Mai come oggi la crisi strutturale del modo di produzione capitalistico è conclamata. Mai come ora la grande borghesia è costretta a governare sempre più grazie al monopolio della violenza legalizzata e sempre meno grazie alla capacità di egemonia. Mai come adesso le tendenze a un bonapartismo regressivo e a nuove forme di fascismi si rafforzano sul piano nazionale e internazionale. Mai come ai nostri giorni la tendenza necessaria alla guerra imperialista dei paesi a capitalismo avanzato appare evidente. D’altra parte, mai come in questo momento domina l’ideologia neoliberista del there is no alternative. Tutte le reali alternative storiche e le poche che, ancora oggi, provano a resistere sono sistematicamente demonizzate dall’ideologia dominante.
Se è vero che, mai come ora, sono maturate le condizioni oggettive che renderebbero possibile porre all’ordine del giorno il programma massimo e affrontare la questione della transizione al socialismo, è altrettanto vero che sul piano nazionale e anche internazionale latitano, come mai prima, le condizioni soggettive, cioè sembrano essersi perse le tracce stesse di una soggettività rivoluzionaria. Perciò mai come nei nostri tempi oscuri sarebbe attuale e, anzi, impellente la questione dell’unità dei comunisti. Quest’ultima è questione urgente e improcrastinabile, a prescindere dal fatto se vi siano le condizioni oggettive per la ricostruzione di un reale partito comunista e, persino, a prescindere dalla possibilità che i comunisti possano operare come frazione all’interno di un partito riformista, socialdemocratico, laburista di massa.
Solo i comunisti rappresentano una reale alternativa alla crisi intrinseca e strutturale del modo di produzione capitalista. Solo i comunisti possono rappresentare una reale forza rivoluzionaria. Naturalmente non si tratta di una questione nominalistica, ci sono forze che si definiscono comuniste ma hanno prospettive riformiste e forze che non si definiscono comuniste e lo sono di fatto.
D’altra parte, al giorno d’oggi, in particolare nel nostro paese, la prospettiva dell’unità dei comunisti appare quantomai utopistica. La maggior parte delle forze comuniste, di nome e di fatto, sostanzialmente la avversano. In effetti c’è un rapporto dialettico di relazione reciproca fra marginalizzazione dei comunisti e settarismo, minoritarismo. Paradossalmente, più si è incapaci di essere effettivamente comunisti, cioè avanguardie riconosciute dei movimenti di lotta delle classi subalterne, e più si pretende di essere i soli legittimi rappresentanti del Comunismo.
Ancora più paradossalmente, più i comunisti appaiono incapaci di incidere in modo significativo nel contesto storico e più tendono a dividersi a priori sulla base di appartenenze storiche e divisioni dei comunisti che oggi dovrebbero essere consegnate a un passato, da indagare in modo scientifico e non fazioso, ideologico. Senza contare che proprio quelle divisioni storiche hanno prodotto e ingenerato i principali problemi con cui devono fare i conti ancora oggi le forze comuniste.
In effetti, si dimentica troppo spesso come i più importanti dirigenti comunisti, come Lenin sul piano internazionale e Gramsci sul piano occidentale, abbiano sempre considerato come il bene più grande difendere l’unità del partito, dinanzi alle forze centrifughe che avrebbero, di lì a poco, prodotto delle scissioni e delle lacerazioni che ancora oggi il movimento comunista non è riuscito a superare dialetticamente. Già la prima grande separazione fra trotskisti e stalinisti non ha fatto bene né al movimento comunista in generale, ma neanche alle opposte fazioni in particolare, in quanto hanno entrambe accentuato i loro opposti unilateralismi. Ciò non poteva che favorire lo sviluppo tanto del revisionismo di destra, quanto dell’opportunismo di sinistra, i due più perniciosi mali che a tutt’oggi affliggono il movimento comunista internazionale.
Anche sul piano nazionale, la rottura nel Partito Comunista d’Italia fra la “sinistra” e il centro-destra non ha portato nulla di buono al movimento rivoluzionario in generale e alle due contrapposte unilateralità in particolare. Tale divisione ha finito con il riprodurre la contrapposizione fra il cavaliere della virtù, tendente all’opportunismo di sinistra e l’uomo del corso del mondo più incline al revisionismo di destra.
Tali opposte unilateralità si sono ancora più venute complicando con la rottura sul piano internazionale prima fra stalinisti e titoisti e, poi, fra stalinisti e kruscioviani, per non parlare della ancora più accentuata frammentazione della sinistra comunista. Infine, a complicare ancora più le cose, c’è stata la rottura tra filosovietici e filocinesi. Da queste ulteriori scissioni sarebbero poi sorte ulteriori lacerazioni fra i filosovietici e i comunisti europei, poi fra gorbacioviani e antigorbacioviani. Anche i filocinesi si sono poi divisi tra i filoalbanesi e i sostenitori della Cina denghista. Per non parlare di tutte le scissioni che hanno separato la sinistra comunista, anche all’interno dei troskisti e dei bordighisti.
