Segue da “Il Lenin di Garroni” pubblicato sul numero 296 de “La Città Futura”.
Il salto qualitativo, la libertà che si impone alla necessità – quali caratteristiche proprie della rottura rivoluzionaria cara a Lenin – sono condannati dalla tradizione riformista, in quanto colpevoli di aver preteso di violare la normale evoluzione del processo storico, di aver sfidato in modo avventuristico i principi del marxismo imbalsamati proprio dai principali dirigenti della Seconda Internazionale. Il che non vuol dire che la teoria e la pratica di Lenin si limitino altrettanto poco dialetticamente a contrapporre la libertà alla necessità, il soggettivismo all’oggettivismo. Nota è la dura polemica di Lenin con l’estremismo in tutte le sue differenti accezioni, proprio per il suo atteggiamento specularmente opposto a quello dei riformisti e, dunque, altrettanto astratto, che pretende di forzare sempre e comunque il corso del mondo, di imporgli in modo titanico il proprio soggettivistico modello, senza studiare rigorosamente il corso profondo degli eventi, senza individuare se le condizioni siano già mature nel corso del mondo per consentire la rottura violenta dell’ordine costituito e su quali contraddizioni reali occorra agire per consentire il sorgere e l’affermarsi del nuovo mondo.
L’attenzione a rivedere costantemente la teoria, tenendo conto dei mutamenti continui che essa produce mediante la prassi nel mondo storico, non vuol dire certo che la riflessione di Lenin sia mera giustificazione dell’agire storico-politico, né tanto meno che le soluzioni da lui indicate abbiano validità unicamente per il contesto determinato in cui furono formulate. Come è errato non cercare di concretizzare, problematizzandolo, il pensiero di Lenin alla luce dei determinati bisogni della propria epoca, come è da pavide anime belle sottrarsi alla scommessa dell’azione per attenersi ai princìpi del marxismo-leninismo, così è da condannare ogni tentativo di limitare la portata del contributo teorico di Lenin alla sua epoca storica, vizio comune a tutti i riformisti che non hanno il coraggio di rompere apertamente con il suo pensiero. Una cosa è infatti calibrare e se necessario innovare la teoria dei classici del marxismo sulla base delle sfide della prassi storica, altro è considerarla un interessante reperto archeologico o un mero documento storico.
Del resto, l’importanza che riveste la teoria nell’elaborazione politica di Lenin appare evidente in tutta la polemica condotta nel Che fare? contro l’estremismo spontaneista di sinistra, che talvolta nel suo slancio libertario assume posizioni più prossime al radicalismo piccolo-borghese e anarchico piuttosto che al socialismo scientifico. Per Lenin, come del resto per Marx e Engels, il proletariato è sì classe rivoluzionaria, ma non è dotato naturalmente dell’auto-coscienza necessaria per poter svolgere e portare a termine tale funzione. Le condizioni di lavoro e di vita alle quali il proletariato è costretto dal modo di produzione capitalistico – che tendono a sottrargli ogni momento necessario alla riflessione e alla presa di coscienza – e la pervasività e sofisticatezza degli apparati ideologici delle classi dominanti, fanno sì che il lavoratore lasciato a se stesso possa sviluppare al massimo una coscienza piccolo borghese, ossia propria di chi sogna un capitalismo dal volto umano, liberato dalle sue necessarie contraddizioni.
L’importanza assegnata da Lenin al momento della formazione teorica non è mai considerato separato dall’altrettanto necessario momento della formazione pratico-politica. Solo mediante l’esperienza, le lotte per la costruzione del socialismo e la presa del potere il proletariato potrà togliersi come classe, superando definitivamente la sua coscienza piccolo-borghese. Del resto il processo di formazione per il lavoratore non è un percorso individuale, ma avviene sempre nell’intellettuale collettivo del partito, che svolge una funzione suppletiva nei confronti di uno Stato asservito agli interessi della borghesia.
La formazione teorica, nel fuoco della prassi politica, deve condurre il lavoratore a uscire dal proprio ambito di bisogni determinati, che lo condurrebbe al massimo a rivendicazioni di tipo sindacale, per prendere coscienza della complessità dei rapporti sociali di produzione e, dunque, della necessità di rovesciarli per consentire un ulteriore sviluppo delle forze produttive. Solo così il proletariato può adempiere alla sua missione storica, ovvero solo superando dialetticamente la parzialità del proprio punto di vista può assurgere a una visione universale, in grado di farlo portatore di una nuova concezione della società.
