Segue da Gramsci e la questione coloniale.
Al di là della lotta contro le posizioni del “socialismo-nazionale”, Antonio Gramsci deve affrontare sulla questione coloniale un conflitto teorico all’interno del proprio campo. Persino il primo marxista italiano di statura europea, Antonio Labriola, aveva dato il proprio sostegno all’avventura coloniale in Libia. Gramsci sottolinea in particolare l’emblematica risposta data da Labriola a un allievo – citata nelle Conversazioni critiche di Benedetto Croce – a proposito dell’efficacia della pedagogia moderna nell’educazione di un papuano. In un primo momento sarebbe indispensabile, a parere di Labriola, ridurlo in uno stato di schiavitù, nella speranza che attraverso la sua colonizzazione sia possibile portare i suoi discendenti a intendere la pedagogia moderna. Gramsci considera tali posizioni viziate da uno “pseudostoricismo”, ovvero da “un meccanicismo abbastanza empirico e molto vicino al più volgare evoluzionismo”. [1] Perciò, Gramsci osserva criticamente: “il modo di pensare implicito nella risposta del Labriola non pare pertanto dialettico e progressivo, ma piuttosto meccanico e retrivo” (ivi: 1367). [2] Rifacendosi a B. Spaventa, Gramsci assimila tale giustificazione del colonialismo alla posizione di coloro che “vorrebbero tenere sempre gli uomini in culla (cioè nel momento dell’autorità, che pure educa alla libertà i popoli immaturi) e pensano tutta la vita (degli altri) come una culla” (ivi: 1366). [3] A suo parere, al contrario, un paese o una classe sociale che avesse sviluppato un livello di civiltà avanzato dovrebbe “«accelerare» il processo di educazione dei popoli e dei gruppi sociali più arretrati, universalizzando e traducendo in modo adeguato la sua nuova esperienza” (ivi: 1367). Per Gramsci non ci si può limitare come faceva Labriola a giustificare l’esistente, ovvero a constatare la funzione entro certi limiti civilizzatrice del colonialismo. Al contrario, se si vuole veramente che i discendenti delle popolazioni colonizzate possano liberarsi dalla schiavitù e venire “educati con la Pedagogia moderna” occorre condurre una impietosa lotta al colonialismo. [4] All’interno dei paesi coloniali essa avrà l’essenziale funzione di indurre gli stessi papuani a prendere coscienza di sé e, di conseguenza, ad autoformarsi. Per Gramsci in assenza di una lotta al colonialismo ogni pretesa di una funzione pedagogica europea nei confronti delle popolazioni colonizzate è da considerarsi un’ipocrisia. La schiavitù è, in effetti, “l’espressione di condizioni universalmente immature” (ivi: 1368), mentre la pedagogia moderna necessita della presenza di un docente maturo che possa sostenere nel suo sviluppo un discente in formazione. Dunque, per dirla con Gramsci, “che ci sia chi affermi decisamente che la schiavitù dei papuani non è che una necessità del momento e si ribelli contro tale necessità è anch’esso un fatto filosofico-storico: 1) perché contribuirà a ridurre al tempo necessario il periodo di schiavitù; 2) perché indurrà gli stessi papuani a riflettere su se stessi, ad autoeducarsi, in quanto sentiranno di essere appoggiati da uomini di civiltà superiore; 3) perché solo questa resistenza mostra che si è realmente in un periodo superiore di civiltà e di pensiero ecc.” (ivi: 1367). [5] Per concludere su questo punto Gramsci sottolinea “che un popolo o un gruppo sociale arretrato abbia bisogno di una disciplina esteriore coercitiva, per essere educato civilmente, non significa che debba essere ridotto in schiavitù, a meno che non si pensi che ogni coercizione statale è schiavitù” (ivi: 1368).
La lotta al colonialismo è, inoltre, decisiva per Gramsci poiché questo è alla base delle moderne guerre imperialiste. Le borghesie degli Stati a capitalismo avanzato tendono infatti “ad allargare la base della società lavoratrice da cui prelevare plusvalore” (13, 34: 1631). Tale tendenza “naturale” diviene una necessità impellente in fasi di crisi economico-sociale. L’esigenza di allargare la base d’estrazione del plusvalore mediante il colonialismo entra così “in conflitto con altri gruppi dirigenti che aspirano allo stesso fine o ai cui danni l’espansione di esso dovrebbe necessariamente avvenire, poiché anche il globo terrestre è limitato” (ibidem).
