Il giovane Karl Marx pone in evidenza come l’asserita razionalità dello Stato moderno hegeliano non è che raziocinio in quanto non si dimostra in grado di cogliere dialetticamente nel reale-razionale ciò che è meramente esistente, cioè non è in effetti capace di regolamentare il particolarismo della società civile, ma ne costituisce la copertura ideologica sancendo giuridicamente quale diritto umano la proprietà privata. Allo stesso modo, dovendo negare costantemente il proprio presupposto sociale, la rivoluzione politica borghese può progredire verso l’emancipazione umana solo qualora lo stato d’emergenza divenisse, negando se stesso, permanente. Come osserva, acutamente, a questo proposito Marx, “certo: in tempi in cui lo Stato politico nasce violentemente, come Stato politico, dalla società borghese, quando l’emancipazione umana cerca di realizzarsi sotto forma di emancipazione politica, lo Stato può e deve giungere fino a sopprimere la religione, ad annientare la religione; ma solo nel modo in cui perviene a sopprimere la proprietà privata, cioè coll’imposizione di un limite massimo, colla confisca, coll’imposta progressiva, appunto come giunge alla soppressione della vita con la ghigliottina. Nei momenti in cui la vita politica sente più specialmente se stessa, essa cerca di soffocare il proprio presupposto, la società borghese e i suoi elementi, e di porsi per l’uomo come la reale e perfetta vita del genere umano. E questo può aver luogo soltanto tramite una violenta opposizione alle proprie condizioni di vita, solo in quanto la rivoluzione si dichiari permanente, e il dramma politico termina perciò necessariamente con la restaurazione della religione, della proprietà privata, di tutti gli elementi della società borghese, come la guerra si conclude con la pace” [1].
Così dall’illusione democratica rousseauiana della realizzazione di una sovranità popolare, mediante la ricostituzione di una comunità etica sul modello di un’epoca classica idealizzata, si passa al progressivo affermarsi della sovranità giuridica, della dura lex astratta [2]. La libertà dei moderni negata solo astrattamente da un terrore ispirato a un’eticità antica, con la sua caratteristica immediata unità fra cittadino e uomo [3], finisce per affermarsi facendo del legame civico con l’altro, dell’essenza sociale dell’uomo un vincolo esterno al soggetto, un vincolo giuridico. Non appena la potenza trasformatrice si arresta, proprietà privata e religione finiscono per riprodursi su nuove basi. Così la rivoluzione borghese non poteva superare il momento del terrore quale negazione determinata del feudalesimo, ma negazione solo astratta della proprietà privata in contrasto con le esigenze dello Stato. La borghesia manteneva nelle proprie mani le redini del processo storico e così, compiuta la prima negazione, la seconda fu ridotta a fantasma o utopia. Il Termidoro, dunque, spazza via le illusioni giacobine che credevano possibile restaurare la democrazia reale del mondo antico. Così anche l’ultima figura della fase eroica, idealista, della borghesia, Napoleone è votato a un necessario fallimento, nel momento in cui, invece di limitarsi a soddisfare mediante la guerra i bisogni pratici ed egoistici della società civile che lo aveva portato e mantenuto al governo, sublimati nella forma di interessi della nazione francese, aveva preteso di sacrificare il mondo degli affari a un fine politico superiore. Come hanno ben evidenziato Marx ed Engels, anche in tal caso il fondamento reale, materiale ha la meglio sugli ideali politici universali: “Napoleone è stato l’ultima lotta del terrorismo rivoluzionario contro la società civile, proclamata anche questa dalla rivoluzione, e contro la sua politica. Napoleone possedeva già indubbiamente la conoscenza dell’essenza dello Stato moderno; sapeva che questo Stato poggia, come sul suo fondamento, sullo sviluppo non ostacolato della società civile, sul movimento libero degli interessi privati, ecc. Egli prese la decisione di riconoscere e di proteggere questo fondamento. Napoleone non era un terrorista fanatico. Ma considerava ancora nello stesso tempo lo Stato come un fine autonomo, e considerava la vita civile, rispetto allo Stato, solo come il tesoriere e come il subalterno, che non può avere una volontà propria. Egli ha perfezionato il terrorismo mettendo al posto della rivoluzione permanente la guerra permanente. Ha soddisfatto, fino alla completa sazietà. L’egoismo della nazionalità francese, ma egli pretendeva anche il sacrificio degli affari civili, del godimento, della ricchezza, ecc., ogniqualvolta il fine politico della conquista lo reclamava” [4].
