Segue da: “Il giovane Lukács, il metodo storico-sociologico e la tragedia”
L’immanenza nel dramma della Weltanschauung è indispensabile, a parere del giovane György Lukács, ma tale presenza della concezione del mondo deve essere il più possibile discreta. Nel dare carattere unitario alla struttura formale del dramma, la visione del mondo del drammaturgo deve risolversi compiutamente nei ritmi dell’azione drammatica scandendone i toni e gli accenti. L’effetto massa desiderato può realizzarsi soltanto se il fruitore ne ha una percezione inconsapevole e se il pubblico, colpito nel sentimento dall’impressione immediata, non si pone il problema del suo “perché”. Ciò implica che tra la visione del mondo del pubblico e quella dell’autore esista un’affinità di fondo, seppure inconscia e che l’esperienza di vita comune “trovi adeguata espressione solo in un dramma, solo nel dramma cioè possa diventare esperienza esprimibile: esperienza tragica”. [1]
Il conflitto tragico, prima di essere oggetto di rappresentazione drammatica, è anzitutto un connotato oggettivo della realtà di un’intera epoca storica. Il fondamento specifico del dramma è, appunto, la drammaticità dell’epoca della quale esso è espressione e, propriamente, dell’epoca della decadenza di una classe. Nel periodo di decadenza, la vecchia cultura entra in crisi: princìpi e valori vitali fin lì accettati crollano in un vortice distruttivo, nel quale la personalità etica non trova più soddisfazione. “È allora – il che necessariamente coincide – che in mezzo agli uomini e alle vecchie istituzioni insorgono nuovi sentimenti, per cui o l’anima di questi vecchi uomini viene dilacerata dalla dissonanza irriducibile di vecchio e nuovo o i nuovi sentimenti vengono distrutti dal peso e dalla forza ancora vitale delle vecchie istituzioni e dei vecchi uomini. Sono tempi in cui, per il fatto stesso di problematizzarsi la vita non esiste più come valore centrale dell’uomo etico. E quando questi tempi entrano in contrasto coi valori fondamentali dell’uomo, viene fissata la validità da riconoscere a chi è già stato condannato a morte o lo sarà: nasce l’ideologia della morte bella” (56-57).
L’inizio dell’età moderna, caratterizzata dallo scontro tra feudalità e monarchia con sullo sfondo la borghesia in ascesa, è per Lukács l’epoca paradigmatica per la nascita del dramma moderno. E’ l’età di Shakespeare, di Calderon, di Lope de Vega, di Corneille e di Racine. Analogamente la tragedia greca “cade nel momento stesso in cui l’antica Atene si arresta pericolosamente sulla cima di un’altura nel mezzo di un luminoso processo di declino” (62). Ma che ne è del dramma nella società compiutamente borghese? È quanto Lukács si propone d’indagare nel secondo capitolo de Il dramma moderno I.
In primo luogo il dramma moderno, che si identifica in toto col dramma borghese, nasce da istanze razionalistiche, in ciò molto lontano dal dramma precedente sorto da una coscienza con profonde radici religiose, per cui in esso viene a mancare la componente della ritualità e si accentua il distacco dalla massa. La disomogeneità del pubblico provoca effetti di elitarismo aristocratico nella massa dei destinatari della comunicazione poetica e innesca la tendenza alla trasformazione del teatro tradizionale in teatro da camera e da lettura.
Il carattere razionalistico del dramma borghese è, naturalmente, il riflesso del carattere intellettualistico che pervade ogni aspetto della vita; su questa base, l’immediata recezione sensibile con il corollario della simbolizzazione risulta impossibile, mentre al suo posto si afferma l’aspetto intellettuale e problematico della recezione. Con un pubblico profondamente modificato – non più entità collettiva, ma somma di individui isolati – l’effetto diventa, a sua volta, individuale con un’adesione puramente “intimistica e sentimentale”. [2] “L’intellettualismo, infatti, inteso come forma dei processi spirituali, cela inevitabilmente in sé la tendenza fortissima a disgregare la collettività, a isolare gli uomini evidenziandone l’inconfrontabilità” (80).
Il dramma moderno deriva le proprie caratteristiche dall’esperienza storica che ha segnato l’avvento della borghesia come classe dominante. Al dominio politico non ha corrisposto la costruzione di una cultura organica, capace di dare un senso agli aspetti caotici della vita. Sull’impossibilità della costruzione di tale cultura ha pesato l’autonomizzarsi dei prodotti sociali dell’uomo e il loro stratificarsi in potenze estranee, astratte e incomprensibili, che si oppongono con la loro cieca e arbitraria violenza alle aspirazioni etiche dell’uomo. In perfetta analogia col mondo della vita, lo stesso accade nella creazione artistica o teorica: la vita dell’opera si stacca dal suo inventore, acquista una propria individualità e una finalità opposta ai propositi dell’artista e conduce un’esistenza a sé con effetti futuri, che non possono essere assolutamente previsti [3].
