziali per evitare che si possa pensare alla fine del fascismo come ad una fine spontanea, una sorta di implosione, senza valorizzare, invece, l'azione delle forze organizzate che dall'interno lo indebolirono facendolo crollare. Potremmo dire, allora, che l'Italia dopo il 25 luglio '43 era sì "una nazione allo sbando", ma a patto che si dica che i 45 giorni servirono anche per la riorganizzazione delle forze politiche che dall'8 settembre daranno vita alla Resistenza armata contro i nazifascisti. Del resto, lo squallore dei comandi militari italiani e della monarchia è stato ricostruito con dovizia di particolari da E. Aga Rossi[1], che usa parole durissime verso chi si è rifiutato di combattere lasciando campo libero ai tedeschi e provocando una vera catastrofe. "Non vi fu mai", afferma Aga Rossi nel suo libro, "l'intenzione di passare a una attiva azione contro i tedeschi, nemmeno dove le forze militari lo avrebbero permesso.[…]. Il risultato fu comunque quello di portare alla disgregazione delle forze armate italiane, all'internamento di 600.000 soldati e ufficiali e all'occupazione tedesca di quasi tutto il territorio italiano."[2] La rinuncia a combattere i tedeschi e la viltà mostrata con la fuga dagli alti comandi e dalla monarchia, preoccupati solo della loro incolumità personale, rappresentano una delle pagine più tristi e umilianti della storia d'Italia. La mancata difesa di Roma fu un atto ignobile, data l'indubbia preponderanza delle forze italiane su quelle tedesche.
Note
[1] Cfr. E. Aga Rossi, "Una nazione allo sbando. L'armistizio italiano del settembre 1943", Il Mulino, Bologna, 1993
[2] op. cit. pp.123-124