Segue da “Lenin e la dialettica teoria-prassi” pubblicato sul numero 303 de “La città futura”.
Dal punto di vista di Lenin il sapere del proletariato per essere rivoluzionario deve necessariamente superare una concezione meramente riflessiva, empirica e sociologica. Per questo ha bisogno – al di là del sindacato mosso da un sapere più empirico, volto al miglioramento delle condizioni di vita immediate del proletariato – di un partito, vero e proprio intellettuale collettivo, in grado di avere una visione d’insieme della propria epoca e, dunque, di indicare lo scopo finale alle lotte meramente rivendicative: la necessità di superarsi nella lotta per il potere. Il che non comporta ovviamente l’abbandono del piano di lotta empirico-sindacale, ma la necessità di dotarlo di una strategia complessiva, sulla base della quale declinare di volta in volta la tattica adeguata.
Al contrario, Lenin coglie bene tanto l’unità e la differenza di teoria e prassi, ovvero la duttilità di quest’ultima che riesce ad anticipare la prima in frangenti di importanti rivolgimenti storici, quanto la luce, il fine che il pensiero dà all’agire, senza il quale esso si riduce a una cieca tattica empirica. Ritorna, ancora, l’esigenza del partito come luogo di elaborazione collettiva di una tattica duttile in quanto di volta in volta capace di adeguarsi al piano storico-fenomenico, ma al tempo stesso sottoposta a una teoria che miri teleologicamente alla realizzazione del concetto, alla razionalizzazione del reale: la strategia. Il movimentismo è figlio dello stesso atteggiamento empirico riflessivo di entrambi gli opportunismi di destra e di sinistra. Spontaneismo e riformismo finiscono entrambi per adeguarsi all’esistente, senza cogliervi ciò che vi è di reale, ovvero quelle linee di fondo, quelle contraddizioni che risolte dall’agire politico tolgono l’esistente razionalizzandolo.
Certo Lenin non sottovaluta affatto il ruolo delle masse, le vere protagoniste tanto del processo rivoluzionario quanto della costruzione del socialismo e, tuttavia, per adempiere a tal compito è altrettanto importante il ruolo d’avanguardia svolto dall’intellettuale collettivo del partito, sia dal punto di vista organizzativo del movimento, sia per ciò che concerne l’elevamento della coscienza dei lavoratori da classe di sfruttati a classe generale.
Da ciò emerge la differenza sostanziale fra la teoria di Lenin e i residui di pensiero radicale presenti nel comunismo di sinistra, in cui domina ancora una concezione dualistica che separa la necessità storica del modo di produzione capitalistico dalla volontà soggettiva e rivoluzionaria di contrapporvisi. La soggettività rivoluzionaria fronteggia un’oggettività a essa essenzialmente estranea che tende di per sé a decadere nella barbarie, se il soggetto non è in grado di ricondurla al suo finalismo razionale. In tal modo, questa teoria non è in grado di far leva sulle contraddizioni presenti nella società, su quelle linee di fondo razionali che l’azione dell’uomo ha inserito nell’apparente oggettività e reificazione dei rapporti sociali esistenti. Inoltre tale conflitto tipico dell’idealismo soggettivo fra dover essere del soggetto e essere del mondo implica una soggettività incapace di riconoscersi in ogni forma di organizzazione, in ogni istituzione. Essa deve costantemente negare un non-io che gli si erge di fronte come un estraneo per riconoscersi. Da qui la costante critica condotta da Rosa Luxemburg alla rigidità del partito bolscevico e al peso troppo forte delle istituzioni del nuovo Stato socialista, ostacoli alla spontanea espansione della soggettività creatrice. In tale posizione emergono quei residui libertari, anarchici, radicali piccolo-borghesi che limitano la riflessione e l’azione, per altri versi geniale, della rivoluzionaria polacca.
La differenza sostanziale fra la concezione di Lenin e quella di Rosa Luxemburg è nella fiducia che quest’ultima ripone nelle capacità delle masse di rendersi prontamente in grado di ergersi a classi dirigenti del nuovo Stato. Al di là della differenza fra lo spontaneismo dei comunisti di sinistra e la necessità di addestrarsi alla dura scuola organizzativa e formativa del partito leninista, vi è anche la questione della nuova cultura proletaria di cui Lenin avverte maggiormente l’esigenza. Per Rosa Luxemburg è già nella lotta di classe che le masse prendendo progressivamente coscienza di sé, sono in grado di svolgere compiti direttivi. Per Lenin, al contrario, non solo il processo di presa di coscienza e la formazione di una nuova cultura avviene solo mediante l’effettiva presa del potere, ma la presa di coscienza e la nuova cultura implicano necessariamente l’autosuperamento del proletariato in quanto tale, come classe subalterna e particolare e la sua capacità di assunzione dei compiti di classe universale, che può avvenire solo all’interno e nel corso di sviluppo della dittatura del proletariato.