Proprio al contrario, sciolta dai legami politici medievali, la società civile borghese liberava i suoi spiriti animali idealisticamente repressi dal terrore ispirato a un’eticità “naturale” [5]. Tanto che, anche nella fase giacobina, “in un momento in cui soltanto la più eroica abnegazione” poteva salvare lo Stato, “in un momento in cui il sacrificio di tutti gli interessi della società civile deve essere posto all’ordine del giorno e l’egoismo deve essere punito come un delitto”[6], i cittadini ribadirono la validità dei diritti dell’uomo della Dichiarazione del 1790. Ma i diritti dell’uomo in quanto tale non sono altro che “i diritti del membro della società civile, cioè dell’uomo egoista, (…) separato dall’uomo e dalla comunità” [7], dalla propria essenza d’animale sociale. I diritti dell’uomo in quanto contrapposto al cittadino sono i diritti d’un individuo che vede nella comunità un limite artificialmente imposto alla sua presunta libertà originaria pre-sociale, tanto da considerare lo Stato unicamente necessario alla comune difesa dei propri interessi individualisti.
L’individuo per natura indipendente e portatore di diritti non è che un’invenzione priva di fantasia della borghesia rivoluzionaria mirante a eternizzare il prodotto della dissoluzione del mondo feudale, in cui il singolo era “parte accessoria di un agglomerato umano, determinato e circoscritto” [8]. In realtà solo nell’epoca borghese, in cui i rapporti sociali hanno conosciuto un enorme sviluppo, l’individuo può isolarsi, degradando la sua essenza politica a “strumento per i suoi fini privati” [9]. L’uomo che ne è portatore non corrisponde al concetto d’uomo quale essere sociale, ma è l’uomo borghese senza tutti i veli di cui si ammanta quale membro della comunità statuale: è l’individuo utilitarista di Bentham.
La lesione dei diritti dell’uomo in nome dei diritti universali del cittadino è propria dello stato d’eccezione che vive il nuovo mondo nella sua gestazione, una volta risolto il conflitto con l’epoca precedente anche la prassi si allinea alla teoria che la fonda sancendo il primato della libertà particolare dell’individuo. Non appena la furia trasformatrice dell’assetto politico della vecchia società s’arrestò, l’epico cittadino rivoluzionario lasciava il campo al prosaico uomo borghese.
Perciò il diritto umano, almeno nella società borghese – dal momento che c’è chi ritiene come George G. Brenkert che anche nel socialismo sia possibile una nuova forma di diritto umano – è il diritto della società civile contrapposta allo Stato, al punto da dominarlo. Con la Rivoluzione del 1830 infine [10], dopo la necessaria sconfitta della Restaurazione che aveva preteso di far girare al contrario le lancette della storia [11], mediante lo Stato costituzionale rappresentativo la borghesia abbandonava definitivamente ogni illusione idealista dello Stato politico, non pretendeva più di essere latrice di scopi universali. “La monarchia di luglio – come mette in evidenza a ragione Marx – non era altro che una società per azioni per lo sfruttamento della ricchezza nazionale francese, società i cui dividendi si ripartivano fra i ministri, i banchieri, 240 mila elettori e il loro seguito. Luigi Filippo era il direttore di questa società” [12].
Note:
[1] Bruno Bauer, Karl Marx, La questione ebraica, tr. it. di M. Tomba, Manifestolibri, Roma 2004, pp. 368-69.
[2] A tal proposito, come nota a ragione Umberto Cerroni: “mentre nella dottrina di Kant (e nei successivi sviluppi del costituzionalismo liberale da Humboldt a Constant a Jellinek) la sovranità tende a giuridicizzarsi progressivamente fino a porsi non più come sovranità popolare ma come sovranità statuale o giuridica, in Rousseau la sovranità approfondisce la sua radice politica affrontando la costruzione non già di uno Stato custode dei diritti individuali, ma quello di uno Stato che realizza la comunità popolare, di un moi commun” Cerroni, Umberto, Marx e il diritto moderno, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 266.