Dunque, per divenire cosciente di sé, il lavoratore deve necessariamente togliere dialetticamente la propria determinatezza e assumere una prospettiva universale, per questo Lenin ripeteva insistentemente che senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario. Tuttavia tale coscienza universale si dispiega unicamente nel processo rivoluzionario di conquista dello Stato e, dunque, degli strumenti necessari alla realizzazione della missione universale del proletariato. Il tutto non è quindi realizzabile per il singolo lavoratore se non all’interno di un partito, che consente un’adeguata divisione del lavoro teorico e pratico volto al rivolgimento dei rapporti sociali esistenti. Per divenire classe dirigente credibile, per ottenere il riconoscimento della sua missione universale anche dagli indispensabili alleati, il proletariato deve condurre una lotta non solo volta alle rivendicazioni economiche, ma deve essere in grado di fronteggiare la borghesia in tutti gli ambiti della società, compresa la lotta di classe a livello del pensiero.
Lenin ha ben presenti le intrinseche difficoltà a questo gravoso compito per una classe da sempre asservita al duro giogo del lavoro salariato, ma proprio per questo non ritiene sufficiente il lavoro di trasmissione del patrimonio culturale della borghesia rivoluzionaria, a partire dall’illuminismo, su cui avevano puntato i dirigenti della Seconda Internazionale. All’interno del modo di produzione capitalistico il proletariato rimarrebbe comunque succube della borghesia e dei suoi ideologi. Si tratta, dunque, di conquistare le leve del potere e gli strumenti di trasmissione ed elaborazione della cultura, ma questo richiede che il proletariato organizzato nel partito sia in grado di elaborare già all’interno della lotta rivoluzionaria almeno i lineamenti fondamentali di una nuova cultura, che sia in grado di appropriarsi del patrimonio culturale borghese, ma anche di dargli un ulteriore sviluppo. Certo tale ulteriore sviluppo, come quello delle forze produttive, è inevitabilmente ostacolato dai rapporti di proprietà esistenti, ma proprio perciò ne svela, anche sul piano del pensiero, la profonda irrazionalità.
Ciò è essenziale per potersi sottrarre al dogmatismo scolastico che aveva impedito ai dirigenti e teorici della Seconda Internazionale di comprendere le profonde trasformazioni del contesto storico prodotte dalla prima guerra imperialistica mondiale. A causa di un atteggiamento riflessivo e non speculativo e dialettico della concezione teorica, la Seconda Internazionale poneva un deciso dualismo tra soggetto e oggetto, ovvero tra riflessione e mondo storico-fenomenico, rendendo la teoria incapace di mutare e avanzare seguendo gli sviluppi del proprio oggetto epistemico.
Bisogna dire che l’enfasi posta da Lenin sullo sviluppo di una cultura proletaria non comporta mai un atteggiamento di negazione astratta rispetto al patrimonio culturale borghese. La nuova cultura nasce dal processo di superamento dialettico delle precedenti, il proletariato deve dunque far sue le conquiste dello sviluppo storico del pensiero. La cultura del proletariato si sviluppa, quindi, nella dialettica che porta tale classe a prendere coscienza di sé, non solo come classe sfruttata, ma come classe rivoluzionaria, e perciò erede degli sviluppi culturali precedenti. L’affermazione della cultura proletaria comporta, dunque, il progressivo togliersi dialettico del proletariato in quanto classe, come lo sviluppo dello Stato operaio porta al togliersi dello stato come tale.
Il progetto di una radicale trasformazione dell’ordine esistente implica, per il proletariato organizzato nel partito, l’attento studio delle tendenze di fondo del mondo storico su cui si deve innestare l’azione rivoluzionaria. Tuttavia l’agire stesso non può poi attenersi meccanicisticamente al progetto stabilito in sede teorica, in quanto nella prassi la ragione attiva ha a che fare necessariamente con l’altro da sé, il che certo comporta una perdita del rigore logico, ma al tempo stesso producendo una trasformazione dell’oggetto implica necessariamente un ulteriore sforzo teorico di rielaborazione, per potersi riconoscere nei risultati oggettivi prodotti dal proprio agire e dalle reazioni che esso ha, inevitabilmente, suscitato. L’azione che apparentemente provoca un cedimento da parte della teoria, ne costituisce al contempo uno stimolo indispensabile al suo ulteriore sviluppo.
Tale potenza creativa dell’azione ha dei risvolti teorici importanti. Essa permette di superare l’atteggiamento passivo, riflessivo, puramente teoretico che pretende di analizzare semplicemente la realtà così com’è. La realtà è invece in costante evoluzione sotto l’agire umano, agire guidato da un finalismo, ovvero dalla capacità di cogliere le linee di sviluppo fondamentali del percorso storico, all’interno del quale si radica l’azione rivoluzionaria. Il che comporta secondo Lenin un mettersi alla prova del pensiero, l’accettare costantemente la scommessa dell’azione, l’assumersi in pieno le proprie responsabilità morali pure di fronte a risultati imprevisti.