Il nuovo fallimento diplomatico e l’intifada del 2000
L’accordo Oslo II del 1995, il memorandum di Wye del 1998 e il piano Clinton del 2000 sono stati fallimentari. L’assassinio di Rabin (laburista) nel 1995 da parte della destra sionista e la successiva elezione da parte della destra guerrafondaia di Nethanyau (Likud, contrario a uno Stato palestinese) ha segnato la fine degli accordi. Ciò ha finito con lo screditare sempre più la leadership laica di Al Fatah di Arafat che si era fatta garante degli accordi di pace, favorendo il crescere della popolarità dei gruppi islamici e, in particolare, di Hamas legato ai fratelli musulmani. Dopo l’omicidio di Rabin e l’indebolimento di Arafat, accusato tanto di essere collaborazionista dalle forze politiche rivali, quanto di essere troppo rigido da una parte dei suoi, il processo di pace si è arrestato.
In una situazione già tesa, la provocazione del leader della destra sionista Sharon, che passeggia sulla spianata delle moschee a Gerusalemme, luogo sacro dei musulmani, nel 2000 scatena la rabbia dei palestinesi che avevano continuato a subire pacificamente l’occupazione israeliana nella vana attesa dell’accordo di pace. Inizia la cosiddetta seconda intifadah, una rivolta generalizzata dei palestinesi, che cade nella provocazione dei suoi avversari, rispondendo alla durissima e sanguinosa repressione sionista, con le armi. Su questo terreno i palestinesi non potevano che essere sconfitti, visto l’enorme potenza dell’esercito israeliano, sostenuto dalle maggiori potenze occidentali. La disperazione e le violenze subite portarono i palestinesi a cercare di reagire, sino al 2005, con attentati suicidi in Israele, che hanno favorito l’affermarsi in questo paese delle forze più oltranziste, alienando in parte il consenso internazionale nei confronti del popolo palestinese. Da parte sua Israele ha preferito portare avanti una durissima repressione dell’autorità nazionale palestinese laica, piuttosto che delle forze islamiste in larga parte responsabili degli attentati.
Il muro simbolo dell’apartheid
Ciò aliena ancora di più in occidente le simpatie per i palestinesi, consentendo ai sionisti di realizzare a partire dal 2002 un enorme muro (deciso dal governo di destra di Sharon) alto e sorvegliatissimo, con fossati filo spinato e barriere di cemento, posto ai confini con la Cisgiordania per 700 Km, che limita gravemente la libertà di movimento degli arabi che lo percepiscono come il muro dell’apartheid e che ha finito con il rinchiudere gli abitanti di Gaza in una enorme prigione a cielo aperto separandoli dalla Cisgiordania e separando i palestinesi dei territori occupati da quelli che vivono, non senza difficoltà, nello stato sionista di Israele. Ciò ha impedito ai palestinesi di compiere i loro attentati e ha convinto la dirigenza sionista a evacuare le colonie nella striscia di Gaza, nel 2005, la cui difesa era ormai troppo costosa.
La guerra tra fazioni palestinesi e la nuova invasione del Libano
Dopo la morte di Arafat nel 2004, le divisioni tra Anp e Hamas si approfondiscono e nel 2007 si arriva a una completa rottura: Hamas prende il controllo di Gaza, mentre l’Anp mantiene il governo della Cisgiordania.
Dal canto suo Israele invade nuovamente il Libano nel 2006 con lo scopo di debellare le milizie di Hezbollah, che lanciavano razzi rudimentali dal confine.
In seguito, con la scusa di stroncare il lancio dei missili da parte di Hamas (che hanno causato pochi danni al nemico), Israele colpisce duramente Gaza nel 2008 e nel 2014 con incursioni aeree e di terra che fecero migliaia di vittime.
L’accordo del secolo, l’accordo di Abramo e lo scontro tra Israele e Hamas
Dal testo “Peace to Prosperity”, ossia il nome ufficiale della proposta di pace Usa per il Medio Oriente, anche nota come “accordo del secolo” (2020) emergono almeno quattro punti critici: 1) Israele mantiene la stragrande maggioranza di Gerusalemme come sua capitale sovrana e indivisa, lasciando ai palestinesi la periferia della città come loro capitale; 2) i palestinesi non vedono riconosciuto alcun diritto al ritorno dei profughi; 3) vengono ridisegnati i confini principalmente tra Israele e Cisgiordania, con i primi che annettono anche la valle del fiume Giordano, un’area fertile che rappresenta circa il 30% del territorio stesso, in cambio di piccole aree desertiche nel Negev vicino al confine con il Sinai e alcuni villaggi; 4) è sancita la creazione di uno stato smilitarizzato per i palestinesi.
