Segue da parte I e da parte II
I movimenti sociali della fine degli anni sSssanta mettono in discussione l’ascesa della mafia
La “resistibile ascesa” dell’influenza della mafia sulla vita economica e politica del nostro paese è messa a rischio dallo sviluppo dei movimenti sociali nella seconda metà degli anni Sessanta e nella prima metà degli anni Settanta. La grande influenza di tali forze progressiste, quando non rivoluzionarie, sebbene non riesca a superare il modo di produzione capitalistico, sembra comunque in grado di realizzare lo Stato democratico progettato nella Costituzione e sistematicamente sabotato dall’inizio della guerra fredda. Al punto che persino la magistratura, fra le istituzioni maggiormente conservatrici, risente di questo mutamento epocale tanto che sorge una corrente democratica decisa a perseguire le attività criminose della malavita organizzata. Anche nei grandi mezzi di comunicazione si aprono spazi per lo sviluppo di un giornalismo d’inchiesta in grado di denunciare le più evidenti malefatte del potere costituito. Infine lo stesso senso di sconforto che s’era impadronito delle masse popolari meridionali, considerato che neppure la grande sconfitta del nazi-fascismo aveva realmente messo in questione il secolare stato di oppressione, viene rimesso in questione.
La mafia al centro del traffico internazionale di eroina
In tale situazione di estremo pericolo per l’estensione del potere della malavita organizzata, la mafia reagisce organizzando su scala allargata il traffico degli stupefacenti sul quale ha ormai il sostanziale controllo. Questi ultimi sono, in effetti, una vera e propria arma di distruzione di massa, atta a colpire duramente i movimenti giovanili delle classi subalterne. Essendo funzionale al controllo sociale, in un momento in cui i rapporti di proprietà sono messi seriamente in discussione, la mafia si ritaglia un ruolo decisivo nel traffico internazionale di stupefacenti. In tal modo ottiene ancora una volta la copertura dei poteri forti, che gli consentono di superare questi anni di risveglio della coscienza politica e sociale. Dunque, a partire dagli anni Settanta, la mafia prende il controllo in Europa dei traffici internazionali di droga.
L’oppio, di provenienza asiatica – la cui esportazione conosce un boom, dopo essere stato testato sui soldati statunitensi nel corso della guerra del Vietnam –, raggiunge la Sicilia dove viene raffinato per essere trasformato in eroina e venduto in tutto il mondo. Soprattutto questa attività, da quando la mafia diviene il principale fornitore degli Stati Uniti – dove la droga è ampiamente diffusa per riprendere il controllo dei ghetti in rivolta nel corso degli anni Sessanta –, assicura alla malavita organizzata il controllo di ingenti risorse finanziarie. Queste ultime divengono ben presto capitali in grado di trovare investimenti molto redditizi nel settore dell’edilizia (il sacco di Palermo) e delle speculazioni finanziarie (il riciclo del denaro sporco nelle banche elvetiche), incidendo in modo significativo sulla progressiva finanziarizzazione dell’economia italiana.
Tale finanziarizzazione delle attività della mafia conosce un ulteriore sviluppo nel momento in cui, con il reflusso dei movimenti sociali di massa, l’eroina viene progressivamente sostituita dalla cocaina – una droga più adeguata alla nuova fase di restaurazione liberista – prodotta e lavorata in America meridionale. Da allora la mafia punta essenzialmente sul controllo delle scommesse e del gioco di azzardo.
La restaurazione violenta del potere della mafia negli anni del riflusso
Dalla fine degli anni Settanta, quando inizia il riflusso dei grandi movimenti sociali che avevano costretto sulla difensiva le stesse forze della mafia, si assiste a una rapida riconquista da parte della mafia delle posizioni che era stata costretta ad abbandonare. A tale scopo la mafia deve mettere in condizioni di non nuocere in primo luogo quelle avanguardie, che ne avevano messo in discussione il potere conquistando a loro volta posizioni all’interno dello Stato borghese. Tali forze erano in buona parte egemonizzate da quei partiti della sinistra tradizionale – in primis il Pci – che avevano abbandonato la prospettiva di abbattere lo Stato capitalista attraverso un processo rivoluzionario, mirando piuttosto a riformarlo dall’interno. In secondo luogo la mafia colpisce le avanguardie che ne avevano messo in discussione il potere nella prospettiva di un rivolgimento generalizzato dello Stato borghese – come, ad esempio, Peppino Impastato trucidato nel 1978 – egemonizzate dalla “nuova sinistra” antiparlamentare.
Si intensificano, così, gli attentati della mafia volti a creare un clima di terrore per isolare chi si oppone alla sua riconquista del controllo sul territorio, attentati che colpiscono tanto i settori democratici della magistratura e degli stessi apparati repressivi dello Stato, quanto esponenti della sinistra “extraparlamentare”. Il sacrificio di chi si è opposto alla resistibile riconquista del potere della mafia non è stato vano, in quanto ha dato un contributo decisivo a far divenire le masse popolari consapevoli del pericolo costituito dalla malavita organizzata, sconfiggendo definitivamente il tentativo dell’ideologia dominante di presentare la potenza della mafia come il prodotto della fantasia di complottisti o della “malafede” dei comunisti.
L’istituzionalizzazione della mafia a garanzia della pace sociale
Allo stesso tempo consapevole che il potere – soprattutto in un paese in cui si è sviluppata un’ampia società civile – oltre che sul monopolio della violenza si fonda sulla capacità di egemonia, la mafia ha portato avanti, con rinnovata energia, la sua progressiva istituzionalizzazione, sistematizzando non solo la propria capacità di controllo sulle istituzioni attraverso minacce e corruzione, ma la propria capacità di infiltrare con propri uomini anche i settori di rilievo delle istituzioni e della società civile.
