Il regime rappresentativo (proprio della tradizione liberale) svolge, a parere di Antonio Gramsci, una funzione storica positiva nella misura in cui è in grado di selezionare funzionari capaci di vitalizzare le cariche non elettive dell’apparato statuale in cui “naturalmente” tende a prevalere la rigidità burocratica [1]. Da questo punto di vista, Gramsci vede nel regime parlamentare fondato hegelianamente sull’egemonia la realizzazione del tentativo giacobino di realizzare lo Stato moderno borghese nella sua forma più compiuta: “lo sviluppo del giacobinismo (di contenuto) ha trovato la sua perfezione formale nel regime parlamentare, che realizza nel periodo più ricco di energie ‘private’ nella società l’egemonia della classe urbana su tutta la popolazione, nella forma hegeliana di governo col consenso permanentemente organizzato (con l'organizzazione lasciata all’iniziativa privata, quindi di carattere morale o etico, perché consenso ‘volontario’ in un modo o nell’altro)” (1, 48: 58). Tanto più che per Gramsci il concetto di egemonia tende a coincidere con quello “di democrazia in senso moderno” (14, 56: 1715) [2].
Dunque, come comprende acutamente Gramsci, già in Georg W. F. Hegel c’è una significativa intuizione dei limiti del parlamentarismo: “la dottrina di Hegel sui partiti e le associazioni come trama ‘privata’ dello Stato […] derivò storicamente dalle esperienze politiche della Rivoluzione francese e doveva servire a dare maggiore concretezza al costituzionalismo. Governo col consenso dei governanti, ma col consenso organizzato, non generico e vago quale si afferma nell’istante delle elezioni: lo Stato ha e domanda il consenso, ma anche ‘educa’ questo consenso con le associazioni politiche e sindacali, che però sono organismi privati, lasciati all’iniziativa privata della classe dirigente. Hegel, in un certo senso, supera già, così, il puro costituzionalismo e teorizza lo Stato parlamentare col suo regime di partiti” (1, 47: 56-57). Quindi, i limiti storici del parlamentarismo nello svolgere la funzione di valido elemento di stimolo nei confronti della struttura dello Stato che tende a ipostatizzarsi, indicano già, secondo Gramsci, l’esigenza di individuare una forma di regime rappresentativo maggiormente avanzato, in grado di pungolare in modo più efficace gli apparati burocratici dello Stato [3].
Tale profonda trasformazione richiede una radicale rottura con il modo di produzione capitalistico. Il che comporta, secondo Gramsci, anche una demitizzazione dello stesso suffragio universale. In effetti, come ricorda a ragione Gramsci: “durante la Rivoluzione, il blocco urbano parigino guida in modo quasi assoluto la provincia e si forma così il mito del suffragio universale che dovrebbe sempre dare ragione alla democrazia radicale parigina. Perciò Parigi vuole il suffragio universale nel 1848, ma esso esprime un parlamento reazionario-clericale che permette a Napoleone III la sua carriera. Nel 1871 Parigi ha fatto un gran passo in avanti, perché si ribella all’Assemblea Nazionale di Versailles, formata dal suffragio universale, cioè implicitamente ‘capisce’ che tra ‘progresso’ e suffragio può esserci conflitto” (13, 37: 1648). Perciò la possibilità stessa di superare il disordine che regna, quando un modo di produzione è entrato in crisi e il nuovo non riesce ancora ad affermarsi, necessità una rottura rivoluzionaria dalla quale soltanto potrà scaturire il nuovo ordine [4]. Osserva a tal proposito Gramsci che già “la rivendicazione popolare della eleggibilità di tutte le cariche […] è estremo liberalismo e nel tempo stesso sua dissoluzione” (6, 80: 751-52). Ciò porta a una serrata critica della posizione tradeunionista, che Gramsci definisce “sindacalismo teorico […], che si riferisce a un raggruppamento subalterno, al quale con questa teoria si impedisce di diventare mai dominante, di uscire dalla fase economico-corporativa per elevarsi alla fase di egemonia politico-intellettuale nella società civile e diventare dominante nella società politica” (4, 38: 460). Allo stesso modo, Gramsci conduce a fondo la critica alla concezione fatalista della rivoluzione tipica del massimalismo, che si diceva favorevole a tale radicale rovesciamento, ma non faceva nulla in concreto per prepararla: “a proposito della funzione storica svolta dalla concezione fatalistica della filosofia della praxis si potrebbe fare un elogio funebre di essa, rivendicandone la utilità per un certo periodo storico, ma appunto perciò sostenendo la necessità di seppellirla con tutti gli onori del caso. Si potrebbe veramente paragonare la sua funzione a quella della teoria della grazia e della predestinazione per gli inizi del mondo moderno che poi ha però culminato con la filosofia classica tedesca e con la sua concezione della libertà come coscienza della necessità” (11, 1: 1394).
