Con la V lezione, dal titolo Internazionalismo: unica alternativa praticabile tra sovranismo e globalismo, si dà inizio alla seconda sezione del corso sul marxismo, che riguarderà argomenti di attualità, e servirà a cercare di capire che cosa voglia dire essere marxisti nei tempi correnti; riteniamo infatti che pensare alla storia del marxismo soltanto in un contesto passato, per quanto importante, renda difficile capire la concretezza dell’analisi e dell’azione pratica odierna.
Fino a ora si sono trattate l’origine del marxismo, in maniera molto sintetica: come abbiamo avuto modo di vedere le figure significative dal punto di visto teorico e pratico sono moltissime.
Per semplicità, e perché li riteniamo indispensabili nelle quattro lezioni precedenti, si è deciso di trattare Marx ed Engels, Lenin e Gramsci.
Lezione:
In questa lezione, tenuta dal docente Francesco Cori, abbiamo analizzato una connessione variegata di argomenti, che corrono sulla linea della storia moderna, svolgendo l’analisi in senso marxista, ovvero vendendo ogni cosa in funzione del suo sviluppo storico e non in senso astratto: determinandola sulla base di una precisa organizzazione sociale, ovvero di determinati rapporti di potere.
Siamo partiti ricercando ispirazione negli eventi storici, specialmente europei, che hanno dato vita e ancora caratterizzano il mondo contemporaneo, consapevoli comunque che, come avviene per tutti i grandi cambiamenti, le ragioni degli stravolgimenti storici così importanti come quelli di cui abbiamo parlato sono molte e troppo complesse per essere trattate in una sola lezione. Con questa consapevolezza, abbiamo tentato di trovare il giusto compromesso tra una spiegazione comprensibile a chiunque e un approfondimento necessario per capire meglio alcuni aspetti delle questioni affrontate.
Come si sa dai tempi della scuola secondaria di secondo grado, la crisi del rapporto tra borghesia e monarchia assoluta esplose in Francia nel 1789; accendendo una delle più famose rivoluzioni che la storia ricordi.
Si tratta di un evento così importante e clamoroso da determinare ripercussioni in tutta l’Europa e in ultima istanza in tutto il mondo. In essa irrompono per la prima volta nella Storia le masse popolari, capeggiate dalla borghesia e ispirate dall’ideale della “nazione”.
Gli interessi particolari della borghesia si elevavano a interessi generali. L’universalismo della rivoluzione si vede bene nella presa della Bastiglia, ma si supera già con la presa del potere da parte di Napoleone, che assume un atteggiamento espansionistico e tenta di esportare i frutti ideologici della rivoluzione in tutta Europa.
Questo atteggiamento da conquistatore mette in luce una prima ambiguità tra interesse generale (concetto di nazione) ed espansionismo di carattere militare.
Il rapporto tra questione nazionale e internazionale nella presa del potere si pone anche nei padri del marxismo, che capiscono come la politica sia un affare nazionale che si costituisce all’interno di una dimensione internazionale, che è quella del mercato globale. Dicono Marx ed Engels: “Si rimprovera inoltre ai comunisti di voler sopprimere la patria, la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può toglier loro ciò che non hanno. Ma poiché il proletariato deve conquistarsi prima il dominio politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, è anch’esso nazionale, benché certo non nel senso della borghesia”. [1]
Nonostante questa grande lezione, per trovare il più grande partito che riuscirà a cogliere il rapporto della questione nazionale e le crisi internazionali bisognerà aspettare ancora mezzo secolo. È il partito bolscevico.
Nella rivoluzione bolscevica, proprio come in Marx ed Engels, sono forti gli echi della Francia: anche i bolscevichi (come i giacobini prima di loro) considerano se stessi come gli interpreti degli interessi di tutte le classi sfruttate.
Questo aspetto universalizzante si ritrova in Lenin, che riesce in questo intento di connessione delle classi sfruttate sotto la guida del proletariato, grazie a un’alleanza con i contadini. I subalterni che rappresentano la nazione contrapposti ai borghesi che invece rappresentano un’élite.
