Un bel film contro la xenofobia

L'altro volto della speranza è un film che prende coraggiosamente di petto i pregiudizi razziali seppur in un’ottica interclassista.


Un bel film contro la xenofobia Credits: https://s3-eu-west-1.amazonaws.com/enabbaladi/arabic/wp-content/uploads/2017/02/the-other-side-of-hope.jpg

L'altro volto della speranza – di Aki Kaurismäki, Finlandia 2017, valutazione 7 – è un film coraggioso. Prende di petto la xenofobia costantemente alimentata dalla classe dominante con il fine di indirizzare la rabbia e il disagio sociale, prodotti dall’alienante società capitalista, nella direzione di una fratricida lotta fra poveri. In tal modo si alimentano gli istinti più bassi di chi ha creduto al mito meritocratico della società liberista, andando incontro a un quasi inevitabile fallimento, che non produce, in mancanza di un partito comunista all’altezza del suo compito storico, lo sviluppo della coscienza di classe. Non potendo, prigionieri di una logica individualista e in assenza di un principe moderno, affrontare i poteri forti, artefici della crisi cinicamente sfruttata per schiacciare i ceti subalterni, si finisce vigliaccamente per sfogarsi sui più deboli. In tal modo un proletariato costantemente minacciato, dalla precarietà, di precipitare nel sottoproletariato, e un ceto medio inesorabilmente condannato alla tendenziale proletarizzazione, reagiscono sfogando la loro frustrazione sui più deboli. Così laddove è fortunatamente divenuto difficile sfogare il proprio fallimento sugli obiettivi tradizionali, le donne, i bambini, gli ebrei, la frustrazione viene convogliata dall’ideologia dominante, al servizio delle classi dominanti, verso il nuovo capro espiatorio, l’emigrato. Nella logica del divide et impera, funzionale a difendere i privilegi sempre più irrazionali delle classi dominanti, anche fra gli immigrati si tendono a discriminare i più deboli, ossia quelli costretti a fuggire da paesi islamici. Questi ultimi appaiono i più adatti a svolgere, nell’immaginario distorto prodotto dai mezzi di dis-informazione di massa, il ruolo dei moderni untori, in quanto additati a quinte colonne del nuovo nemico, il radicalismo islamico, funzionale a mantenere unito in una logica interclassista l’occidente. In tal modo ampi strati di subalterni, in assenza di una forza politica in grado di organizzarli in funzione dell’affermazione di un modo di produzione maggiormente razionale e progressivo, finiscono per accettare la degradazione, funzionale alla classe dominante, a plebe moderna, perdendo così l’unica speranza di poter superare la propria condizione di oppressione. La formazione di un ceto ancora più oppresso, i moderni schiavi, fa perdere ai subalterni autoctoni il ruolo storico di poter divenire la classe rivoluzionaria che, emancipando se stessa emanciperà il resto della società, dal momento che non ha più nulla da perdere oltre alle proprie catene, visto che si considera privilegiata nei confronti degli immigrati, tanto più se provenienti da paesi islamici.

Nel film vengono smontati molti dei pregiudizi che hanno prodotto la legenda nera dei nuovi untori e del nuovo nemico del nostro stile di vita, dei nostri valori e della civiltà tout court. In primo luogo il presunto untore diviene il protagonista del film, involontariamente l’eroe in cui il pubblico tende a identificarsi, superando così quel mancato riconoscimento alla base di ogni forma di pregiudizio razziale. Ciò non produce però quella completa immedesimazione che fa perdere allo spettatore i confini fra la rappresentazione estetica e la realtà, passivizzando e anestetizzando il pubblico al punto da poterlo portare a identificarsi persino con i suoi peggiori nemici. Il protagonista è non solo un “eroe” per caso, ma non ha alcuna ambizione a esserlo, intuendo che aveva ragione il Galileo brechtiano a sostenere: “Felice il paese, che non ha bisogno di eroi”.

Proprio in un tale paese il nostro eroe, suo malgrado, credeva di vivere in un paese laico e tollerante dove vi era la possibilità di vivere in pace, lavorando. Certo, si potrebbe obiettare, che non si trattava certo del migliore dei mondi possibili, che la vita che conduceva in relativa serenità con la propria famiglia non lo portasse al di là del grado più basso della vita spirituale, quella che Hegel nella Fenomenologia definiva dello spirito animale, ossia non ancora consapevole di sé. D’altra parte sono proprio le successive tragedie che lo hanno costretto, suo malgrado, a divenire un eroe, che non possono che portare a idealizzare la precedente condizione.

Tanto più che il protagonista, come buona parte dei profughi siriani, sono piuttosto vittime del radicalismo islamico, sfruttato abilmente dalle forze oscurantiste del mondo musulmano e dall’imperialismo transnazionale per devastare e disgregare uno degli ultimi residui di quel terzo mondo, divenuto il reale principale nemico del primo mondo dopo la sconfitta del secondo mondo, ovvero del blocco sovietico.