Note:
[1] Approfondendo la questione della eleggibilità delle cariche in relazione all’altro caposaldo del pensiero politico liberale, ovvero la divisione del potere, fa notare Gramsci: “la divisione dei poteri e tutta la discussione avvenuta per la sua realizzazione e la dogmatica giuridica nata dal suo avvento, sono il risultato della lotta tra [la] società civile e la società politica di un determinato periodo storico, con un certo equilibrio instabile delle classi, determinato dal fatto che certe categorie d’intellettuali (al diretto servizio dello Stato, specialmente burocrazia civile e militare) sono ancora troppo legate alle vecchie classi dominanti. Si verifica cioè nell’interno della società quello che il Croce chiama il ‘perpetuo conflitto tra Chiesa e Stato’, in cui la Chiesa è presa a rappresentare la società civile nel suo insieme (mentre non ne è che un elemento gradatamente meno importante) e lo Stato ogni tentativo di cristallizzare permanentemente un determinato stadio di sviluppo, una determinata situazione. In questo senso la Chiesa stessa può diventare Stato e il conflitto può manifestarsi tra Società civile laica e laicizzante e Stato-Chiesa (quando la Chiesa è diventata una parte integrante dello Stato, della società politica monopolizzata da un determinato gruppo privilegiato che si aggrega la Chiesa per sostenere meglio il suo monopolio col sostegno di quella zona di società civile rappresentata dalla Chiesa)”. Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, pp. 751-52. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] Da ciò deriva la decisiva reinterpretazione, da parte di Gramsci, della tattica da seguire per realizzare l’agognata Rivoluzione in occidente: “la struttura massiccia delle democrazie moderne, sia come organizzazioni statali che come complesso di associazioni nella vita civile costituiscono per l’arte politica come le ‘trincee’ e le fortificazioni permanenti del fronte nella guerra di posizione: essi rendono solo ‘parziale’ l’elemento del movimento che prima era ‘tutta’ la guerra ecc.” (13, 7: 1566). Si noti bene che, al contrario di quanto sostengono gli opportunisti di destra, Gramsci non intende affatto sostituire la guerra di posizione alla guerra di movimento, ma considerare quest’ultima come uno dei due momenti decisivi del conflitto. Dunque, la differenza fondamentale rispetto alla rivoluzione bolscevica è che “in Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale” (7, 16: 866). Sulle questioni delle trincee e della casematte della società civile da conquistare vedi anche: (6, 137: 801).
[3] Nota a tal proposito Gramsci, contrapponendo a liberalismo e fascismo la rivoluzione socialista, facendo emergere il concetto rivoluzionario di libertà in contrapposizione al liberalismo e al burocratismo di una rivoluzione dall’alto: “ogni livello o tipo di civiltà ha un suo ‘individualismo’, cioè ha una sua peculiare posizione e attività del singolo individuo nei suoi quadri generali. Questo ‘individualismo’ italiano (..) è proprio di una fase in cui i bisogni più immediati economici non possono trovare soddisfazione regolare permanentemente. (..) Si pone il problema storico-politico: una tale situazione può essere superata coi metodi dell’accentramento statale (scuola, legislazione, tribunali, polizia) che tenda a livellare la vita secondo un tipo nazionale? Cioè per un’azione che scenda dall’alto e che sia risoluta ed energica? Intanto si pone la quistione del come formare il gruppo dirigente che esplichi una tale azione: attraverso la concorrenza dei partiti e dei loro programmi economici e politici? attraverso l’azione di un gruppo che eserciti il potere monopolisticamente? Nell’un caso e nell’altro è difficile superare l’ambiente stesso, che si rifletterà nel personale dei partiti, o nella burocrazia al servizio del gruppo monopolistico, poiché se è pensabile la selezione secondo un tipo di pochi dirigenti, è impossibile una tale selezione ‘preventiva’ delle grandi masse di individui che costituiscono tutto l’apparato organizzativo (statale ed egemonico) di un grande paese. Metodo della libertà, ma non inteso in senso ‘liberale’: la nuovo costruzione non può che sorgere dal basso, in quanto tutto uno strato nazionale, il più basso economicamente e culturalmente, partecipi ad un fatto storico radicale che investa tutta la vita del popolo e ponga ognuno, brutalmente, dinanzi alle proprie responsabilità inderogabili” (6, 162: 814-16).
[4] Da questo punto di vista, significative sono le considerazioni di Gramsci sulla necessità della rivoluzione in Cina: “la monarchia assoluta è fondata in Cina nell’anno 221 avanti Cristo e dura fino al 1912, nonostante il mutare di dinastie, le invasioni straniere, ecc. Questo è il punto interessante; ogni nuovo padrone trova l’organismo bello e fatto, di cui si impadronisce impadronendosi del potere centrale. La continuità è così un fenomeno di morte e di passività del popolo cinese. Evidentemente anche dopo il 1912 la situazione è rimasta ancora relativamente stazionaria, nel senso che l’apparato generale è rimasto quasi intatto: i militari tuciun si sono sostituiti ai mandarini e uno di essi, volta a volta, tenta di rifare l’unità formale, impadronendosi del centro. L’importanza del Kuomintang, sarebbe stata ben più grande se avesse posto realmente la quistione della Convenzione pancinese. Ma ora che il movimento è scatenato, mi pare difficile che senza una profonda rivoluzione nazionale di massa, si possa ricostruire un ordine duraturo” (5, 23: 564).