Secondo Gramsci dal punto di vista dello sviluppo filosofico la concezione egualitaria – quale eguale capacità degli uomini di porsi sul piano universale della ragione – ha caratterizzato il passaggio dal mondo feudale al moderno. In quest’ultimo la concezione egualitaria si è imposta anche nelle scienze naturali che sanciscono l’eguaglianza biologica di ogni singolo componente del genere umano. Lo sviluppo della democrazia moderna è, dunque, influenzato dal materialismo metafisico che considera gli uomini eguali dal punto di vista delle scienze naturali e dell’idealismo che fonda il processo di democratizzazione sull’eguale razionalità [1].
Come mette in luce a questo proposito Gramsci: “l’uguaglianza è ricercata dal materialismo francese del secolo XVIII nella riduzione dell’uomo a categoria della storia naturale, individuo di una specie biologica, distinto non per qualificazioni sociali o storiche, ma per doti naturali; in ogni caso essenzialmente uguale ai suoi simili. Questa concezione è passata nel senso comune, che ha come affermazione popolare che ‘siamo nati tutti nudi’ (..). Nell’idealismo si ha l’affermazione che la filosofia è scienza democratica per eccellenza in quanto si riferisce alla facoltà di ragionare comune a tutti gli uomini, cosa per cui si spiega l’odio degli aristocratici per la filosofia e le proibizioni legali contro l’insegnamento e la cultura da parte delle classi del vecchio regime” (10, 35: 1280-81).
Più in generale secondo Gramsci, ogni sommovimento dei dominati ha preso avvio proprio dalla constatazione della scissione fra l’ideale che pone gli uomini come eguali, portatori di identici diritti “naturali”, e la differenza reale (sociale ed economica) presente nel mondo storico. D’altra parte la base economica del modo di produzione capitalistico, “per lo sviluppo industriale e commerciale, viene continuamente allargata e approfondita, dalle classi inferiori si innalzano fino alle classi dirigenti gli elementi sociali più ricchi di energia e di spirito d’intrapresa, la società intera è in continuo processo di formazione e di dissoluzione seguita da formazioni più complesse e ricche di possibilità” (13, 37: 1636).
Il sovversivismo delle classi dirigenti
Tuttavia, giunto a un elevato grado di sviluppo, la base economica del modo di produzione capitalistico appare sempre meno in grado di espansione e la possibilità di trapasso molecolare nella classe dirigente degli elementi più capaci dei ceti dominati, diviene una possibilità sempre più astratta. L’arresto dello spirito propulsivo del sistema segna il suo passaggio alla fase “repressiva”, ovvero imperialista caratterizzata dalla concentrazione monopolistica del potere economico e politico a discapito della libera concorrenza individuale, si regredisce, così, alla concezione dello Stato quale mera forza. I mutamenti regressivi della società descritti da Gramsci, che hanno condotto all’affermazione di regimi totalitari, presentano allarmanti analogie con quelli in atto oggi. La classe dirigente è “‘saturata’: non solo non si diffonde, ma si disgrega; non solo non assimila nuovi elementi, ma dissassimila una parte di se stessa (o almeno le disassimilazioni sono enormemente più numerose delle assimilazioni)” (2, 8: 937). In altri termini, non solo il blocco sociale dominante non assimila nelle sue fila la parte più propulsiva del proletariato, ma riduce progressivamente a mera forza-lavoro la piccola borghesia.
Nella misura in cui si accrescono le differenze di classe, l’egemonia diviene progressivamente insufficiente alla salvaguardia di assetti sociali in cui una parte crescente della popolazione non si riconosce e si ricade nella concezione dello Stato quale mera forza coercitiva. Il potere politico quale governo dei funzionari e, in particolare, il potere esecutivo hanno progressivamente il sopravvento sull’autogoverno della società civile, l’ideologia liberale cede il passo alla statolatria [2], al dominio della burocrazia quale “cristallizzazione del personale dirigente che esercita il potere coercitivo e che a un certo punto diventa casta” (6, 80: 752).
La crescente incapacità della classe dirigente di mantenere il potere mediante l’egemonia sulla società civile [3] tende a essere colmata dall’aumento esponenziale dell’intervento dello Stato mediante la forza coercitiva del diritto penale per imporre all’insieme sociale gli interessi delle classi dominanti. Tanto più, che Gramsci considera, “il punto di vista giudiziario è un atto di volontà unilaterale tendente ad integrare col terrorismo l'insufficienza governativa” (6, 74: 742). Tutte le conquiste democratiche della società borghese sono poste in dubbio e, quindi, sono a rischio: dall’indipendenza della magistratura e del potere legislativo del parlamento di fronte a un potere esecutivo che governa progressivamente mediante decreti legge e che non deve più rispondere delle proprie azioni di fronte ad un’assemblea legislativa che rischia continuamente di essere sciolta nel momento in cui non accoglierà più spontaneamente gli impulsi del governo.
A questo proposito, Gramsci mette in evidenza “il distacco più o meno grande tra le leggi fondamentali e i regolamenti d’esecuzione che annullano le prime o ne danno un’interpretazione restrittiva; l’impiego più o meno esteso dei decreti-legge che tendono a sostituire la legislazione ordinaria o la modificano in certe occasioni, ‘forzando la pazienza’ del parlamento fino a giungere a un vero e proprio ‘ricatto della guerra civile’. A questo processo contribuiscono i teorici-filosofi, i pubblicisti, i partiti politici ecc. per lo sviluppo della parte formale e i movimenti o le pressioni di massa per la parte sostanziale, con azioni e reazioni reciproche, con iniziative ‘preventive’ prima che un fenomeno si manifesti pericolosamente e con repressioni quando le prevenzioni sono mancate o sono tardive e inefficaci” (13, 37: 1636-37).