Inoltre la mafia rinnova la propria capacità di egemonia sui settori conservatori della classe dirigente e dominante, presentandosi come un necessario fattore di ordine e controllo sociale su quella plebe moderna, particolarmente consistente nel sud, che non ha nulla da guadagnare dalla conservazione del sistema sociale esistente. Quindi, al contrario di quanto tende a far credere l’ideologia dominante – da quando non ha più potuto evitare di denunciare le più palesi malefatte della malavita organizzata – la mafia non costituisce una minaccia dell’ordine costituito.
Proprio per questo non è affatto combattuta fino in fondo, come le forze che miravano a sovvertire la società capitalista, ma è sostanzialmente tollerata da parte significativa delle classi dominanti e dirigenti come strumento di controllo sociale. Come scopriranno a proprie spese prima il generale Dalla Chiesa, poi il giudice Borsellino, la classe dominante non mira a debellare la mafia, quanto piuttosto a trattare, in modo più o meno conflittuale, forme di coesistenza per quanto possibile pacifica.
Il rapporto dialettico fra la mafia e le classi dominanti
Inoltre i confini fra la classe dominante e la mafia non sono affatto netti e rigidi, in quanto da una parte la componente più “politica” della mafia tende – una volta portata a termine la fase oscura e fuorilegge dell’accumulazione primitiva – a “imborghesirsi”, ovvero a entrare a far parte in modo diretto della classe dominante. D’altra parte i settori più conservatori della classe dirigente tendono a stabilire rapporti di collaborazione con la mafia, come con la destra eversiva, sulla base del principio che il nemico del mio nemico può divenire, almeno tendenzialmente, mio amico. Tale cooperazione con i settori della mafia – che non hanno ancora portato a termine e occultato la fase oscura dell’accumulazione primitiva – non può che avvenire “dietro le quinte”.
Da questo punto di vista un ruolo importante svolgono le logge massoniche segrete – come la più conosciuta, la P2 – in cui si ricompattano le diverse articolazioni legali e illegali del blocco della reazione: imprenditori, banchieri, militari, poliziotti, giornalisti, politici, magistrati, esponenti della destra eversiva e mafiosi. Unendo le forze essi miravano a mettere all’angolo le forze del progresso, per riportare le istituzioni dello Stato – sempre più “contaminate” dalle ideologie socialiste e democratiche, a causa delle lotte dei movimenti sociali – alle tradizionali forme liberali, in cui impera la logica privatistica del profitto.
Tale unità di azione delle forze al potere, dinanzi alla crescente disarticolazione del movimento dei lavoratori, porta al progressivo intensificarsi dello sfruttamento, con il conseguente aumento del plusvalore e del profitto in rapporto ai salari. Dal momento che la cupola della mafia – grazie alla sua rinnovata capacità di controllo del territorio – è in grado di partecipare in misura crescente alla spartizione del profitto fra gli sfruttatori della forza-lavoro, tende a cooperare con la borghesia per la sua massimizzazione. Al contempo, però, si alimentano, a causa della tendenziale caduta del tasso del profitto, i conflitti interni alle classi dominante e fra esse e la mafia.
La coesistenza pacifica fra mafia e Stato
Così, ad esempio, la mafia garantisce la pace sociale alla classe dominante che, per tutelare la copertura legale dei rapporti di proprietà a lei favorevoli, non può permettersi di condurre in modo apertamente illegale il conflitto sociale, anche perché più difficilmente potrebbe giustificare la repressione delle classi subalterne nel momento in cui mettono in discussione l’ordine costituito. Così il lavoro sporco della provocazione è lasciato alla destra eversiva, quello della repressione illegale a destra eversiva e malavita organizzata, quello della garanzia della pace sociale e del controllo sul suffragio universale alla mafia.
Nel momento in cui quest’ultima aumenta troppo le proprie rivendicazione sul profitto da spartirsi – in nome della cooperazione nello sfruttamento della forza lavoro – non può che alimentare la conflittualità latente con gli altri settori della classe dominante. Da qui il rilievo dato, grazie al controllo dei mezzi di comunicazione di massa, agli imprenditori vittime di persecuzioni da parte della mafia, in quanto si sono rifiutati di consegnare una parte eccessiva del profitto ai malavitosi. Così, tali vittime della classe dominante sono esaltate post mortem o sono tutelate nel momento in cui riescono a rendere pubbliche le violenze subite per non aver accettato “pizzi” troppo salati – tanto più che le misure di sicurezza sono pagate dalla fiscalità generale e consentono alle strutture repressive dello Stato di presentarsi come tutrici della libertà della società civile e dello spirito di impresa dinanzi alla violenza di chi si pone contro l’ordine costituito.
Tuttavia, non si procede a una reale tutela di chi si oppone al sistema del pizzo e generalmente non si prevengono le violenze della mafia che colpiscono in particolare i piccoli imprenditori, a meno che non riescano a sfondare il muro di omertà, di cui sono generalmente parte integrante i mezzi di comunicazione di massa. Tanto più che buona parte degli imprenditori, ormai non solo in Sicilia o nell’Italia meridionale, finisce per tollerare la coesistenza pacifica del proprio Stato con la mafia, finendo con il considerare il “pizzo” come una tassa certo fastidiosa, ma in ultima istanza necessaria al mantenimento del sistema. Le regole non scritte della coesistenza pacifica portano persino diversi imprenditori – per il timore di mettersi in cattiva luce dinanzi alla criminalità organizzata, e consapevoli della volontà di ampi settori delle forze dell’ordine di mantenere la coesistenza pacifica – a boicottare le imprese sottratte al controllo diretto della mafia e divenute proprietà dello Stato.
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