Dopo la rivoluzione anche i bolscevichi auspicheranno una rivoluzione di carattere mondiale, che poi non avverrà e porterà a ciò che è successo in Unione Sovietica e al corso degli eventi che già è noto.
Anche qui vediamo come la tendenza all’internazionalismo e la difesa in un certo senso delle conquiste della rivoluzione e quindi dello Stato da essa generato abbiano dei tratti dialettici.
Ci spostiamo in Italia: questa riflessione sulle classi sfruttate e sulla questione nazionale assume nella storia del marxismo anche dei tratti specificamente nazionali (si pensi alla questione del Mezzogiorno dove il problema dei contadini è il problema delle masse arretrate del Sud che non hanno un’organizzazione).
Grande interprete italiano di queste questioni è Gramsci, che scrive nei suoi Quaderni del carcere di una grande quantità di argomenti. Riflettendo sul Risorgimento, Gramsci studia il perché il presidente del Consiglio Crispi (che è un ex garibaldino, con una posizione di Stato forte e che sarà poi l’artefice del protezionismo) si sia impegnato in aspre campagne coloniali, trovando la causa nel tentativo di risolvere la questione coloniale non sul proprio terreno ma in modo espansivo, conquistando colonialmente nuovi territori dando la terra ai contadini.
Non manca però nell’analisi di Gramsci (di cui abbiamo parlato approfonditamente nella scorsa lezione) neppure la considerazione che serva svolgere un lavoro fondamentalmente nella formazione di nuovi intellettuali per contrastare quegli intellettuali tradizionali, quali Croce e Gentile, che portavano le masse contadine verso gli interessi dei latifondisti.
Gramsci non abbandona mai la questione nazionale e già prima di andare in carcere, analizzando in alcuni articoli la Rivoluzione d’ottobre, vede tanto la tendenza al conflitto e la complessa situazione internazionale quanto, contrapponendosi in questo ai bordighisti e massimalisti vari, la condizione oggettiva della società italiana, opponendosi quindi all’illusione di una presa del potere da fare “domani”. Anche più tardi, nei Quaderni, Gramsci rifletterà sul fallimento del biennio rosso e sulle condizioni necessarie a produrre l’intellettuale collettivo, capace di unire il blocco sociale che deve rendersi espressione di un interesse generale (ovvero interesse della maggioranza degli sfruttati).
Giunge poi in Gramsci una critica fortissima al cosmopolitismo, perché egli ritiene che la società italiana sia fondamentalmente cosmopolita (il riferimento in particolare è alla chiesa e a Croce). Parlando della chiesa Gramsci nota in particolare come non sia legata agli interessi nazionali ma faccia riferimento a un’entità di natura universale, fin dall’epoca medievale dei potentati locali e dell’inesistenza di Stati nazionali.
Concluso questo primo blocco di discussione che ha riguardato l’inizio dell’epoca contemporanea, per arrivare ai giorni nostri, si è discusso della caduta del muro di Berlino in Europa e dell’affermazione dell’Unione Europea a partire dalla Comunità Economica Europea e la moneta unica.
Queste questioni così significative si sono discusse anche perché ancora oggi sono elemento di grande confusione tra i lavoratori e gli intellettuali e soprattutto nella sinistra.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’Europa, per la prima volta, invece di sottomettere altri territori, si troverà sottomessa e dovrà decidere a quale parte del globo sottostare: o dalla parte dell’Ovest (Stati Uniti), o dalla parte dell’Est (Urss).
Questo processo si sviluppa mentre le grandi potenze europee stanno subendo un processo di perdita delle colonie.
Gli Stati Uniti d’America non vedono la nascita di una qualche alleanza europea (che inizialmente è un mercato comune) in maniera negativa, e questo per via delle condizioni delle potenze europee all’indomani della Seconda guerra mondiale: la Germania è particolarmente debole dopo la dopo la Seconda guerra mondiale ed è sostenuta finanziariamente, in modo particolare, dagli Stati Uniti stessi, attraverso il piano Marshall, il quale ha come obiettivo quello di aiutare le classi dominanti europee a mantenere il potere facendo concessioni e anche gli Stati Uniti ad avere un mercato di sbocco. È per questo quindi che l’ipotesi di una Unione Europea che sia unione a partire dal mercato comune europeo e dal rafforzamento dei legami tra Francia e Germania è ben vista dagli Stati Uniti e dalle classi dirigenti.
