Antonio Gramsci considera la spartizione del mondo fra grandi potenze imperialiste come un tentativo della grande borghesia di ovviare alla prima grande crisi di sovrapproduzione di fine Ottocento innescata dalla caduta tendenziale del saggio di profitto, che imponeva alle potenze a capitalismo avanzato “di ampliare l’area di espansione dei suoi investimenti redditizi”. [1] Tale politica – che segna il passaggio dalla fase concorrenziale e liberale del capitalismo alla superiore fase monopolista e imperialista – interessa solo marginalmente nazioni come l’Italia in cui il capitalismo si è da poco affermato e che sono, perciò, ancora prive di capitali sovraprodotti da investire all’estero. In particolare, l’“imperialismo straccione” italiano, non avendo delle ragioni economiche strutturali per espandersi imperialisticamente, segue nella sua espansione coloniale una logica sovrastrutturale tutta politica, avendo principalmente quale obiettivo il rafforzamento dell’unità nazionale sotto l’egemonia dei conservatori. Dinanzi alle resistenze economicamente motivate degli industriali non legati alle commesse statali, il colonialismo in Italia si afferma principalmente, a parere di Gramsci, per la necessità della classe dirigente di esercitare la propria egemonia sulle masse rurali del sud, restie a riconoscersi nel Regno d’Italia. Non potendo, né volendo, rompere il blocco sociale dominante costituito dall’alleanza fra industriali settentrionali e grandi proprietari terrieri meridionali, la classe dirigente italiana non aveva altro modo di rispondere alle esigenze di terra delle masse dei braccianti se non, come denuncia Gramsci, “deviandone la soluzione all’infinito”, ovvero prospettando “il miraggio delle terre coloniali da sfruttare” (19, 24: 2018). [2] In particolare, come ricorda Gramsci, “la politica coloniale di Crispi è legata alla sua ossessione unitaria e in ciò seppe comprendere l’innocenza politica del Mezzogiorno; il contadino meridionale voleva la terra e Crispi che non gliela voleva (e poteva) dare in Italia stessa, che non voleva fare del ‘giacobinismo economico’, prospettò il miraggio delle terre coloniali da sfruttare. L’imperialismo di Crispi fu un imperialismo passionale, oratorio, senza alcuna base economico-finanziaria” ( 19, 24: 2018).
Del resto, l’interesse di Gramsci per la questione coloniale è rivolto, in primo luogo, all’analisi dei “rapporti tra le nazioni industriali e quelle agrarie” da cui ricavare spunti per affrontare la questione “della situazione di semi colonie dei paesi agrari (e delle colonie interne nei paesi capitalistici)” (8, 193: 1057) arretrati come l’Italia alla fine del XIX secolo. La politica liberale dominante si fondava su “un blocco urbano” fra industriali e aristocrazie operaie del nord che preservava la sua egemonia sul resto del paese mediante il protezionismo. Tanto più che, in paesi a capitalismo arretrato, le industrie, non ancora in grado di fronteggiare la concorrenza internazionale, hanno bisogno del protezionismo. La produzione non è finalizzata alla soddisfazione di un mercato interno reso debole dalla politica dei bassi salari, ma è volta a conquistare, come osserva Gramsci, “mercati all’estero con un vero e proprio dumping permanente” (6, 135: 799). Il Mezzogiorno era così ridotto, denuncia Gramsci “a un mercato di vendita semicoloniale, a una fonte di risparmio e di imposte ed era tenuto ‘disciplinato’ con due serie di misure” (19, 26: 2038): la repressione violenta d’ogni forma di organizzazione delle masse rurali e la “corruzione-cooptazione” degli intellettuali. In tal modo, “lo strato sociale che avrebbe potuto organizzare l’endemico malcontento meridionale diventava invece uno strumento della politica settentrionale” (ivi: 2039). [3] La repressione dei disorganici tentativi di ribellione delle masse meridionali, che si manifestavano nel brigantaggio, erano condotti dai liberali con la brutalità tipica delle “spedizioni coloniali” (6, 2: 685). [4] Ciò avviene, come sottolinea a ragione Gramsci, in “certi paesi di capitalismo arretrato [come l’Italia liberale] e di composizione economica in cui si equilibrano la grande industria moderna, l’artigianato, la piccola e media cultura agricola e il latifondismo, le masse operaie e contadine non sono considerate come un ‘mercato’. Il mercato per l’industria è pensato all’estero e in paesi arretrati dell’estero, dove sia più possibile la penetrazione politica per la creazione di colonie e di zone d’influenza. L’industria, col protezionismo interno e i bassi salari, si procura mercati all’estero con un vero e proprio dumping permanente. Paesi dove esiste nazionalismo ma non una situazione ‘nazionale-popolare’, dove cioè le grandi masse popolari sono considerate come il bestiame” (6, 135: 799).
