Lo studio della figura di Davide Lazzaretti da parte di Gramsci nei quaderni è finalizzato ad analizzare alcune difficoltà, nonché alcune caratteristiche, del movimento generato dalle classi subalterne nel momento in cui ricercano una propria autonomia politica.
di Lelio La Porta
Avevo assistito, nel maggio scorso, ad uno spettacolo di Simone Cristicchi dal titolo “Il secondo figlio di Dio” dedicato alla figura di Davide Lazzaretti. Aveva giocato nella scelta la curiosità di verificare se Cristicchi facesse riferimento in qualche modo alle note dedicate da Gramsci alla figura dell’amiatino. Poi, l’estate di letture mi propose, più per caso che per mia deliberata volontà, una copia dell’organo dell’attuale Presidente del Consiglio, ossia “l’Unità” fondata dallo stesso Gramsci, come ancora recita la testatina del quotidiano in un atteggiamento che, personalmente, reputo offensivo sia nei confronti di Gramsci sia nei confronti di quante/i ebbero quella testata come punto di riferimento nel corso di lunghi e rimpianti (parlo per me) anni di militanza politica (si acquistava comunque “l’Unità” anche se si militava in Lotta Continua o in un gruppo qualsiasi della sinistra extraparlamentare oppure se si era fortemente critiche o critici rispetto alla politica del Pci). In quell’intervista Cristicchi parlava del suo spettacolo e ancora una volta non faceva parola alcuna del fatto che Gramsci avesse scritto di Lazzaretti nei Quaderni del carcere (sia ben chiaro, nessuno è obbligato a parlare di Gramsci sempre e comunque ma ci si sarebbe attesi almeno un cenno en passant, vista la sede dell’intervista; il che, scritto di sfuggita, conferma che quel quotidiano nulla spartisce neanche con la memoria del suo fondatore).
Gramsci dedica a Lazzaretti alcune note dei Quaderni, l’ultima delle quali è proposta in questa sede nella sua interezza [1] (si tratta della nota 1 del Quaderno 25 e si trova alle pagine 2279-2283 dell’edizione critica dei Quaderni del carcere curata da Gerratana e pubblicata da Einaudi nel 1975, e utilizzata in questa occasione): è una seconda stesura di note precedenti che si trovano rispettivamente nel Quaderno 3 (nota 12, pp. 297-299) e nel Quaderno 9 (nota 81, p. 1146- 1147) [2].
L’interesse di Gramsci per Lazzaretti nasce dalla domanda se sia possibile scrivere una storia dei gruppi subalterni. Gramsci risponde negativamente allorché si basa sulla considerazione che la storia, di solito, è scritta dai vincitori. Eppure la vicenda di Lazzaretti indica, secondo il comunista sardo, uno di quegli avvenimenti che possono fungere da esempio di un’iniziativa autonoma dei subalterni, quindi offrire una base concreta per scrivere una loro storia. La vicenda di Lazzaretti e della sua comunità (formatasi sul monte Amiata nella Toscana grossetana), culminata con l’uccisione del leader nel 1878 (da due anni il Regno d’Italia era governato dalla Sinistra di Depretis), è, secondo Gramsci, emblematica della marginalizzazione cui sono costretti i gruppi subalterni quando assumono un’iniziativa autonoma di contenuto storico e politico (nel caso specifico, la rivendicazione di una Repubblica seppure, aggiunge Gramsci, «bizzarramente mescolata all’elemento religioso e profetico»). In tal modo ogni iniziativa dei subalterni diventa qualcosa di periferico, di atipico e di squilibrato, mostrando il vero problema, ossia l’incapacità (almeno iniziale) dei subalterni di farsi ascoltare, di diventare argomento di riflessione e di discussione anche nella cosiddetta opinione pubblica.
“Davide Lazzaretti. In un articolo pubblicato dalla «Fiera Letteraria» del 26 agosto 1928, Domenico Bulferetti ricorda alcuni elementi della vita e della formazione culturale di Davide Lazzaretti. Bibliografia: Andrea Verga, Davide Lazzaretti e la pazzia sensoria (Milano, Rechiedei, 1880); Cesare Lombroso, Pazzi e anormali (questo era il costume culturale del tempo: invece di studiare le origini di un avvenimento collettivo, e le ragioni del suo diffondersi, del suo essere collettivo, si isolava il protagonista e ci si limitava a farne la biografia patologica, troppo spesso prendendo le mosse da motivi non accertati o interpretabili in modo diverso: per una élite sociale, gli elementi dei gruppi subalterni hanno sempre alcunché di barbarico e di patologico).
Una Storia di David Lazzaretti, Profeta di Arcidosso fu pubblicata a Siena nel 1905 da uno dei più distinti discepoli del Lazzaretti, l’ex-frate filippino Filippo Imperiuzzi: altre scritture apologetiche esistono, ma questa è la più notevole, secondo il Bulferetti. Ma l’opera «fondamentale» sul Lazzaretti è quella di Giacomo Barzellotti, che nella 1a e2a edizione (presso Zanichelli) era intitolata Davide Lazzaretti e che fu ampliata e in parte modificata nelle successive edizioni (Treves) col titolo Monte Amiata e il suo Profeta.
