Un film così pieno di contenuto da sfiorare il documentarismo. Così sono sempre state le opere di Ken Loach e così è anche la sua ultima fatica Io, Daniel Blake, giustamente premiato con la Palma d'Oro all'ultimo festival di Cannes: la storia di un cinquantanovenne falegname di Newcastle, con la passione per il suo lavoro, ma anche con un grave infarto alle spalle che gli impedisce di ritornare a fare il falegname, che non viene riconosciuto come tale e non ha diritto a un sussidio d'invalidità. Pertanto, il malcapitato deve destreggiarsi tra la necessità di almeno un'indennità di disoccupazione, i diktat dell'ufficio di collocamento e i suggerimenti del proprio medico.
Daniel è una figura tragica del Regno Unito nell'era della Brexit. Daniel è la raffigurazione corporea dei lavoratori e dei poveri, umiliati e oppressi in un paese incattivito da anni di liberismo, in cui il pensiero dominante, instillato con cura prima dalla Thatcher e poi dai suoi seguaci Tories o laburisti che fossero, è “quanto mi costa il disoccupato, l'ammalato, l'immigrato, la madre con figli e senza lavoro”?
A quest'ultima categoria appartiene Katie, una ragazza con due bambini a carico, priva di lavoro, e trasferitasi a Newcastle da Londra solo per ottenere una casa popolare. I due fanno amicizia, accomunati dalle sventure e dalle follie burocratiche imposte da un sistema che pure ha fatto negli ultimi quarant’anni del “meno stato, più mercato” la sua ragione di vita. Ma oggi, nell'anno di grazia 2016, si scopre un'amministrazione pubblica impastoiata di regole schizofreniche, parassitata di inutili consulenti privati e totalmente ostile nei confronti dei cittadini poveri del proprio Paese. Vi ricorda qualcosa? Sì?
Avete pensato bene, ricorda l'Italia di Berlusconi, di Prodi, di Monti e di Renzi. I film di Loach sono utili proprio per questo motivo.
In questo senso le pellicole di Ken Loach sono l'esatto contrario di film come il recente Café Society di Woody Allen, un'opera del tutto priva di un contenuto che non siano i triti luoghi comuni (e non è la prima volta in questi ultimi anni per il regista newyorchese), ben impacchettati con belle colonne sonore jazz e raffinate ambientazioni anni '30.
E qui sarebbe già terminata la recensione di quest'ultima fatica di Loach, se non fosse che va reso omaggio anche ai mezzi espressivi di questo autore britannico: perché per rendere così forte l'impatto con la realtà sociale della Gran Bretagna di oggi, con questa terribile ingiustizia sociale, è pur necessario possedere una sensibilità artistica, saper fotografare la fame fisica e l'umiliazione pubblica che ne deriva, saper strappare il sorriso con le denunce piene di sarcasmo di Daniel nei confronti dei piccoli burocrati che lo molestano.
Il realismo non è la piatta riproduzione “oggettiva” di un panorama; dietro lo sguardo di Loach c'è sempre una buona sceneggiatura (quella di Paul Laverty suo tradizionale collaboratore come in La canzone di Carla, Jimmy's Hall e molti altri) che si ispira a un sano classismo, allo sguardo dal basso che pochi hanno saputo mantenere nel corso di questi ultimi decenni.
Questo corredo è quello che consente al regista inglese di poter rinunciare a qualsiasi forzatura spettacolaristica, a qualsiasi cedimento alla mera estetica e persino alla solita fotografia brillante ormai d'obbligo a Hollywood o giù di lì (Allen compreso). Del resto, negli anni scorsi, con una commedia come La parte degli angeli (la sceneggiatura era sempre di Laverty) del 2012 aveva dimostrato di sapersi cimentare con il genere della commedia brillante, senza perdere nulla nelle tematiche sociali.
Per Loach, il contenuto è il film. In questo caso il dramma dell'abbattimento dello stato sociale è il film, qualsiasi tecnica espressiva che non fosse strettamente necessaria (ad esempio gli stessi piani sequenza) sarebbero un suo indebolimento.
Un'ultima notazione: l'estrema sensibilità sociale di Ken Loach si incarna nell'immagine di Daniel Blake al computer. Daniel è depositario di una grande cultura manuale, del saper fare, del saper costruire, ma è del tutto impotente dinanzi a un pc. Quando gli si chiede di spostare il mouse sullo schermo, lui semplicemente lo poggia fisicamente sul vetro. Ma l'incomprensione è ricca di significato perché se da un lato sancisce l'esclusione di intere generazioni dal cosiddetto mondo virtuale, decreta anche l'astrazione irredimibile di una tecnologia che non unisce davvero, che non emancipa dai conflitti reali, ma li porta solo ad un livello più generale. In fondo, non si costruisce nulla di nuovo, ma lo si comunica più velocemente.