Così il protagonista del film, si trova un giorno privo della propria casa e con la sua famiglia in buona parte sterminata a causa di una guerra di cui, anche colpevolmente, non coglie il senso, limitandosi a costatarne l’irrazionalità. Emerge qui uno dei limiti piccolo borghesi di Kaurismaki, un regista indubbiamente geniale avendo dato vita a uno stile personalissimo, che sulle questioni internazionali non riesce ad andare al di là del sano buon senso che lo porta a condannare la guerra in quanto irrazionale, ma ad assumere un’attitudine agnostica che porta a non distinguere la contraddizione fondamentale – il ruolo nefasto delle forze reazionarie islamiste e delle conservatrici imperialiste – e le contraddizioni secondarie, ovvero i limiti borghesi del governo Assad e del suo alleato russo. Anzi lo spirito animale di cui è prigioniero il protagonista lo porta a non interessarsi a comprendere chi è l’artefice principale della catastrofe che lo ha colpito, finendo così nella notte in cui tutte le vacche diventano nere a rendere impossibile la distinzione fra aggrediti e aggressori. In tal modo, limitandosi ai tragici effetti della guerra, per il disinteresse a risalirne alle cause, il protagonista dimostra, ancora suo malgrado, che ognuno è comunque in ultima istanza responsabile del proprio destino, al di là della retorica cattolica e reazionaria dei civili sempre vittime innocenti. Innocente è solo una pietra e, spesso le anime belle, nel loro agnosticismo piccolo-borghese, risultano nel loro conservatore ed egoista rifiuto a prender parte, a essere complici del tragico destino da cui finiscono comunque per essere travolti.

Il regista sottolinea un altro aspetto decisivo, che indica nella direzione di una auspicabile catarsi della tragedia dell’immigrazione e, più in generale dell’alienante società capitalista, aprendo in nome della solidarietà fra le vittime, immigrate e autoctone, la prospettiva di un possibile superamento delle attuali contraddizioni. Notevole è anche il fatto che il film mostri quanto tale attitudine solidaristica sia utile e funzionale al benessere collettivo degli oppressi dal sistema. Alla sua base non vi è la cattiva coscienza del borghese che si impietosisce della tragica condizione dell’immigrato, né l’attitudine caritatevole del religioso, che ha bisogno della miseria, per potersi conquistare il paradiso attraverso l’elemosina e altre buone azioni. Nel film abbiamo degli uomini realisticamente mossi da interessi in primo luogo personali, ma che intuiscono come la guerra fra poveri sia irrazionale e per loro controproducente e distruttiva e, dunque, nel loro stesso interesse operano in un’ottica solidarista. Altrettanto notevole è il fatto che il regista non ci porti a fare della tragica condizione dell’immigrato l’oggetto della nostra commiserazione, ma a riconoscervi una condizione di oppressione che dovrebbe accumunare le vittime dell’irrazionalità del modo capitalistico di produzione nella sua fase avanzata di sviluppo.

La disumana irrazionalità dell’attuale modo di produzione capitalistico appare nel modo più realistico proprio nella “civilissima” Finlandia, dove le istituzioni accolgono i profughi con un’attitudine estremamente corretta, anni luce distante dai campi di concentramento in cui vengono rinchiusi in altri paesi, a detta dello stesso papa. Ciò nonostante anche qui, con la fine della guerra fredda, si è ormai affermato il pensiero unico dominante, in cui ciò che conta è solo il rilancio del processo di accumulazione capitalistico. Ecco che allora persino i profughi fuggiti dall’inferno di Aleppo, non vengono riconosciuti come rifugiati politici, in modo da costringerli a vivere in “clandestinità”, ossia a ridursi nella condizione di nuovi schiavi, soggetti a condizioni ancora più dure di sfruttamento. Per cui dietro la correttezza formale abbiamo una legge inflessibile, assolutamente disumana, che condanna senza appello, ma poi è sostanzialmente disinteressata a rimandare indietro i profughi, soprattutto se in condizione di lavoro.

Quest’ultimo aspetto appare nel film per il suo impianto realistico di fondo, nonostante le parvenze post-moderne e nonostante le illusioni piccolo-borgesi dello stesso regista che, in quanto artista serio e impegnato ha l’onestà di presentare un quadro il più possibile realista della situazione, anche al di là dei limiti di classe della sua personale visione del mondo. Da cui, tuttavia, emergono gli aspetti più deboli e discutibili del film, ossia le illusioni in una collaborazione interclassista fra proletari, persino nella condizione di immigrati clandestini, e padroncini. D’altra parte è ancora l’indole realista a mostrare non solo l’improbabilità di tale condizione di collaborazionismo inter-classista, visto la formazione assolutamente a-tipica del personaggio che interpreta il ruolo del padroncino, ma anche il fatto che un piccolo borghese, che non è in grado di interpretare al meglio il suo ruolo sociale di sfruttatore della forza-lavoro altrui, non può che essere costantemente sul punto di fallire.

Notevole è anche il fatto che il regista sia del tutto privo del male radicale che affligge tanti piccolo-borghesi, ossia l’attitudine nazionalista. Al contrario Kaurismaki è, nel corso della sua opera, un critico inflessibile dei limiti della società scandinava in cui vive, ideologicamente idealizzata da tanti revisionisti, sostenitori del riformismo. Anzi, generalmente, quando si limita a parlare della propria società Kaurismaki accentua a tal punto il contrasto fra realtà e razionalità, sviluppa a tal punto una dialettica puramente negativa, da presentare uno scenario desolante, privo di qualsiasi speranza. Proprio la carenza di spirito dell’utopia, che in certi film precedenti lo portava a cadere nell’attitudine grottesca propria di certo postmoderno in voga in particolare nel nostro paese, è in buona parte arginata, proprio per l’incontro con il radicalmente altro da sé, rappresentato dal profugo mediorientale. Solo da questo incontro sembra poter rinascere quel principio speranza indispensabile a rompere la gabbia delle tenebre del quotidiano.

06/05/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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