Il rovesciamento mezzo-fine, l’opposizione soggetto-oggetto sono già visibili nella grandiosa esperienza della Rivoluzione francese: “Quest’esperienza è il simbolo della inconciliabile antiteticità di due astratti: da un lato la lotta sostenuta dal pensiero astratto che aspira a brutalizzare i fatti concreti, irrazionali, non inseribili in alcun sistema; dall’altro il ruolo dei processi astratti nella vita i quali si rivelano impedimenti alle aspirazioni (considerate dal suo punto di vista) concrete del singolo” (90).
La coscienza storica dell’uomo moderno prende avvio da questa esperienza: la storia, in quanto forma di vita, “sta a significare che qualsiasi cosa, dal momento che esiste, vive una propria vita individuale autonoma rispetto al suo creatore e alla sua finalità, indipendente dalla sua eventuale dannosità o utilità, bontà o malvagità” [ivi: 89] .
L’individuo moderno diventa così il punto d’incrocio di grandi forze che lo trascendono, nelle quali la sua stessa azione confluisce e si annulla nella sua originaria intenzionalità. L’esaltazione dell’individualismo propria della cultura borghese, volta a legittimare il sistema economico basato sulla concorrenza, tradisce il proprio carattere ideologico nel momento in cui l’individuo appare in balia del meccanismo sociale astratto, del quale il singolo incarna una particolare funzione. Lungi dal valorizzare le qualità personali, il sistema imperniato sulla divisione del lavoro promuove l’omologazione dei soggetti sociali e rende vano l’anelito alla realizzazione etica della personalità. Sul piano artistico, al dramma delle grandi individualità subentra il dramma dell’individualismo astratto e problematico. “Da un lato l’istanza di valorizzare la personalità e di mantenerla integra è assurta a consapevolezza fino a rappresentare un problema vitale, mentre il bisogno di affermarla, sentito nella sua tensione nostalgica, è diventato più intenso e forte; d’altro lato però hanno acquistato sempre maggiore forza proprio quelle circostanze esteriori che precludono per principio la realizzazione di sé” (125-26).
All’apparente apertura dell’individuo emancipatosi dai legami personali si contrappone l’impedimento di legami sempre più astratti e incontrollabili, determinatisi storicamente. Ciò provoca l’isolamento psicologico dei personaggi del dramma, i quali, paradossalmente – in una situazione di relativismo etico –, sono portati al riconoscimento delle ragioni dell’avversario. Si assiste, così, a una razionalizzazione del conflitto con ricadute negative sul piano dell’effetto drammatico, laddove nel teatro elisabettiano qualsiasi comprensione dell’antagonista è esclusa a priori.
L’insieme di questi fattori storico-sociologici, individuati da Lukács attraverso un’analisi fredda e priva di animosità, escludono il dramma come genere letterario rappresentativo della società borghese; con ciò viene espressa la condanna senza appello della decadenza di una classe che, trascinando nella degradazione l’intero genere umano, non riesce sul piano della cultura e della forma artistica a esprimere la situazione storica con la dignità della tragedia. A questo riguardo così si esprime Ferenc Fehér: “ciò che pareva inizialmente una teoria della forma libera da valori si rivolge adesso accusatoriamente contro il caput mortuum delle condizioni sociologiche complessive; le analisi storiche ‘danno’ come risultato finale i fondamenti costitutivi della forma, e questi fondamenti apparendo ormai per così dire a priori, escludendo qualsiasi altra possibilità morfologica, accusano l’‘empiria storica’: la dichiarano incapace di realizzare integralmente tale forma”. [3]
Note:
[1] G. Lukács, Il dramma moderno I [1908], trad. it. di L. Coeta, SugarCo Edizioni, Milano 1967, p. 55. D’ora in avanti quest’opera sarà citata in parentesi tonde all’interno dell’articolo rinviando al numero della pagina.
[2] Riecheggia in questa impostazione di Lukács la celebre distinzione di Friedrich Schiller fra la poesia ingenua della società antica e la poesia sentimentale moderna.
[3] F. Fehér, Ferenc, Filosofia della storia del dramma, in AA.VV., La scuola di Budapest: sul giovane Lukács, pp. 247-293, traduz. di E. Franchetti, Firenze, La Nuova Italia 1978, p. 268.