Segue da:Gramsci e il sovversivismo della classe dirigente
Antonio Gramsci osserva acutamente, a proposito della dinamica della crisi politica, nella più generalecrisi economica strutturale del modo di produzione capitalistico: “a un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe” [1]. A questo proposito si domanda Gramsci: “come si formano queste situazioni di contrasto tra rappresentanti e rappresentati, che dal terreno dei partiti (organizzazioni di partito in senso stretto, campo elettorale-parlamentare, organizzazione giornalistica) si riflette in tutto l’organismo statale”? (13, 23: 1603).
Per quanto l’esito delle crisi possa avere forme differenti, da paese a paese, il contenuto resta sempre il medesimo ed è “la crisi di egemonia della classe dirigente, che avviene o perché la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse (specialmente di contadini e di piccoli borghesi intellettuali) sono passate di colpo dalla passività politica a una certa attività e pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione. Si parla di ‘crisi di autorità’ e ciò appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso” (ibidem).
I partiti tradizionali, sempre più al servizio dei grandi proprietari o incapaci di arrestare tale deriva, non sono più in grado di rappresentare politicamente la società, così sottolinea Gramsci: “quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericola, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali e carismatici” (ibidem). Si apre così lo spazio a soluzionicesariste regressive ovvero bonapartiste che, come osserva ancora acutamente Gramsci, esprimono “sempre la soluzione ‘arbitrale’, affidata ad una grande personalità, di una situazione storico-politica caratterizzata da un equilibrio di forze a prospettiva catastrofica” (13, 27: 1619). Tale soluzione non è univoca in quanto, osserva ancora Gramsci, “non ha sempre lo stesso significato storico. Ogni governo di coalizione è un grado iniziale di cesarismo, che può e non può svilupparsi fino ai gradi più significativi” (13, 27: 1620).
Ci può essere un cesarismo progressivo e uno regressivo e il significato esatto di ogni forma di cesarismo, in ultima analisi, può essere ricostruito “dalla storia concreta e non da uno schema sociologico” (ibidem). In altri termini, fa notare ancora Gramsci: “si tratta di vedere se nella dialettica ‘rivoluzione-restaurazione’ è l’elemento rivoluzione o quello restaurazione che prevale, poiché è certo che nel movimento storico non si torna mai indietro e non esistono restaurazioni ‘in toto’” (13, 27: 1619). Nel caso in questione si tratta certamente di un cesarismo regressivo, in quanto “il suo intervento aiuta a far trionfare la forza regressiva, anche in questo caso con certi compromessi e limitazioni” (Ibidem).
Del resto è l’esito stesso della crisi a essere tendenzialmente regressivo, ovvero di norma reazionario: “perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne. La classe dominante – anche a costo di sacrifici e dell’esporsi ad un avvenire incerto per le promesse demagogiche che ha dovuto fare e per le potenze oscure che ha dovuto suscitare – mantiene e rafforza il suo potere, per il momento, e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione, che non può essere molto numeroso e molto addestrato” (13, 23: 1603).
Nei casi di cesarismo regressivo le concessioni populiste, volte a conquistarsi l’egemonia, sono marginali rispetto ai vantaggi che traggono le classi possidenti mediante l’uso aperto della forza contro i reali o potenziali avversari di classe. Le file di questi ultimi possono essere sparigliate anche senza bisogno dell’uso della violenza aperta bonapartista, ossia mediante la “corruzione-frode”. In effetti, fra il prevalere del dominio mediante l’egemonia e il crescente ricorso al monopolio della violenza legale da parte della classe dominante, si sviluppa spesso una fase intermedia (che abbiamo già troppo spesso vissuta), mirabilmente descritta da Gramsci: “tra il consenso e la forza sta la corruzione-frode (che è caratteristica di certe situazioni di difficile esercizio della funzione egemonica, presentando l’impiego della forza troppi pericoli) cioè lo snervamento e la paralisi procurati all’antagonista o agli antagonisti con l’accaparrarne i dirigenti sia copertamente sia in caso di pericolo emergente, apertamente, per gettare lo scompiglio e il disordine nelle file antagoniste” (13, 37: 1637). In tali drammatici frangenti, osserva ancora Gramsci: “i funzionari dei partiti e dei sindacati economici possono essere corrotti o terrorizzati, senza bisogno di azione militare in grande stile, tipo Cesare o 18 brumaio” (13, 27: 1620).
D’altra parte si possono sparigliare le forze delle classi subalterne anche con il terrore volto a far passare dalla parte dei ceti dominanti dirigenti e intellettuali tradizionali precedentemente schieratisi con i ceti subalterni. La sfiducia, esasperata dai mezzi di informazione, verso i rappresentanti eletti sulla base della sovranità popolare accresce il potere di tutti gli organismi non eletti, dalla chiesa, all’alta finanza, dai militari, alla burocrazia “e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell’opinione pubblica” (13, 23: 1603). Dunque, la violenza sempre più aperta che caratterizza il potere, in tali fasi di crisi è coperta dalla potenza egemonica degli organi dell’opinione pubblica, a partire dai mezzi di comunicazione di massa sempre più irreggimentati, che fanno apparire la forza “appoggiata sul consenso della maggioranza” (13, 37: 1637).
