Nell’epoca della cosiddetta globalizzazione, ovvero della tendenziale realizzazione del mercato mondiale, si discute molto della necessità di regolare tale processo mediante il diritto internazionale. Tale diritto ha bisogno di un fondamento comune, che renda possibile superare le relazioni fra Stati fondate su meri rapporti di forza. Detto fondamento è generalmente rinvenuto in un evento fondativo non solo del processo di globalizzazione, ma dell’intera modernità: i “diritti umani”. Viviamo, dunque, “in un’epoca in cui la coscienza dell’umanità cerca di fondare, se non una vera riconciliazione fra i popoli, per lo meno la loro elementare coabitazione, sotto l’affermazione universale dei diritti dell’individuo” [1].
D’altra parte tale tendenza a una pace duratura fra i popoli, la cui convivenza sia regolata da principi giuridici sovranazionali, era considerata già da G.W.F. Hegel essenzialmente una distopia. Allo stesso modo Karl Marx manifesta il proprio scetticismo commentando realisticamente lo stato di salute del diritto internazionale nella sue epoca: “mi sia lecito osservare en passant che la convenzione di Vienna, il solo riconosciuto codice di diritto internazionale che ci sia in Europa, costituisce una delle più mostruose fictiones juris publici che mai si siano viste negli annali dell’umanità. (…) Così questo testo sacro dello jus publicum europeo è stato stracciato foglio dopo foglio, e ad esso ci si appella solo quando fa comodo agli interessi degli uni o alla debolezza degli altri” [2]. Purtroppo, questa analisi impietosa appare ancora oggi decisamente attuale quando si pensa alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani posta a fondamento dell’attuale Organizzazione delle Nazioni Unite.
Come ha osservato a ragione Bernard Bourgeois: “il movimento politico dei diritti dell’uomo incontra difficoltà pratiche il cui superamento esige, in primo luogo, la delucidazione teorica delle loro ragioni” (7). Una carenza pratica rinvia, dunque, a una difficoltà teorica, se la sua realizzazione pratica genera delle crescenti difficoltà, ciò è – almeno in parte – dovuto alle contraddizioni presenti nel suo stesso concetto.
Peraltro, si possono far consistere i diritti umani in una molteplicità “di diritti, senza risalire al loro principio – un’idea dell’uomo – e, dunque, facendo astrazione di ciò che potrebbe compromettere un accordo sulla base di obiettivi determinati? Se è così, allora bisogna impegnarsi a stabilire […] un catalogo dei diritti umani. Ma il loro contenuto non può esser determinato se non in relazione con la varietà degli uomini o dei gruppi umani, l’accordo e l’unità delle loro rivendicazioni non possono ottenersi se non a livello del loro principio, dell’idea dell’uomo, la quale preside necessariamente – come idea pratica – alla sua realizzazione determinata” (ibidem).
D’altra parte, pare un dato di fatto che ancora oggi non ci s’intenda e sia difficile trovare un accordo universale per quanto riguarda, in primo luogo, il contenuto dei diritti umani. Non ci s’intende, in effetti, su ciò che costituisce il valore fondamentale della vita umana: la libertà o la sicurezza? La dignità o la felicità? Il diritto o la pace? A tale opposizione fra la “libertà formale” e la “libertà reale” o “concreta” corrisponde la tensione fra i “diritti libertà” (diritti a fare, ad agire…) e i “diritti credito” (diritti a ricevere, a godere…). In questo stesso dibattito culturale internazionale è facile riconoscere il conflitto fra liberalismo e socialismo.
In secondo luogo, non ci si intende nemmeno sulla forma dei diritti umani: bisogna appellarsi al volontarismo o fare professione di storicismo? Piegare il fatto al diritto, imporre l’ideale alla storia? In terzo luogo non ci si intende sul luogo di realizzazione dei diritti umani: si tratta di un luogo unitario che congiunge l’effettualità sociale e il piano giuridico statale, sia attraverso una socializzazione del politico – secondo la prospettiva libertaria – sia attraverso una politicizzazione del sociale cui mira il marxismo. Oppure è il luogo di realizzazione scisso dalla separazione fra il fatto sociale, da lasciare fuori dal diritto, e il diritto puramente statale, secondo la prospettiva del liberalismo? Tutte queste questioni, che traducono la contraddizione multiforme che rallenta, ovvero paralizza, la realizzazione delle rivendicazioni dei diritti umani, interpella la riflessione filosofica. A cominciare dalla filosofia che è stata elaborata nel periodo della proclamazione dei diritti umani, a quella filosofia della Rivoluzione francese che è stata l’idealismo tedesco.
Quest’ultimo ha operato “l’unificazione metafisica dei diritti dell’uomo come realizzazione della libertà, in quanto essa costituisce il diritto originario”. L’idealismo tedesco opera tale unificazione “sostituendo al mescolamento empirico dell’affermazione rivoluzionaria della libertà – la ragion pratica – e della felicità – l’empiria – la fondazione razionale di tutti i diritti proclamati nel 1789-1791 su uno di essi, così elevato a diritto originario e che non è nient’altro che la libertà, di cui il diritto intero è la realizzazione esteriore” (13). In tal modo la libertà viene presupposta “come titolo a avere dei diritti (Articolo Primo: «Gli uomini nascono e restano liberi e uguali nei diritti»), tale libertà è giustapposta all’uguaglianza di tali titoli stessi posti in rapporto con l’interesse («Le distinzioni sociali non possono che venir fondate sull’utilità comune»), di modo tale che i diritti sono fondati sia sulla libertà sia sull’utilità (la socialità)” (ibidem). La libertà si configura, dunque, come un presupposto non posto degli altri diritti dell’uomo.