Il Bulferetti crede che il Barzellotti abbia sostenuto che le cause del movimento lazzarettista sono «tutte particolari e dovute solo allo stato d’animo e di coltura di quella gente là» solo «un po’ per naturale amore ai bei luoghi nativi (!) e un po’ per suggestione delle teorie di Ippolito Taine». È più ovvio pensare, invece, che il libro del Barzellotti, che ha servito a formare l’opinione pubblica italiana sul Lazzaretti, sia niente altro che una manifestazione di patriottismo letterario (– per amor di patria! – come si dice) che portava a cercar di nascondere le cause di malessere generale che esistevano in Italia dopo il 70, dando, dei singoli episodi di esplosione di tale malessere, spiegazioni restrittive, individuali, folcloristiche, patologiche ecc. La stessa cosa è avvenuta più in grande per il «brigantaggio» meridionale e delle isole.
Gli uomini politici non si sono occupati del fatto che l’uccisione del Lazzaretti è stata di una crudeltà feroce e freddamente premeditata (in realtà il Lazzaretti fu fucilato e non ucciso in conflitto: sarebbe interessante conoscere le istruzioni riservate mandate dal governo alle autorità): neanche i repubblicani se ne sono occupati (ricercare e verificare) nonostante che il Lazzaretti sia morto inneggiando alla repubblica (il carattere tendenzialmente repubblicano del movimento, che era tale da poter diffondersi tra i contadini, deve aver specialmente contribuito a determinare la volontà del governo di sterminarne il protagonista), forse per la ragione che nel movimento la tendenzialità repubblicana era bizzarramente mescolata all’elemento religioso e profetico.
Ma appunto questo miscuglio rappresenta la caratteristica principale dell’avvenimento perché dimostra la sua popolarità e spontaneità. È da ritenere inoltre che il movimento lazzarettista sia stato legato al non-expedit[3] del Vaticano, e abbia mostrato al governo quale tendenza sovversiva-popolare- elementare poteva nascere tra i contadini in seguito all’astensionismo politico clericale e al fatto che le masse rurali, in assenza di partiti regolari, si cercavano dirigenti locali che emergevano dalla massa stessa, mescolando la religione e il fanatismo all’insieme di rivendicazioni che in forma elementare fermentavano nelle campagne.
Altro elemento politico da tener presente è questo: al governo erano andate da due anni le sinistre, il cui avvento aveva suscitato nel popolo un ribollimento di speranze e di aspettazioni che dovevano essere deluse. Il fatto che al governo fossero le sinistre può spiegare anche la tiepidezza nel sostenere una lotta per l’uccisione delittuosa di un uomo che poteva essere presentato come un codino, papalino, clericale ecc. Nota il Bulferetti che il Barzellotti non fece ricerche sulla formazione della cultura del Lazzaretti, alla quale pure si riferisce. Altrimenti avrebbe visto che anche a Monte Amiata arrivavano allora in gran copia (!? da dove lo sa il Bulferetti? D’altronde per chi conosce la vita dei contadini, specialmente di una volta, la «gran copia» non è necessaria, per spiegare l’estensione e la profondità di un movimento) foglietti, opuscoli e libri popolari stampati a Milano.
Il Lazzaretti ne era lettore insaziabile e per il suo mestiere di barrocciaio aveva agio di procurarsene. Davide era nato in Arcidosso il 6 novembre 1834 e aveva esercitato il mestiere paterno fino al 1868, quando, da bestemmiatore si convertì e si ritirò a far penitenza in una grotta della Sabina dove «vide» l’ombra di un guerriero che gli «rivelò» di essere il capostipite della sua famiglia, Manfredo Pallavicino, figlio illegittimo di un re di Francia ecc. Uno studioso danese, il dottor Emilio Rasmussen, trovò che Manfredo Pallavicino è il protagonista di un romanzo storico di Giuseppe Rovani, intitolato appunto Manfredo Pallavicino.
L’intreccio e le avventure del romanzo sono passati tali e quali nella «rivelazione» della grotta e da questa rivelazione si inizia la propaganda religiosa del Lazzaretti. Il Barzellotti aveva creduto invece che il Lazzaretti fosse stato influenzato dalle leggende del Trecento (le avventure del re Giannino, senese) e la scoperta del Rasmussen lo indusse solo a introdurre nell’ultima edizione del suo libro un vago accenno alle letture del Lazzaretti, senza però accennare al Rasmussen e lasciando intatta la parte del libro dedicata a re Giannino. Tuttavia il Barzellotti studia il successivo svolgimento dello spirito del Lazzaretti, i suoi viaggi in Francia, e l’influsso che ebbe su di lui il prete milanese Onorio Taramelli, «uomo di fine ingegno e larga coltura», che per aver scritto contro la monarchia era stato arrestato a Milano e poi era fuggito in Francia. Dal Taramelli Davide ebbe l’impulso repubblicano. La bandiera di Davide era rossa con la scritta: «La repubblica e il regno di Dio». Nella processione del 18 agosto 1878 in cui Davide fu ucciso, egli domandò ai suoi fedeli se volevano la repubblica. Al «sì» fragoroso egli rispose: «la repubblica incomincia da oggi in poi nel mondo; ma non sarà quella del ’48: sarà il regno di Dio, la legge del Diritto succeduta a quella di Grazia».