A questi elementi meramente politici si affiancano le disposizioni economiche che prevedono, tra le altre cose, investimenti per 50 miliardi di dollari nei Territori occupati, senza spiegare bene come e dove verranno investiti questi fondi e senza affrontare i problemi esistenti sul terreno, come la situazione umanitaria al collasso nella Striscia di Gaza o la scarsa libertà di circolazione dei palestinesi in Cisgiordania.
Al di là della retorica sulla “svolta storica” in grado di garantire pace e stabilità al Medio Oriente intero, il piano non sembra prefigurarsi come un atto “equo” o “super-partes”, né tantomeno sembra essere orientato a favorire una negoziazione futura nella quale inscrivere le trattative vere e proprie tra le delegazioni israeliana e palestinese. Il documento finale, quindi, sembra fortemente improntato a favorire le istanze pro-israeliane, ignorando, sostanzialmente, le rimostranze palestinesi. Un esempio concreto di ciò è il riconoscimento degli insediamenti ebraici come parte integrante della territorialità israeliana, lasciando alla futura entità statale palestinese uno spezzatino territoriale non continuo geograficamente e più simile a delle enclaves in territorio israeliano. L’intero accordo, infine, non riconosce in maniera chiara il ruolo che potranno assumere i palestinesi nella gestione economica e politica e su quali territori si eserciterà. In altre parole, la proposta di “pace” statunitense enfatizza e celebra le necessità di sicurezza israeliana, sacrificando il diritto palestinese all’autodeterminazione.
L’interpretazione di Pappè de l’“accordo del secolo”
L’“accordo del secolo” di D. Trump del 2020, insieme alle politiche messe in atto da B. Netanyahu, costituisce, secondo lo storico Pappè, una vera minaccia per l’esistenza, un attacco combinato alla Palestina e al suo popolo con effetti deleteri quanto la Nakba del 1948. Il piano rappresenta un tentativo di depoliticizzare la questione palestinese e trattarla come un problema umanitario e economico che può essere risolto attraverso finanziamenti arabi e con la benedizione statunitense. L’“accordo del secolo” rappresenta inoltre la legittimazione finale del sionismo come movimento coloniale di insediamento.
Gli Usa non sono mai stati un onesto mediatore, tuttavia le diverse amministrazioni erano vincolate dal diritto internazionale e, quindi, hanno dovuto riconoscere l’illegittimità degli insediamenti israeliani, i tentativi di annessione e le sistematiche violazioni dei diritti umani, anche se ciò non si è mai tradotto in una politica concreta o di pressione su Israele affinché cambiasse il suo comportamento criminale.
Dall’inizio di questo secolo, e in particolare nell’era Netanyahu (eletto per la seconda volta nel 2009), il divario tra dichiarazioni e fatti è iniziato a ridursi e le azioni sul campo hanno iniziato ad essere appoggiate pubblicamente da entrambe le parti, fino all’accordo del secolo che dà la benedizione ufficiale per le azioni unilaterali di Israele nella Palestina storica. Tra l’altro gli Usa hanno riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, trasferendovi l’ambasciata. A ciò è seguito il riconoscimento ufficiale delle alture del Golan e la legalità degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, quindi l’immunità per le future politiche di Israele (legittimazione dell’uso della forza) all’interno della Palestina storica.