Per quanto concerne la tendenza all’involuzione del diritto borghese, Gramsci osserva, inoltre, che la stessa Costituzione è tradita sempre più regolarmente dalla sua interpretazione regressiva e le conquiste del diritto processuale moderno entrano in contraddizione con l’esigenza di preservare un potere sempre più estraneo alla maggior parte della popolazione, segnando il ritorno “ai vecchi metodi istruttori e perfino alla tortura: i sistemi della polizia americana, con il terzo grado degli interrogatori, sono abbastanza noti” (16, 20: 1889). In breve il centralismo burocratico ha progressivamente agio sulla democrazia, indizio che è venuta meno ogni forma di pressione e di condizionamento dal basso. Il prevalere del centralismo burocratico nello Stato, in effetti, indica a parere di Gramsci “che il gruppo dirigente è saturato diventando una consorteria angusta che tende a perpetrare i suoi gretti privilegi regolando o anche soffocando il nascere di forze contrastanti, anche se queste forze sono omogenee agli interessi dominanti fondamentali (per es. nei sistemi protezionistici a oltranza in lotta col liberalismo economico). (..) In ogni caso occorre rilevare che le manifestazioni morbose di centralismo burocratico sono avvenute per deficienza di iniziativa e responsabilità nel basso, cioè per la primitiva politica delle forze periferiche” (13, 36: 1634).
In tali frangenti alle imposte dirette e progressive tendono progressivamente a sostituirsi le imposte sul consumo che, tuttavia, non riuscendo comunque a coprire i costi per una macchina statuale sempre più pesante, gravata dalle spese per la sicurezza interna (polizia) e esterna (esercito), spingono lo Stato a contrarre debiti [4] sempre più ingenti nei confronti dei ceti proprietari, che divengono così creditori esigenti e implacabili in grado di controllare e determinare le politiche economiche dei diversi governi che si succedono. La progressiva incapacità dei salari a riprodurre la forza-lavoro, cui sono accollati i costi della crisi, accresce i reati contro la proprietà e soprattutto il bisogno di sicurezza, abilmente cavalcato dagli organizzatori dell’opinione pubblica associati alla classe dirigente che invocano un governo forte e una magistratura inflessibile. Crescono così le misure giuridiche volte a prevenire ogni lesione di una proprietà sempre meno equamente distribuita e dove non arriva la prevenzione interviene la reazione aperta degli apparati repressivi dello Stato e le provocazioni, più o meno organizzate, di settori sottoproletari assoldati a tale scopo. La violenza sempre più aperta che caratterizza il potere in tali fasi di crisi è coperto dalla potenza egemonica dei così detti organi dell’opinione pubblica, a partire dai mezzi di comunicazione di massa sempre più irregimentati, che fanno apparire la forza “appoggiata sul consenso della maggioranza” (13, 37: 1637). I partiti tradizionali, da una parte sempre più apertamente al servizio dei grandi proprietari o incapaci di arrestare tale deriva, non sono più in grado di rappresentare parte significativa della società.
Note
[1] Annota ancora a questo proposito Gramsci: “origini del sentimento di ‘uguaglianza’: la religione con la sua idea di dio-padre e uomini-figli, quindi uguali; la filosofia secondo l’aforisma: ‘Omnis enim philosophia, cum ad communem hominum cogitandi facultatem revocet, per se democratica est; ideoque ab optimatibus non iniuria sibi existimatur perniciosa’” Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi Torino 1977, p. 887. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] Ecco come Gramsci definisce il concetto di statolatria: “l’analisi non sarebbe esatta se non si tenesse conto delle due forme in cui lo Stato si presenta nel linguaggio e nella cultura delle epoche determinate, cioè come società civile e come società politica, come ‘autogoverno’ e come ‘governo dei funzionari’. Si dà il nome di statolatria a un determinato atteggiamento verso il ‘governo dei funzionari’ o società politica, che nel linguaggio comune è la forma di vita statale a cui si dà il nome di Stato e che volgarmente è intesa come tutto lo Stato” (8, 130: 1020).
[3] Osserva a questo proposito Gramsci: “l’esercizio ‘normale’ dell’egemonia nel terreno divenuto classico del regime parlamentare, è caratterizzato dalla combinazione della forza e del consenso che si equilibrano variamente, senza che la forza soverchi di troppo il consenso, anzi cercando di ottenere che la forza appaia appoggiata sul consenso della maggioranza, espresso dai così detti organi dell’opinione pubblica – giornali e associazioni – i quali, perciò, in certe situazioni, vengono moltiplicati artificiosamente” (13, 37: 1637).
[4] A proposito del meccanismo di formazione del debito pubblico osserva Gramsci: “sul sistema dell’imposta diretta come cespite principale di entrata reagisce l’interesse della classe dominante, che, come detentrice della ricchezza, tende a riversare i pesi fiscali sulla massa della popolazione con le imposte sul consumo; comincia allora la prima forma del debito pubblico, coi prestiti o anticipazioni che i ceti abbienti fanno per i bisogni dell’erario, assicurandosene il rimborso attraverso le gabelle. La lotta politica è caratterizzata dall’oscillazione tra ‘estimo’ e imposta sul consumo” (6, 13: 694).