Tali situazioni di crisi finiscono generalmente, come abbiamo visto, per avvantaggiare la classe dominante dotata di maggiori strumenti e di personale più pronto e, soprattutto, del potere che gli consente di riprendere “il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione, che non può essere molto numeroso e molto addestrato” (13, 23: 1602-03). Inoltre, osserva con il consueto acume Gramsci: “la fase catastrofica può emergere per una deficienza politica ‘momentanea’ della forza dominante tradizionale e non già per una deficienza organica necessariamente insuperabile. Ciò si è verificato nel caso di Napoleone III” (13, 27: 1621). In tal modo mantiene e rafforza il suo potere di classe anche a costo di sacrifici e dell’esporsi a un avvenire incerto per le promesse demagogiche che ha dovuto fare e per le potenze oscure che ha dovuto suscitare.
Nel primo dopoguerra, il dominio sempre più coercitivo della classe al potere si manifesta all’esterno nell’imperialismo, all’interno nell’affermazione di dittature aperte della borghesia. Qualsiasi forma di autonomia delle classi subalterne nella società civile – dai partiti, ai sindacati, alle associazioni culturali e ricreative – sono bandite e incorporate nello Stato ovvero poste sotto il controllo della classe dominante [2]. Così, nel momento in cui i cittadini sempre meno si riconoscono spontaneamente negli assetti sociali vigenti [3], al rispetto dei diritti umani rinuncia in primo luogo la classe dirigente, ogniqualvolta essi ostacolino la necessità di preservare con la forza l’ordine sociale costituito. In tali fasi di crisi, la stessa concezione religiosa e filosofica dell’eguaglianza sostanziale degli uomini è considerata con sospetto da una borghesia che, per mantenere il proprio potere, deve abdicare al ruolo di classe universale.
Lo stesso B. Croce, pur difendendo dal punto di vista storico il diritto naturale, lo considera proprio di una visione metafisica del mondo ormai superata. A parere di Croce, nel linguaggio del diciottesimo secolo il concetto di leggi di natura era equivalente a quello di leggi razionali. Il limite era nella sua origine metafisica, per cui il concetto di legge naturale-razionale va messo da parte insieme alla visione metafisica del mondo da cui dipende. Al contrario per Gramsci tale presunto superamento cela il diniego di un universalismo non più corrispondente alla salvaguardia di un assetto proprietario sempre più particolaristico ed escludente. Le esigenze reali della concezione del diritto naturale sono negate, come abbiamo visto, con la giustificazione di negare il loro fondamento metafisico.
Del resto, dal punto di vista ideologico, in tali fasi di crisi, si affermano nelle classi dirigenti teorie scioviniste tendenti a contrapporre all’universalismo del diritto naturale lo storicismo tradizionalista. Ciò non comporta il venir meno della posizione cosmopolita in seno alla classe dirigente e fra i paesi imperialisti dominanti, che tende a sfruttare la questione dei diritti umani come strumento per giustificare il suo costante interventismo nella politica interna dei paesi più deboli o che si oppongono ai loro fini. Abbiamo così due diverse correnti nel partito dell’ordine: quella cosmopolita e quella comunitarista cui la classe dominante vorrebbe ridurre, in senso bipolarista, l’offerta elettorale. In tal caso le due componenti possono sviluppare anche aspri contrasti fra di loro. Nel caso, invece, abbia voce in capitolo una forza che difende gli interessi del subalterni, le due fazioni possono anche riunirsi in un unico partito o, meglio, in una coalizione per estromettere il partito dei non possidenti dalla vita politica. Questa contraddizione fra le due componenti della classe dominante tende a riproporsi in quanto, come spiega Gramsci, “una delle contraddizioni fondamentali è questa: che mentre la vita economica ha come premessa necessaria l’internazionalismo o meglio il cosmopolitismo, la vita statale si è sempre più sviluppata nel senso del ‘nazionalismo’, ‘del bastare a se stessi’ ecc.” (15, 5: 1756).
Continua nel numero 260, on-line fra quattro settimane
Note:
[1] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi Torino 1977, pp. 1602-03. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] Osserva a questo proposito Gramsci: “lo Stato moderno abolisce molte autonomie delle classi subalterne, abolisce lo Stato federazione di classi, ma certe forme di vita interna delle classi subalterne rinascono come partito, sindacato, associazione di cultura. La dittatura moderna abolisce anche queste forme di autonomia di classe e si sforza di incorporarle nell’attività statale: cioè l’accentramento di tutta la vita nazionale nelle mani della classe dominante diventa frenetico e assorbente” (3, 18: 303).
[3] In tali frangenti si diffonde nel tessuto sociale l’aspirazione a un nuovo diritto che si riflette in una progressiva trasformazione dei costumi esistenti, a sua volta indizio del sorgente bisogno di un rinnovato ordinamento giuridico.