Resta, dunque, il problema di chi esercita realmente il potere, il ruolo guida, se le masse anche una volta preso il potere hanno bisogno di tempi più o meno lunghi per togliersi dialetticamente in quanto sfruttati e subalterni per divenire classe dirigente. In questo caso non basta appellarsi alla parola magica del soviet, dei consigli proletari per risolvere il problema. Anche lo stesso Lenin oscilla nella definizione di questo strumento, comunque decisivo per la direzione politica del nuovo Stato dei lavoratori. Ovvero in teoria il soviet dovrebbe rappresentare il vero e proprio organo dirigente, mediante cui le masse esercitano congiuntamente potere esecutivo e legislativo. Tuttavia, quantomeno in Russia, esse si dimostrano totalmente impreparate, tanto che ripongono la loro fiducia nei Socialisti Rivoluzionari, che hanno una concezione piccolo-borghese, dunque ostile alla costruzione del nuovo Stato. In tal caso il pensiero di Lenin è subito pronto a correggersi e adeguarsi alla nuova realtà, non sfuggendo anche in questo delicato frangente alle critiche tanto dei socialdemocratici, quanto degli opportunisti. I risultati delle elezioni per l’assemblea costituente non sono riconosciuti dalla dirigenza bolscevica e i soviet vengono declassati, anche teoricamente, a momento intermedio fra l’avanguardia del partito e la massa ancora impreparata ai compiti dirigenziali propri della dittatura del proletariato.
La prematura morte di Lenin ci impedisce di sapere se egli vedesse in tale declassamento una fase transitoria più o meno breve. Al di là della sua morte, l’arretramento della classe operaia dei paesi occidentali, incapace di strappare il potere alle proprie borghesie nazionali rese deboli dal conflitto interimperialistico, risolverà il problema nella maniera peggiore. La difficoltà della contingenza storica avrà la meglio sulla libertà e la dirigenza sovietica, sotto la guida di Stalin, finirà sempre più per fare di necessità virtù adeguando la razionalità del progetto internazionalista alle tragiche condizioni dell’esistente. Delle varie concezioni fra cui oscillava la riflessione di Lenin sarà fissata la meno democratica, ovvero quella che vedeva nei soviet una mera funzione di sondaggio del livello di coscienza raggiunto dalle masse da parte di un partito che tiene ben strette nelle proprie mani le leve del potere.
La teoria di Lenin è, dunque, volta a contrastare tanto il soggettivismo del pensiero politico radicale e anarchico, in quanto richiama costantemente la necessità di un progetto politico che muova dallo sviluppo delle contraddizioni già presenti nel reale, quanto con l’oggettivismo deterministico dei riformisti, che da anime belle rifiutano la responsabilità storica dell’agire creativo, la scommessa della rivoluzione, contando su un trascendente spirito del mondo. Entrambe queste posizioni convergono in un pensiero riflessivo, dualistico, incapace di ergersi al di sopra dell’opposizione fra soggetto e oggetto, non in grado di superare veramente l’empirismo. Lo spontaneismo dell’impostazione anarcoide ha la stessa fideistica fiducia nella soggettività delle masse, che il determinismo riformista affida al corso del mondo. Entrambi seguono, di conseguenza, una tattica resa empirica dall’assenza di strategie: il sindacalismo rivoluzionario in un caso, il riformismo massimalistico nell’altro. Ambedue tati tendenze sono, infatti, prive del fine teleologico, ovvero di una teoria rivoluzionaria adeguata all’azione, alla praxis.
In entrambi i casi opportunismo di sinistra e riformismo di destra sono colpevoli di un dogmatismo che impedisce l’agire rivoluzionario, in quanto lo vorrebbe immediatamente conseguente con delle riflessioni teoriche fatte muovendo da eventi passati. Come i riformisti non colgono le novità introdotte dalla prima guerra imperialistica mondiale, il loro aprire la strada a un processo rivoluzionario socialista anche in paesi dalle condizioni arretrate come l’Impero zarista, così gli estremisti tendono a svilire la necessaria politica delle alleanze fra le avanguardie, i paesi socialisti e le masse sfruttate del terzo mondo, in quanto queste ultime non si sarebbero ancora sviluppate storicamente nel proletariato moderno, urbano.