Nella risposta di David ci sono alcuni elementi interessanti, che devono essere collegati alle sue reminiscenze delle parole del Taramelli: il voler distinguersi dal ’48 che in Toscana non aveva lasciato buon ricordo tra i contadini, la distinzione tra Diritto e Grazia.
Il dramma del Lazzaretti deve essere riannodato alle «imprese» delle così dette bande di Benevento, che sono quasi simultanee: i preti e i contadini coinvolti nel processo di Malatesta pensavano in modo molto analogo a quello dei Lazzarettisti, come risulta dai resoconti giudiziari (cfr per es. il libro di Nitti sul Socialismo Cattolico dove giustamente si accenna alle bande di Benevento: vedere se accenni al Lazzaretti). In ogni modo, il dramma del Lazzaretti è stato finora veduto solo dal punto di vista dell’impressionismo letterario, mentre meriterebbe un’analisi politico-storica.
Giuseppe Fatini, nell’«Illustrazione Toscana» (cfr il «Marzocco» del 31 gennaio 1932) richiama l’attenzione sulle attuali sopravvivenze del lazzarettismo. Si credeva che dopo l’esecuzione di Davide da parte dei carabinieri, ogni traccia di lazzarettismo si fosse per sempre dispersa anche nelle pendici dell’Amiata grossetana. Invece i lazzarettisti o cristiani giurisdavidici, come amano chiamarsi, continuano a vivere: raccolti per lo più nel villaggio arcidossino di Zancona, con qualche proselite sparso nelle borgate adiacenti, trassero dalla guerra mondiale nuovo alimento per stringersi sempre più fra loro nella memoria del Lazzaretti, che, secondo i seguaci, aveva tutto previsto, dalla guerra mondiale a Caporetto, dalla vittoria del popolo latino alla nascita della Società delle Nazioni. Di quando in quando, quei fedeli si fanno vivi fuor del loro piccolo cerchio con opuscoli di propaganda, indirizzandoli ai «fratelli del popolo latino», e in essi raccolgono qualcuno dei tanti scritti, anche poetici, lasciati inediti dal Maestro e che i seguaci custodiscono gelosamente.
Ma che cosa vogliono i cristiani giurisdavidici? A chi non è ancora tocco dalla grazia di poter penetrare nel segreto del linguaggio dei Santi non è facile comprendere la sostanza della loro dottrina. La quale è un miscuglio di dottrine religiose d’altri tempi con una buona dose di massime socialistoidi e con accenni generici alla redenzione morale dell’uomo, redenzione che non potrà attuarsi se non col pieno rinnovamento dello spirito e della gerarchia della Chiesa Cattolica. L’articolo XXIV che chiude il «Simbolo dello Spirito Santo», costituente come il «Credo» dei lazzarettisti, dichiara che «il nostro istitutore David Lazzaretti, l’unto del Signore, giudicato e condannato dalla Curia Romana, è realmente il Cristo Duce e Giudice nella vera e viva figura della seconda venuta di nostro Signore Gesù Cristo sul mondo, come figlio dell’uomo venuto a portare compimento alla Redenzione copiosa su tutto il genere umano in virtù della terza legge divina del Diritto e Riforma generale dello Spirito Santo, la quale deve riunire tutti gli uomini alla fede di Cristo in seno alla Cattolica Chiesa in un sol punto e in una sola legge in conferma delle divine promesse». Parve per un momento, nel dopoguerra, che i lazzarettisti si incanalassero «per una via pericolosa», ma seppero ritrarsene a tempo e dettero piena adesione ai vincitori. Non certo per le sue divergenze con la Chiesa cattolica – «la setta dell’Idolatria papale» – ma per la tenacia con cui essi difendono il Maestro e la Riforma, il Fatini ritiene degno di attenzione e di studio il fenomeno religioso amiatino”.
Note:
[1] Con interezza si intende il fatto che nessun taglio è stato effettuato rispetto al testo originale per cui compaiono tutti i riferimenti che Gramsci fa alle letture da lui svolte in carcere.
[2] In altro momento potremo scrivere anche sul modo di lavorare di Gramsci in carcere.
[3] E’ la formula adoperata dalla cancelleria vaticana per esprimere il divieto fatto ai cattolici di partecipare alla vita pubblica italiana negli anni immediatamente successivi all’Unità nazionale. Il divieto, sanzionato nel 1874, fu parzialmente abrogato nel 1905.