Gramsci analizza, inoltre, le profonde trasformazioni che il colonialismo produce nella struttura dello Stato e di conseguenza nella lotta socio-politica al suo interno. Negli ultimi decenni del XIX secolo, in seguito all’espansione coloniale, “i rapporti organizzativi interni e internazionali dello Stato (…) diventano più complessi e massicci” (13, 7: 1566). Al punto che “la formula quarantottesca della «rivoluzione permanente»” diviene obsoleta e deve essere sostituita con quella di lotta per l’“egemonia” (ibidem). Negli Stati colonialisti, in effetti, il conflitto fra le classi sociali si svolge principalmente nella forma della “guerra di posizione” per il controllo del complesso di associazioni della società civile.
Allo stesso modo, nelle guerre coloniali la soluzione militare non è sufficiente, non basta conseguire come in una guerra normale il “fine strategico”, ma dovendosi occupare in pianta stabile il paese sconfitto, anche dopo averne disperso le truppe, il conflitto proseguirà sul “terreno politico e di «preparazione» militare” (1, 134: 122). Sia le guerre coloniali sia le guerre di liberazione nazionale sono, dunque, simili alla moderna lotta politica, articolandosi come questa su tre piani differenti: la guerra “di movimento, di posizione e sotterranea” (ibidem). Si tratta di forme di lotta miste, poiché i colonialisti sono in evidente inferiorità numerica e i movimenti di liberazione nazionale sono privi degli equipaggiamenti indispensabili a poter sostenere un conflitto in campo aperto. Emblematico è, da questo punto di vista, il caso della lotta di liberazione allora in corso in India, a proposito della quale osserva Gramsci: “la resistenza passiva di Gandhi è una guerra di posizione che diventa guerra di movimento in certi momenti e in altri guerra sotterranea: il boicottaggio è guerra di posizione, gli scioperi sono guerra di movimento, la preparazione clandestina di armi e di elementi combattivi d’assalto è guerra sotterranea. C’è una forma di arditismo, ma essa è impiegata con molta ponderazione” (1, 134: 122).
Piuttosto scarna è l’analisi di Gramsci sulle colonie italiane, presumibilmente per evitare la censura. Vi sono cenni sull’Albania (1, 66: 76) o l’Eritrea (2, 50: 205) in brevi note in cui Gramsci si limita a sintetizzare articoli letti in riviste. Per quanto concerne l’Etiopia, Gramsci aggiunge delle proprie acute osservazioni, a partire dal fatto che la struttura geografica del paese ne faceva “un immenso campo trincerato naturale, espugnabile solo con forze smisurate e sacrifizi non proporzionati alle scarse risorse economiche che il paese può offrire all’eventuale conquistatore” (2, 21: 175). Se ne deduce che l’avventura mussoliniana sarebbe stata legata più alla retorica di regime e a sviare dalle difficoltà interne che a reali esigenze economiche del paese. Al colonialismo italiano, Gramsci contrappone la potenzialità dell’Etiopia che, in quanto unico Stato africano ancora indipendente, potrebbe svolgere una funzione essenziale nella lotta di liberazione dell’intero continente africano da colonialismo e imperialismo. Come osserva a questo proposito Gramsci: “come unico Stato indigeno libero dell’Africa, l’Etiopia può diventare la chiave di tutta la politica mondiale africana, cioè il punto di collisione delle tre potenze mondiali (Inghilterra, Stati Uniti, Russia). L’Etiopia potrebbe mettersi alla testa di un movimento per l’Africa agli africani” (2, 50: 205).