Mantenendo quanto detto in linea generale, non bisogna pensare che manchino attriti tra Francia e Germania, che invece ci sono poiché la Francia è uno stato coloniale in declino (ancora oggi le continue crisi e i conflitti in Francia sono determinati da questo processo) mentre la Germania, oltre a essere divisa, ha sempre avuto come importante mercato di sbocco l’Unione Sovietica, cioè i paesi dell’est Europa in modo particolare, motivo per cui si impegna continuamente a far cadere gli Stati vicini all’Urss, che hanno basi fragili.
All’indomani del 1989 e con la caduta del blocco sovietico il bacino di stati “europei” era ormai ampliato anche all’ex blocco sovietico, e si caratterizzava per una tendenza neoliberale (vedasi la scuola di Chicago). L’Ue nasce in queste circostanze sulla base del fatto che tutti i trattati debbano garantire la libera circolazione delle merci da una parte e la competizione degli Stati tra loro dall’altra.
Quindi, non è che l’Unione Europea elimini il concetto di Stato, ma introduce un meccanismo per cui gli Stati devono competere tra loro all’interno di un mercato comune; questo rende nella sostanza gli Stati (e tutto ciò che viene sotto come regioni e amministrazioni comunali) delle aziende che lottano tra loro per affermarsi nel mercato.
Questa situazione determinata dall’Unione Europea è sostanzialmente alla base del sovranismo.
Quindi che cosa succede?
L’Ue, in sintesi, si caratterizza come un progetto che è in parte acefalo e in parte privo di basi storiche, in quanto non nasce da una spinta popolare ma solo da una direzione che danno le élite borghesi strettamente legate agli Stati Uniti, al mondo della guerra fredda, dell’anticomunismo come paradigma concettuale, e all'interno del quale soprattutto è forte la spinta di due Stati: la Germania, che con l’unificazione riprende il proprio progetto di conquista dell’Europa, e la Francia.
Come marxisti quindi l’Unione Europea ci pone dei problemi, perché definisce un territorio istituzionale che non è quello basato sul piano nazionale.
Dibattito
Il dibattito si è sviluppato per ampie domande e ha permesso l’approfondimento della lezione. Cercheremo qui di riportarne gli snodi più importanti; lasciamo comunque disponibile a chi legge il link della lezione per approfondimenti.
Per rompere il ghiaccio, dal pubblico si chiede di specificare in che senso la chiesa sia cosmopolita e si domanda di specificare la differenza tra cosmopolitismo e internazionalismo.
Il docente Francesco Cori risponde dicendo che, prima della nascita dello Stato-nazione, il potere era disperso nei potentati locali (basta leggere I Promessi Sposi al riguardo), cioè il tratto che contraddistingueva l’aristocrazia e anche i progetti imperiali (per esempio quello di Federico Barbarossa, a proposito della concezione teocratica della chiesa) era che si basassero su una gestione locale del potere tra feudatari e signori.
L’affermazione dello Stato nazionale ha presupposto perciò l’indebolimento dell’aristocrazia.
Nel Medioevo, si è fatto notare, la chiesa rappresentava fondamentalmente il collante ideologico dei signori, gestito attraverso una fitta rete di vescovi: la dimensione all’interno della quale il sistema nobiliare esercitava la sua egemonia culturale era quello della chiesa.
In sostanza, la chiesa si muoveva all’interno di un orizzonte che era fondamentalmente cosmopolita, ovvero idealmente universale ma che aveva a nemico l’universale concreto dello Stato.
