La politica è l'unico mezzo umano per liberarci.
I padroni lo sanno bene e cercano di addormentarci.
Ci portano il vino, la televisione e i giradischi, macchine e altri generi di oppio.
Noi compriamo e consumiamo.
Serviamo ad aumentare la ricchezza padronale e a distruggere la nostra intelligenza
(Lettera al sindaco scritta dagli studenti della scuola 725)
Non vi posso raccontare chi fosse don Roberto Sardelli: Altri magari lo stanno già facendo e andranno letti per non smarrire un’esperienza preziosa di chi ha conosciuto a lungo l’uomo morto il 18 febbraio scorso. Io vi scriverò ciò che ho visto e ciò che ho appreso…
L’ho incontrato tre sole volte nell’arco degli ultimi 13 o 14 anni. Ma queste poche occasioni sono stati momenti colmi di significato: uno sguardo penetrante, un portamento diritto, parole semplici che riportavano a tempi e a temi classici per chi si professa di sinistra, per un comunista. La voce dolce del prete parlava di battaglie per la casa, per il diritto alla cultura degli ultimi, della necessità di un pensiero critico per non adagiarsi nell’ambito sempre più soffocante dell’attuale società capitalistica, della speranza del comunismo: sì del comunismo che per l’oratore evidentemente non aveva alcuna contraddizione con il cristianesimo più autentico.
Il contesto in cui avvennero quegli incontri (due in iniziative politiche a Genzano, in provincia di Roma; uno per organizzare la seconda occasione, in casa sua in via Montecuccoli a Roma) era già molto deprimente per un militante politico. L’atmosfera era già avvelenata dalla sensazione che l’impegno fosse divenuto nel migliore dei casi un gioco di società, un piccolo palcoscenico per l’esibizione di doti oratorie. Era l’epoca dell’Ulivo, della disattesa costante dei bisogni e delle attese delle classi popolari, del distacco crescente tra la cosiddetta base e l’azione degli eletti nelle istituzioni. Si facevano manifestazioni in difesa dell’articolo 18, ma ci si ingegnava a indebolire ogni tutela per i lavoratori, a dividerli; si tenevano manifestazioni per la pace, ma ci si acconciava poi a supportare in qualche modo le guerre imperialiste.
Roberto Sardelli era invece un conduttore umano di passione civile, sociale, quindi, politica. Non c’era traccia in lui di pietismo, di carità per il debole intesa come esercizio ginnico che implica il piegarsi del più forte verso uno che sta più in basso. C’era invece, forte, fortissima, la passione per l’uomo che vuole proprio il subalterno in piedi, cosciente dei propri diritti, in grado di battersi per ottenerne il riconoscimento. Roberto per noi, per i compagni che lo incontrarono, per le persone che lo videro intervenire fu galvanizzante, fu la riscoperta delle ragioni delle scelte che avevamo fatto. Fu il monito ad attenersi a quanto deciso.
La scelta di campo
Roberto Sardelli non era di origine umile, come si usava dire tanto tempo fa. La sua vita è stata pertanto un prendere parte, fare delle scelte, schierarsi. Parteggiare come preferiva dire Gramsci. Certo, degli incontri lo avranno ispirato… immagino che la lezione di don Lorenzo Milani per lui sia stata importante e così il pensiero di Teilhard de Chardin, ma le scelte sono sempre personali. Richiedono sempre la necessità di accettare una sfida, una chiamata. Per Roberto la chiamata venne dal quadrante sud di Roma, zona Tuscolana, parrocchia di San Policarpo, dai baraccati dell’Acquedotto Felice. L’anno era fatidico: era il 1968.
Lui era entrato in seminario nel ’60, nel ‘65 era divenuto sacerdote. Nella parrocchia di periferia scoprì un’umanità diversa. Appoggiate alle mura dell’acquedotto romano c’erano delle baracche, dove viveva in condizioni precarie un cospicuo numero di immigrati dal meridione: senza servizi igienici, senza riscaldamento, senza acqua, senza luce. Sardelli decise di andare a vivere con loro, ma non solo per condividere cristianamente una “croce”, ma per aiutare quei poveri, quei proletari nel senso letterale della parola, a lottare, a mobilitarsi per i propri diritti. Lì fondò la Scuola 725, chiamata così dal numero della baracca che veniva utilizzata allo scopo.
“Il luogo dove viviamo è un inferno. l'acqua nessuno può averla in casa. La luce illumina solo un quarto dell'Acquedotto. Dove c'è la scuola si va avanti con il gas. L'umidità ci tiene compagnia per tutto l'inverno. Il caldo soffocante l'estate. I pozzi neri si trovano a pochi metri dalla nostre cosiddette abitazioni. Tutto il quartiere viene a scaricare ogni genere di immondizie a 100 metri dalle baracche. Siamo in continuo pericolo di malattie. Quest'anno all'Acquedotto due bambini sono morti per malattie, come la broncopolmonite, che nelle baracche trovano l'ambiente più favorevole per svilupparsi” (lettera al sindaco di Roma, 1968).
Utilizzando lo strumento della scuola Sardelli portò “in visita” all’Acquedotto Felice il Vietnam, Malcom X, Gandhi, la lotta di classe. Fece in modo di costruire una scuola per chi nella scuola ufficiale, quella dello Stato, veniva emarginato, bocciato o stigmatizzato come ritardato mentale. Don Roberto fu tra i promotori della lotta per il diritto alla casa che alla fine condusse i baraccati a ottenerne una. Nel mezzo ci saranno la “Lettera al sindaco”, il giornale ciclostilato “Scuola 725” diffuso per il borgo e il libro “Non tacere”, che doveva servire da testo autoprodotto al posto di quello (inutile) del ministero. E poi una metodologia di lavoro: discussioni assembleari, linguaggio semplice reso in immagini, in disegni.
Per continuare a non tacere…
Dopo l’Acquedotto, l’impegno è proseguito in altre forme. La collaborazione giornalistica con “L’Unità”, “Paese Sera”, “Liberazione”; l’interesse per le tradizioni dei Rom e per la danza del Flamenco; la cura degli ammalati di Aids e poi sempre la politica come “arnese” per la liberazione degli oppressi attraverso la riscoperta dell’esperienza della “Scuola 725” fatta dal regista Fabio Grimaldi con il documentario “Non Tacere” che nel 2008 vinse il “Festival Arcipelago”. Il documentario fu uno degli strumenti con il quale don Sardelli portò la sua esperienza a contatto con i giovani in tanti dibattiti nelle scuole (e con noi compagni della provincia più vicina a Roma) sulle nuove povertà e sulla necessità dell’impegno politico. L’altro fu la stesura di una nuova lettera, da parte dei suoi ex allievi, che nel 2007 scrissero “Per continuare a Non Tacere, contributo per un rinnovato governo della città”.
Il cristiano. Il comunista
Don Roberto è stato questo e di sicuro molto altro per chi l’ha conosciuto meglio di me. Un lottatore indomito per i diritti delle classi popolari. Un cristiano. Un comunista. Non dava affatto la sensazione di avvertire la minima contraddizione tra le due qualificazioni: del resto come Camilo Torres, come Thomas Müntzer. Forse perché era certo che per conquistarsi l’aldilà, bisogna prima lottare per ottenere i propri diritti e sradicare la società di classe nell’aldiqua. Di certo, non si avvertiva in lui nessuna “alienazione”, ma invece sì un intimo collegamento alla vita più vera quella di chi deve conquistare ogni cosa, di chi oggi è niente, ma domani sarà tutto.
Ciao don Roberto, veglia su di noi…