Ancora più significative sono le note dedicate ai domini coloniali inglesi, posti in discussione dal sorgere del nazionalismo, considerato da Gramsci “un movimento contro il capitalismo stimolato dal movimento operaio” (2, 48: 200). A questo proposito, Gramsci osserva che mentre gli inglesi sembrano trovare una soluzione nelle colonie a capitalismo sviluppato, dal momento che – come ricordava Lenin – in taluni casi la questione nazionale può avere “una soluzione pacifica anche in regime borghese”, molto più complessa è la loro politica di fronte ai “movimenti nazionali nei paesi coloniali e semicoloniali: India, negri dell’Africa ecc.” ( 2, 21: 175). Per quanto riguarda in particolare l’India, Gramsci comprende come gli inglesi, dinanzi al vasto movimento anticolonialista che si veniva formando e che avrebbe potuto rovesciare il loro dominio, avrebbero fatto di tutto per provocare gli indipendentisti indiani e costringerli a venire allo scoperto, costringendoli ad accettare uno scontro in campo aperto, senza aver avuto la possibilità di accumulare le forze necessarie alla liberazione. In tal modo avrebbero potuto stroncare un movimento che altrimenti sarebbe risultato inarrestabile. A questo proposito osserva Gramsci: “se gli Inglesi avessero la convinzione che si prepara un grande movimento insurrezionale destinato ad annientare l’attuale loro superiorità strategica (che consiste in un certo senso nella loro possibilità di manovrare per linee interne e di concentrare le loro forze nel punto «sporadicamente» più pericoloso) col soffocamento di massa, cioè costringendoli a diluire le forze in un teatro bellico divenuto simultaneamente generale, ad essi converrebbe provocare l’uscita prematura delle forze combattenti indiane per identificarle e decapitare il movimento generale” (1, 134, 122-23). Gramsci comprende inoltre che “in queste forme di lotta miste”, come quelle che si venivano sviluppando nelle colonie, “a carattere militare fondamentale e a carattere politico preponderante (ma ogni lotta politica ha sempre un sostrato militare), l’impiego degli arditi”, ovvero di gruppi armati del movimento indipendentista, “domanda uno sviluppo tattico originale – Gramsci presumibilmente pensa a una lotta di tipo guerrigliero – “alla concezione del quale l’esperienza di guerra può dare solo uno stimolo, non un modello” (ivi: 123). Gramsci, inoltre, distingue la potenziale lotta armata anticolonialista, potenzialmente maggioritaria in grandi paesi come l’India, da movimenti anticolonialisti minoritari dediti alla lotta armata, allora in atto principalmente in Irlanda e nei Balcani. Perciò queste ultime “forme di guerra da partigiani devono essere staccate dalla questione dell’arditismo, sebbene paiano avere [con esso] punti di contatto. Queste forme di lotta sono proprie di minoranze [deboli ma esasperate] contro maggioranze bene organizzate: mentre l’arditismo moderno presuppone una grande riserva, immobilizzata per varie ragioni, ma potenzialmente efficiente, che lo sostiene e lo alimenta con apporti individuali” (ibidem).
Un possibile supporto ai movimenti nazionali può venire da altre potenze a capitalismo sviluppato, interessate a rompere il monopolio economico del paese colonizzatore, attraendo le colonie nella propria area d’influenza economica. Tale ruolo fu svolto principalmente dagli Stati uniti d’America, a partire dalla nota dottrina Monroe (cfr. 2, 16: 167). Ciò non comporta un’opposizione di principio al colonialismo, poiché, come ricorda Gramsci, gli Usa proposero di annullare i loro ingenti crediti di guerra in cambio della “cessione dei possedimenti europei nelle Antille e anche di colonie africane” (8, 47: 970).
Note:
[1] Gramsci, A., Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, p. 1366. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] Acutamente Gramsci coglie un’analogia di questo modo di ragionare di Labriola con “quello «pedagogico-religioso» del Gentile che non è altro che una derivazione del concetto che la «religione è buona per il popolo» (popolo = fanciullo = fase primitiva del pensiero cui corrisponde la religione ecc.) cioè la rinunzia (tendenziosa) a educare il popolo” (11, 1: 1367).
[3] Gramsci ne conclude che “lo Spaventa, che si metteva dal punto di vista della borghesia liberale contro i «sofismi» storicistici delle classi retrive, esprimeva, in forma sarcastica, una concezione ben più progressiva e dialettica che non il Labriola e il Gentile” (11, 1: 1368).
[4] Perciò Gramsci, “di fronte al meccanicismo implicito nel pensiero del Labriola”, controbatte: “può darsi benissimo che sia «necessario ridurre i papuani alla schiavitù» per educarli, ma non è necessario meno che qualcuno affermi che ciò non è necessario che contingentemente, perché esistono determinate condizioni, che cioè questa è una necessità «storica» e non assoluta: è necessario anzi che ci sia una lotta in proposito, e questa lotta è proprio la condizione per cui i nipoti o pronipoti del papuano saranno liberati dalla schiavitù e saranno educati con la Pedagogia moderna” (11, 1: 1367).
[5] Perciò, Gramsci ne conclude che “lo storicismo del Labriola e del Gentile è di un genere molto scadente: è lo storicismo dei giuristi per i quali il knut [la frusta] non è un knut quando è un knut «storico»” (11, 1: 1368).