Peraltro, come hanno sottolineato le analisi di Blandine Barret-Kriegel “lo Stato di diritto è molto anteriore alla Rivoluzione francese. La monarchia assoluta si è in effetti costituita nella liberazione dalla «sovranità» rispetto al dominium e all’imperium, ovvero nella concessione delle libertà personali e civili. Ma la storia della monarchia prerivoluzionaria ha mostrato, allo stesso tempo, che la semplice concessione di diritti significava la precarietà del loro esercizio. L’uomo non ha pienamente dei diritti che nel caso in cui se gli è dati da sé: il diritto non è che autoaffermazione della libertà” (14). È, dunque, “l’atto della dichiarazione dei diritti dell’uomo – in quanto atto che dà senso alla costituzione statale fondata attraverso di esso – che erige nei fatti in principio del diritto la libertà, la quale, nel contenuto dichiarato, non figura che come un diritto fra gli altri. – E la filosofia idealista tedesca, come filosofia dei diritti dell’uomo, è precisamente l’elevamento al concetto dell’atto della loro dichiarazione e non, essenzialmente, del contenuto in essi dichiarato” (14).
Tutti i diritti divengono così “delle condizioni della realizzazione della libertà. E, in primo luogo, quel diritto che il XVIII secolo tendeva a giustapporre, cioè a imporre, alla libertà: il diritto di proprietà. Così, in Kant il diritto di proprietà attualizza, secondo l’esigenza della coesistenza delle libertà, il postulato giuridico della ragion pratica, che afferma la possibilità, per la libertà, dell’uso del suo arbitrio in rapporto a un oggetto di esso; in Hegel, come in Fichte, la proprietà è la realizzazione immediata, deificata, della libertà. Avviene lo stesso del terzo diritto naturale citato dalla Dichiarazione, il diritto alla sicurezza, diritto che hanno gli individui di costituire una comunità statuale, la sola capace di assicurare la realtà fisica della proprietà e la realtà metafisica della libertà” (15).
Perciò, “il diritto dell’uomo, la libertà, non implica che tutti gli uomini abbiano gli stessi diritti, perché il diritto dell’uomo non è un dato empirico, ma, piuttosto, richiede che gli uomini possano – giuridicamente – avere gli stessi diritti: così, ogni cittadino passivo deve avere la possibilità legale di divenire cittadino attivo. In Fichte e Hegel, allo stesso modo, l’attualizzazione individuale del diritto universale alla proprietà o alla partecipazione civica si esprime nell’acquisizione dei diritti particolari, variabili come le condizioni empiriche del loro contenuto” (17). Se ne deduce che “il formalismo dei diritti dell’uomo è il prezzo della loro affermazione universale, assoluta” (ibidem).
D’altra parte, “se l’idealismo tedesco accorda dei diritti all’individuo nella sola misura in cui è il supporto della ragion pratica o della volontà libera, tali diritti si estendono secondo l’intensificazione del legame tra la libertà e la natura, la ragion pratica e la ragion teorica. Vi è così, da Kant a Hegel, una concretizzazione crescente dei diritti dell’uomo e, in particolare, uno sviluppo progressivo dei diritti-libertà in diritti-credito” (ibidem). Così “l’identificazione hegeliana della felicità e della libertà porta a compimento l’umanizzazione dei diritti dell’uomo. La legislazione civile intensifica la loro «socializzazione», e la legislazione penale il loro addolcimento” (18). Dunque, secondo Hegel, “l’uomo, nella sua realtà non civica è, dunque, l’individuo sociale e i diritti dell’uomo, come distinti da quelli del cittadino, sono essenzialmente dei diritti sociali” (29). Come chiarisce Bourgeois, La società civile hegeliana “è così presa in una contraddizione non risolvibile al suo interno: essa si compie in una crisi che l’universalizzazione del commercio fra gli uomini rende totale e definitiva. Privati d’essere in se stessi, la società e l’individuo sociale non sono che riposando sulla riconciliazione statuale dell’individuo e del tutto: lo spirito non ottiene la sua identità, cioè la sua realtà vera, se non nello Stato che, per la sua concretezza, fonda nell’essere una vita sociale di cui presuppone l’astrazione per potersi porre – dal fatto dell’auto-negazione della società civile – nella necessità del suo proprio compimento” (29-30).
Tuttavia, “il primato politico dell’identità sulla differenza, che fa sì che il cittadino – come tale – ha soprattutto dei doveri; l’attitudine statuale, la posizione statuale dell’individuo – caratteristica dello Stato moderno, razionale, vero – esige l’affermazione para- o infra-etica della società civile come vita etica fissata alla differenza predominante. Tale è la ragione del rifiuto hegeliano di ogni identificazione assoluta o astratta dello Stato e della società – del tipo di quella che preconizzerà, per esempio, Marx” (30). Lo Stato deve dunque, “per esistere nella sua verità, proteggere e promuovere al loro posto – non supremo al livello dello spirito oggettivo – i diritti dell’uomo come membro della società civile” (ibidem). I diritti dell’uomo non sono reali, dal punto di vista di Hegel, che nello Stato “e mediante lo Stato, ma uno Stato la cui forza non si celebra che nell’assicurare, mediante la sua vigilanza, l’esistenza dell’uomo nel cittadino, mediante quella della società nello Stato” (ibidem).
Note:
[1] Bernard Bourgeois, Philosophie et droits de l'homme: de Kant à Marx, éditions PUF, Parigi 1990, p. 5. D’ora in avanti citeremo quest’opera indicando direttamente nel testo, fra parentesi tonde, il numero di pagina di quest’opera.
[2] Karl Marx, “La questione delle isole Ionie”, in Marx - Engels, Opere complete, agosto 1858 - febbraio 1860, tr. it. L. Formigari, vol. XVI, Editori Riuniti, Roma 1983, pp. 132-33.