Per quanto è vero che lo spirito di scissione sia essenziale per i comunisti, per quanto è certo che, come osservava Hegel, una visione del mondo scindendosi dimostra di essere viva, ciò non toglie che tutte queste lacerazioni hanno indebolito in modo sempre più significativo le forze comuniste. Da questo punto di vista non si possono che, almeno per certi aspetti, rimpiangere il venire meno della Prima e della Seconda Internazionale. Non si può che ammirare la reale unità dei comunisti nei partiti, difesi a spada tratta, da Lenin e Gramsci. Persino il venir meno della Terza Internazionale e tutte le scissioni che hanno funestato la Quarta non possono che essere considerate con disappunto.
Presumibilmente avremmo oggi quanto mai bisogno, sul piano non solo internazionale, ma anche sul piano nazionale di un fronte ampio, come era inizialmente la Prima Internazionale, dove si incontravano e scontravano tutte le forze che, in qualche modo, miravano a rappresentare le classi subalterne, dai democratici radicali, agli anarchici, da ogni forma di socialismo utopista al socialismo scientifico. Allo stesso modo avremmo bisogno di partiti comunisti come quelli di Lenin e di Gramsci, dove ancora tutte le diverse tendenze del comunismo convivevano insieme, pur battendosi con grande ardore per l’egemonia sulla base del centralismo democratico. Anzi, vista l’attuale debolezza dei comunisti, anche riuniti, non sarebbe nemmeno male nell’attuale situazione, avere un Partito Operaio Socialdemocratico dei lavoratori russi com’era quello in cui si era sviluppata la frazione bolscevica, né il Partito Socialista Italiano al cui interno si era formata la frazione dell’Ordine Nuovo.
In tutti i casi in queste forme di ricomposizione dei comunisti, dei socialisti, dei socialdemocratici – nel senso che davano al termine Marx e Lenin, cioè il necessario accordo (in fasi di debolezza) di socialisti e (sinceri) democratici – come nella più ampia ricostruzione di un fronte comune unitario – come poteva essere la Prima Internazionale in cui avevano provato a convivere, sia pure conflittualmente, tutte le diverse organizzazioni e tendenze volte a rappresentare le classi subalterne – sarebbe determinante la questione del centralismo democratico. Si tratta però, anche in questo caso, di dover recuperare il concetto di centralismo democratico che avevano Lenin e Gramsci, da non confondere con le sue deformazioni nel centralismo organico o burocratico. Il problema più diffuso a tal proposito è che spesso, in particolare nel nostro paese, si rivendica a parole il centralismo democratico, ma generalmente in maniera inconsapevole, lo si confonde con il centralismo organico e burocratico. Si tratta dello stesso tragico errore che porta oggi spesso, in particolare nel nostro paese, a parlare di unità dei comunisti, anche se si pratica semplicemente, anche in buona fede, una tattica per portare nella propria micro-organizzazione una componente di fuoriusciti da un’altra piccola organizzazione. In questi casi magari, quando la componente di fuoriusciti è consistente, si arriva anche a modificare il nome originario della propria organizzazione, senza però cambiarla nella sostanza. In altri casi si rilancia l’unità dei comunisti, ma escludendo a priori, di fatto, tutta la “sinistra” comunista, dai trotskisti, ai maoisti ai bordighisti.
Tornando alla questione del centralismo democratico, quest’ultimo, come era concepito da Lenin e da Gramsci, consente la piena espressione di tutte le posizioni nel dibattito interno, che debbono essere libere di organizzarsi come meglio credono per portare avanti la naturale e salutare lotta per l’egemonia. L’unico limite al dibattito democratico è il centralismo, che impone di arrivare a una sintesi il più possibile avanzata e condivisa che, una volta assunta, deve valere come linea da seguire per tutti, sino a che non si decide di rimetterla in discussione. Questo centralismo è indispensabile, in quanto se ci si limitasse soltanto alla lotta per l’egemonia, senza sforzarsi di giungere a sintesi, non ci sarebbe più l’intellettuale collettivo e si ridurrebbe a un caffè filosofico. Allo stesso modo, se una volta giunti a sintesi, ognuno continuasse ad andare per conto proprio, intervenendo per esempio in pubblico a nome dell’organizzazione, ma portando avanti una linea contrastante con quella della sintesi, verrebbe meno l’intellettuale collettivo.
D’altra parte, però, qualsiasi forma di censura preventiva del dissenso interno e anche della sua strutturazione deve essere bandita, altrimenti non sarebbe possibile ricostruire né un’organizzazione come la Prima Internazionale, il Partito Operaio Socialdemocratico Russo, il Partito Socialista Italiano, ma nemmeno i partiti comunisti di Gramsci e Lenin. Anche sul piano dell’unità dei comunisti, per non parlare di fronti anticapitalisti e antiliberisti più ampi, bisognerebbe consentire un reale centralismo democratico, senza però scadere nell’intergruppi.
Un altro pericolo da evitare, per non impedire a priori la possibilità stessa di una reale unità fra comunisti, consiste nel non assolutizzare il proprio identitarismo sul piano storico e internazionale. Come è evidente, ci sono delle profonde differenze di vedute fra comunisti sia sul piano dell’analisi storica, che dell’analisi internazionale. Non si tratta, però, di ostacoli insormontabili, se ci si sforza di uscire dalla logica dell’intergruppi, se si accetta il centralismo democratico e la necessità di arrivare a sintesi.