Lo stadio di arretratezza cui tali politiche condannavano il Meridione era funzionale a giustificare la conquista di colonie all’estero. Alla “fame di terra”, alle “sofferenze dell’emigrazione” delle masse rurali, l’ideologia dominante rispondeva con una politica “di colonialismo di popolamento” (19, 24: 2020). Tuttavia, a parere di Gramsci, non esiste una relazione necessaria fra “esuberanza demografica” e dominio diretto di colonie, poiché l’emigrazione segue leggi proprie, di carattere economico” (ibidem).
L’importanza decisiva che aveva lo sviluppo di una politica coloniale, che aprisse mercati alle merci “in paesi arretrati dell’estero dove sia più possibile la penetrazione politica per la creazione di colonie e di zone d’influenza” (19, 24: 2018), tendeva a mascherare la propria origine in interessi economici delle classi dominanti dietro un’ideologia nazionalista. Per Gramsci questa è particolarmente deleteria per paesi arretrati come l’Italia, in cui riesce a conquistare intellettuali piccolo-borghesi precedentemente vicini al socialismo. Emblematico è il caso di Giovanni Pascoli o di Enrico Corradini che si ingegnano di ripensare la lotta di classe su un piano geopolitico, sulla base dello pseudoconcetto di “nazione proletaria” (2, 52: 209). Come ricorda Gramsci, Pascoli sosteneva: “‘io mi sento socialista, profondamente socialista, ma socialista dell’umanità, non d’una classe. E col mio socialismo, per quanto abbracci tutti i popoli, sento che non contrasta il desiderio e l’aspirazione dell’espansione coloniale. Oh! io avrei voluto che della colonizzazione italiana si fosse messo alla testa il baldo e giovane partito sociale; ma ahimè esso fu reso decrepito dai suoi teorici. (…). La mia missione: introdurre il pensiero della patria e della nazione e della razza nel cieco e gelido socialismo di Marx’” (2, 51: 206). Tanto che Pascoli sosteneva “che sarebbe stato lieto di essere incaricato delle scuole all’estero o delle scuole coloniali, più che di fare il professore di lettere all’Università, per avere agio di fare appunto il profeta della missione d’Italia nel mondo” (2, 52: 210). Più nello specifico, a proposito delle tendenze politiche di Giovanni Pascoli Gramsci rammenta che “ebbero pubblicamente il massimo di ripercussione al tempo della guerra libica col discorso La grande proletaria si è mossa. Esse sarebbero, osserva acutamente Gramsci, da connettere con le dottrine di Enrico Corradini, in cui il concetto di ‘proletario’ dalle classi è trasportato alle nazioni (quistione della ‘proprietà nazionale’ legata con l’emigrazione; ma si osserva che la povertà di un paese è relativa ed è l’‘industria’ dell’uomo – classe dirigente – che riesce a dare a una nazione una posizione nel mondo e nella divisione internazionale del lavoro; l’emigrazione è una conseguenza della incapacità della classe dirigente a dar lavoro alla popolazione e non della povertà nazionale: esempio dell’Olanda, della Danimarca ecc.” (2, 51: 205). Il socialismo colonialista e nazionale di Pascoli sosteneva che “il carattere ‘eroico’ delle nuove generazioni si rivolge al ‘socialismo’, come quello delle generazioni precedenti si era rivolto alla quistione nazionale: perciò il suo temperamento lo porta a farsi banditore di un socialismo nazionale che gli sembra all’altezza dei tempi. Egli è il creatore del concetto di nazione proletaria, e di altri concetti poi svolti da E. Corradini e dai nazionalisti di origine sindacalista” (2, 52: 209). Secondo questi fautori del social-sciovinismo e del social-imperialismo, l’espansione coloniale di paesi come l’Italia avrebbe la sua giustificazione nella scarsezza delle risorse naturali che costringerebbe all’emigrazione le masse agricole meridionali. Al contrario, a parere di Gramsci, la conquista di colonie non risponde a ragioni d’ordine demografico ma a interessi economici e politici delle classi dominanti: “non si ha esempio, nella storia moderna, di colonie di ‘popolamento’”; tanto l’emigrazione, quanto “la colonizzazione seguono il flusso dei capitali investiti nei vari paesi e non viceversa” (19, 6: 1991). Così diverse colonie italiane all’estero si trovano in paesi sotto il dominio di altre potenze coloniali nella forma di “Capitolazioni”. [5] Tale forma di colonizzazione indiretta ha il vantaggio di curare gli interessi nazionali “lasciando l’odiosità della situazione creata dall’Europa” (2, 63: 219) sulle spalle del paese colonizzatore.