Già in contrapposizione con questa tendenza, durante la riforma protestante e nelle guerre di religione, i monarchi volevano sottomettere tutti i vescovi alla volontà del sovrano. Questo era fondamentale per avere un’unità di potere di natura territoriale, che nelle condizioni dell’epoca serviva a favorire l’ascesa della borghesia. Da questo punto di vista, la classe intellettuale italiana, e in modo particolare la chiesa, rispondeva più al papa che non allo Stato: ogni vescovo non si sentiva funzionario dello Stato, ma dipendeva dal papato. Ecco cosa caratterizzava la visione di tipo cosmopolita: una visione universale che concretamente corrisponde a un potere locale.
Non c'è un esercizio generale del potere che è quello che contraddistingue lo Stato moderno e all’interno dello Stato moderno le classi e la lotta di classe.
Rispetto alla questione dello stato nazionale e al suo complesso rapporto con l’internazionalismo si è fatto cenno a come, nel dopoguerra, nei paesi del terzo mondo come la Corea del Sud oppure il Vietnam del Sud, quando la lotta di classe diventava più forte, i governi delle classi dirigenti avessero impoverito il paese pur di mantenere i rapporti sociali preesistenti, anche con l’aiuto delle potenze straniere; il caso del Cile è fondamentalmente emblematico.
Per questo motivo bisogna essere internazionalisti, cioè, sostenere ideologicamente e attraverso iniziative pratiche tutti i paesi aggrediti dall’imperialismo.
Rispetto all’imperialismo, il docente ha esposto come la borghesia abbia il suo centro nel paese più sviluppato, all’interno del quale, cioè, si concentra il massimo dello sviluppo del capitale produttivo e finanziario. Nel nostro caso quel paese sono gli Stati Uniti che, sebbene in fase di decadenza, rappresentano sempre il principale Stato che detiene il controllo finanziario e industriale, soprattutto sul piano militare, e che non vuole cedere di fronte a una prospettiva di cambiamento. Naturalmente il problema degli Usa non è solo di carattere economico, ma anche politico: l’emancipazione di alcuni paesi, o l’emergere di nuove potenze antagoniste, può rappresentare un modello da imitare.
Il dibattito si sposta quindi in un’altra direzione quando dal pubblico si fa riferimento a come oggi si metta al centro non il concetto di classe, bensì il concetto di nazione: ci si chiede come si sia arrivati al ritorno di un nazionalismo così becero, che allo stesso tempo, con dei tratti populisti delle concezioni sovraniste, illusoriamente riprende anche questioni classiche della “sinistra”.
La questione è essenzialmente legata a due fenomeni, un primo aspetto culturale e un secondo aspetto, più importante, di natura politica.
Quello di natura politica è che, tornando agli argomenti della lezione, l’Unione Europea è stata compiutamente costituita con la caduta dell’Unione Sovietica e di conseguenza con l’estinzione in Italia del Partito comunista, cioè di un partito comunista di massa.
Quindi l’opzione comunista, in un certo senso, l’opzione della trasformazione del potere da parte di un partito rivoluzionario, è stata completamente messa da parte e non è esistita alla barbarie neoliberista una concreta alternativa, dando spazio alle destre. Tant’è che il grosso del Partito comunista ha aderito pienamente al progetto dell’Unione Europea, che, come progetto di restaurazione capitalistica, ha utilizzato in maniera fortissima il tema di diritti umani: dell’universalismo, del cosmopolitismo, generando anche confusione tra cosmopolitismo e internazionalismo. A queste considerazioni si sono succedute varie opinioni e punti di vista che seguono il proprio filone di interpretazione data.
Non sono mancate nel dibattito reminiscenze di una storia politica italiana passata, nonché uno studio della situazione creatasi sotto il cosiddetto “Governo del cambiamento”.
Questi sono stati in sintesi i molti punti discussi in questo denso quinto incontro del corso sul marxismo. Vi aspettiamo a gennaio, dopo le feste, per continuare assieme le lezioni del corso. Ricordiamo che per informazioni è possibile contattare noi del Gruppo Giovani de “La Città Futura” su Instagram, in prossimità della data della prossima lezione creeremo anche un evento Facebook dalla nostra pagina, che trovate qui.
Note:
[1] Dal Manifesto del Partito Comunista, p. 10 dell’edizione indicata.