Del resto, già a partire dal 2010 la Knesset, il parlamento israeliano, ha preso dei provvedimenti aggressivi e razzisti che discriminano i palestinesi da entrambi i lati dalla linea verde (confine del 1949 tra Israele e Cisgiordania, oltrepassato da Israele nel 1967) in ogni aspetto della loro vita: che si tratti di trovare un lavoro, una casa, di diritti civili, accanto alle continue espropriazioni di terre, punizioni collettive, restrizioni di movimento. Queste discriminazioni sono culminate con la legge sulla nazionalità israeliana nell’estate del 2018: una legge di apartheid che riconosce gli ebrei come unico gruppo nazionale detentore del diritto di autodeterminazione. Il testo incoraggia i futuri governi a continuare la colonizzazione e i confini finali non sono menzionati. Questa legge declassa i cittadini palestinesi all’interno di Israele a minoranza linguistica e non a comunità nazionale. Questa è una legge fondamentale e visto che Israele non ha una costituzione ha valenza costituzionale, in quanto legittima a posteriori le politiche già messe in atto e delinea il futuro stato di Israele come uno Stato di apartheid istituzionalizzata. Vari settori della società civile globale non sono rimasti indifferenti a queste azioni e le hanno condannate. Gli organi ufficiali di Israele hanno reagito prendendo di mira la memoria e la narrazione collettiva palestinese, chiudendo gli archivi israeliani che ospitano i documenti sulla Nakba (la catastrofe del 1948). Tuttavia, la minoranza palestinese in Israele sa come proteggere e promuovere la memoria della Nakba e non ha certo bisogno della documentazione israeliana per confermare la propria esperienza di pulizia etnica. D’altra parte, è implicito nell’esistenza di Israele come stato coloniale il tentativo di nascondere le prove dei suoi atti di eliminazione dei nativi (come fanno tutti i movimenti coloniali), in particolare in un’epoca che guarda con disapprovazione al colonialismo. La pulizia etnica della Palestina del 1948 e il tentativo di cancellarne la memoria sono parte integrante della stessa strategia di eliminazione.
L’”accordo del secolo” e l’annessione che esso prefigura di parte o dell’intera area C degli accordi di Oslo, pari al 60% della Cisgiordania, sono i tasselli contemporanei di quel progetto, che mira a privare i palestinesi dei diritti politici e a continuare la giudaizzazione della Cisgiordania. Chiudere gli archivi vuol dire anche chiudere per sempre la questione palestinese; una Palestina depoliticizzata non è autorizzata a una narrazione storica che miri alle richieste politiche di uno Stato. Questo stato di cose è tra l’altro stato anticipato da Trump con la chiusura della sede dell’Olp a Washington, lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme, la sospensione dei fondi Usa all’Unrwa (agenzia Onu per il soccorso dei rifugiati palestinesi nel Vicino oriente), il riconoscimento pubblico degli insediamenti israeliani nei territori occupati, definiti illegali dal diritto internazionale.
Per gli israeliani, tra l’altro, l’accordo significa una legittimazione in anticipo dell’annessione di tutta l’area C degli accordi di Oslo a Israele. Ma questa parte del piano è stata bloccata dai due accordi di pace con Emirati arabi uniti e Bahrain. L’intesa, nota come accordo di Abramo, agosto del 2020, prevedeva protocolli bilaterali su commercio internazionale, sicurezza, difesa, energia, turismo, tecnologia e una normalizzazione nei rapporti con Israele), in cambio della promessa israeliana di posticipare l’annessione. Tuttavia, alcune zone sono state già oggetto di pulizia etnica (valle del Giordano, area a sud di Gerusalemme, ecc.).
La situazione non è cambiata con l’amministrazione Biden che all’assemblea generale dell’Onu nel settembre del 2021 ha dichiarato che continua a credere a una soluzione a due Stati ma “che siamo molto lontani da quell’obiettivo al momento”, ciò vuol dire che lo status quo e la sistematica violazione dei diritti non viene messa in discussione. Infatti, durante l’ennesimo bombardamento di Gaza nel maggio del 2021, Biden ha sottolineato il diritto di Israele all’autodifesa, come sempre è solo Israele ad avere diritti.
Nel maggio del 2021 è infatti ripreso lo scontro armato. Dopo 11 giorni di battaglia, l’esercito israeliano ha ucciso con le incursioni aeree 243 palestinesi (65 bambini); gli israeliani morti a causa dei razzi rudimentali di Hamas (che vengono intercettati dal sistema di difesa Iron dome) sono stati 12, per un rapporto di un israeliano ogni 20 palestinesi (ciò non ha avuto spazio nei media occidentali che anzi hanno parlato di legittima difesa, quando la legittima difesa dovrebbe sempre essere proporzionata all’offesa).