Continua nel numero 312 de “La città futura” on-line dal 16 dicembre.
Note:
[1] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, p. 2018. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] Per dirla con Gramsci: “l’Europa capitalistica, ricca di mezzi e giunta al punto in cui il saggio del profitto cominciava a mostrare la tendenza alla caduta, aveva la necessità di ampliare l’area di espansione dei suoi investimenti redditizi: così furono creati dopo il 1890 i grandi imperi coloniali. Ma l’Italia ancora immatura, non solo non aveva capitali da esportare, ma doveva ricorrere al capitale estero per i suoi stessi strettissimi bisogni. Mancava dunque una spinta reale all’imperialismo italiano e ad essa fu sostituita la passionalità popolare dei rurali ciecamente tesi verso la proprietà della terra: si trattò di una necessità di politica interna da risolvere, deviandone la soluzione all’infinito. Perciò la politica di Crispi fu avversata dagli stessi capitalisti (settentrionali) che più volentieri avrebbero visto impiegate in Italia le somme ingenti spese in Africa; ma nel Mezzogiorno Crispi fu popolare per aver creato il ‘mito’ della terra facile” (19, 24: 2018-019).
[3] Vale la pena riportare per intero il ragionamento di Gramsci: “il programma di Giolitti e dei liberali democratici tendeva a creare nel Nord un blocco ‘urbano’ (di industriali e operai) che fosse la base di un sistema protezionistico e rafforzasse l’economia e l’egemonia settentrionale. Il Mezzogiorno era ridotto a un mercato di vendita semicoloniale, a una fonte di risparmio e di imposte ed era tenuto ‘disciplinato’ con due serie di misure: misure poliziesche di repressione spietata di ogni movimento di massa con gli eccidi periodici di contadini (nella commemorazione di Giolitti, scritta da Spectator – Missiroli – nella ‘Nuova Antologia’ si fa le meraviglie perché Giolitti si sia sempre strenuamente opposto a ogni diffusione del socialismo e del sindacalismo nel Mezzogiorno, mentre la cosa è naturale e ovvia, poiché un protezionismo operaio – riformismo, cooperative, lavori pubblici – è solo possibile se parziale; cioè ogni privilegio presuppone dei sacrificati e spogliati); misure poliziesche-politiche: favori personali al ceto degli ‘intellettuali’ o paglietta, sotto forma di impieghi nelle pubbliche amministrazioni, di permessi di saccheggio impunito delle amministrazioni locali, di una legislazione ecclesiastica applicata meno rigidamente che altrove, lasciando al clero la disponibilità di patrimoni notevoli ecc., cioè incorporamento a ‘titolo personale’ degli elementi più attivi meridionali nel personale dirigente statale, con particolari privilegi ‘giudiziari’, burocratici ecc. Così lo strato sociale che avrebbe potuto organizzare l’endemico malcontento meridionale, diventava invece uno strumento della politica settentrionale, un suo accessorio di polizia privata. Il malcontento non riusciva, per mancanza di direzione, ad assumere una forma politica normale e le sue manifestazioni, esprimendosi solo in modo caotico e tumultuario, venivano presentate come ‘sfera di polizia’ giudiziaria. In realtà a questa forma di corruzione aderivano sia pure passivamente e indirettamente uomini come il Croce e il Fortunato per la concezione feticistica dell’‘unità’” (19, 26: 2038-039).
[4] In particolare Gramsci ricorda come “il Bechi andò in Sardegna col 67° fanteria. La quistione del suo contegno nella repressione del brigantaggio, condotta come le spedizioni coloniali” (6, 2: 685).
[5] Dove tale forma viene meno, la colonia tende a perdere la propria identità nazionale, mentre dove resiste, come in Egitto, conosce un significativo sviluppo storico. Giunti alla terza o quarta generazione si passa “dall’emigrato proletario all’industriale, commerciante, professionista” (2, 63: 219). Dunque, nel momento in cui è “mantenuto il carattere nazionale, aumentano la clientela commerciale dell’Italia ecc. ecc. (sarebbe interessante vedere la composizione sociale della colonia italiana: è però probabile che un ragguardevole numero di emigrati dopo tre o quattro generazioni sia salito di classe sociale: in ogni modo le Capitolazioni dànno unità alla colonia e permettono ai funzionari italiani e ai borghesi di controllare tutta la massa degli emigrati)” (ibidem).