[3] Come chiarisce Roberto Finelli: “per la sua caratteristica di un’immediatezza e una spontaneità che rimane esterna alla riflessione critica, ciò che è «natura seconda» vale a definire la diversità delle due realtà storico-sociali che più di altre connotano per Hegel, rispettivamente, il mondo antico e il mondo moderno:
1) quella di una comunità armonica, ma ingenua e primitiva, come quella caratteristica della Grecia classica, in cui non c’è alcuna distanza ed esteriorità tra individuo e collettività, perché il singolo non ha ancora alcuna coscienza di sé come ambito di vita differenziato da quello della comunità;
2) quella di una comunità, come quella moderna in cui, conquistato il valore irriducibile dell’individualità nella sua differenza dalla comunità, il nesso sociale, per tale autonomia dell’individuo dall’ethos collettivo, non può che collocarsi all’esterno del singolo, assumendo di necessità la configurazione d’istituzioni astratte e impersonali.” Roberto Finelli, Tra moderno e postmoderno. Saggi di filosofia sociale e di etica del riconoscimento, Pensa Multimedia, Lecce 2005, pp. 96-8.
[4] K. Marx e F. Engels, La sacra famiglia [1845], traduzione italiana di A. Zanardo, Editori riuniti, Roma 1967, p. 160.
[5] L’emancipazione politica aveva risolto la contraddizione ingeneratasi nel feudalesimo fra forze produttive – la moderna società civile – e i rapporti di proprietà – il sistema feudale – nel suo fondamento reale: l’individuo. Ciò non valeva solo per l’Inghilterra, come aveva intuito Hegel, ma anche per gli ideali della rivoluzione francese sanciti nei diritti umani, come mostra Marx.
[6] Deutsch-Französische Jahrbücher, herausgegeben von Arnold Ruge und Karl Marx (1844), Verlag Reclam, Leipzig 1981, p. 287; Bruno Bauer, Karl Marx, La questione…, op. cit., p. 195.
[7] Ibidem; Ivi, p. 193.
[8] Karl Marx, Introduzione a “Per la critica dell’economia politica” [1857], in Marx-Engels, Le opere, Editori Riuniti. Roma 1971, pp. 713-14.
[9] Ivi, p. 714.
[10] Significativo quanto mette in evidenza, a tal proposito, Bernard Bourgeois: “ritracciando allora il destino storico di tale riconoscimento dapprima impacciato nell’illusione – robespierrista e napoleonica –, che lo Stato poteva e doveva affermarsi – mediante il terrore e la guerra – negando, dal fatto della sua alterità apparente, la sua propria base, la società civile, Marx ne scopre il compimento nella rivoluzione del 1830” Bernard Bourgeois, Philosophie et droits de l'homme: de Kant à Marx, éditions PUF, Parigi 1990, p. 108.
[11] Osservano a tal proposito Marx ed Engels: “come, con Napoleone, il terrorismo rivoluzionario si è contrapposto ancora una volta alla borghesia liberale, così con la Restaurazione, con i Borboni, le si è contrapposta ancora una volta la controrivoluzione. Infine nel 1830, questa borghesia ha realizzato i suoi desideri del 1789, con la distinzione, tuttavia, che, ora, il suo illuminismo politico era finito; che essa, con lo Stato costituzionale rappresentativo, riteneva di raggiungere non più l’ideale dello Stato, non più la salvezza del mondo e fini generalmente umani, ma aveva invece riconosciuto questo stato come l’espressione ufficiale del suo potere esclusivo, come il riconoscimento politico del suo interesse particolare. La storia della Rivoluzione francese, che è iniziata nel 1789, non è ancora terminata con l’anno 1830, anno in cui ha riportato la vittoria uno dei suoi momenti, arricchito della coscienza del suo significato sociale”. K. Marx, F. Engels, La sacra…, op. cit., p. 162.
[12] K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, tr. it. di P. Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1987, p. 38.