Lo confesso: quella sera da “Checco er carrettiere” a Trastevere avrei voluto sedermi anch'io a quel tavolo con Robert De Niro, Sergio Leone, Muhammad Alì, Gabriel Garcia Marquez e naturalmente con lui: Gianni Minà.
Non è per cedere alla retorica corrente dei giornali di questi giorni che un omaggio a Minà inizia proprio con quella foto rievocata da tutti: è che proprio quell'immagine contiene una delle principali qualità dell'uomo da omaggiare.
Minà è stato un eccellente giornalista e, ancor più, un grande narratore perché queste qualità si fondavano sulla sua capacità di incontrare e accogliere le multiformi umanità dei suoi interlocutori: praticava un giornalismo totale senza generi e senza confini, mescolando senza agitarli sport, politica, cultura, spettacolo (cinema soprattutto).
Ma questa tendenza onnivora non era priva di punti di riferimento: il punto di vista era sempre quello dal basso, quello dei subalterni, dei sud del mondo. Non per niente è stato il direttore della rivista “Latinoamericana e tutti i sud del mondo”, non per niente è stato amico di Cuba socialista e non per niente ha dedicato parte rilevante della sua opera scritta e cine-televisiva alle storie del Che Guevara, di Fidel e dell'insurrezione zapatista in Messico.
E sulla bara la maglia del Grande Torino
Perché ci è tanto caro Gianni?
Cinicamente si potrebbe dire perché non c'è più e il vuoto richiama sempre la precedente presenza: è vero, è anche così. Ma nel caso di Minà è molto facile individuare cosa ci manca nel contrasto con cosa invece permane.
In un flusso informativo pervaso di acquiescenza con il potere, di superficialità e di evidente doppiezza, in cui per i deboli non c'è mai spazio, in cui si celebrano le vite e le morti di “grandi” personaggi che in realtà non hanno mai fatto nulla, prodotto nulla, se non immagini per rotocalchi, stereotipi e formule consunte, il “nostro” si è andato a cercare per il mondo i personaggi veri e scomodi, che la Storia l'hanno fatta sul serio.
L'intervista di sedici ore con Fidel Castro, l'articolo ripubblicato recentemente su “Il Manifesto” in cui ricorda questa figura di comandante che ha fatto una rivoluzione senza poi perderla e lasciando un Paese migliore di quando lo aveva preso, non avvengono negli anni '60 e '70 quando l'egemonia culturale della sinistra consentiva queste imprese con facilità, ma negli anni '80 e nei decenni seguenti. E queste aperture sulla realtà dei conflitti sociali e sui loro protagonisti, credo che Minà l'abbia in qualche modo pagata, slittando progressivamente alla periferia del circo mediatico che pure aveva frequentato.
D'altra parte una delle sue ultime fatiche letterarie era intitolata “Politicamente scorretto, un giornalista fuori dal coro”.
I suoi intervistati erano divisivi, ribelli, scorretti, anche un po' cattivi (anche se per ragioni buonissime). Non dovevano piacere a tutti: Fidel, Diego Armando Maradona, Alì.
D'altra parte, sulla sua bara, durante la camera ardente, in Campidoglio, era stesa la maglia granata a rammentare la sua passione calcistica per gli invincibili campioni del Grande Torino, schiantatosi a Superga nel 1949 e che lui aveva potuto ammirare.
Dunque, un amore nato al tramonto degli anni '40 e protrattosi sino a oggi per un club lontano dalle celebrazioni mediatiche e dalle vittorie.
Fidel, Diego, Alì
Eccoli gli eroi di Minà che si chiamino Fidel, Diego Armando Maradona, Muhammad Alì o anche Pietro Mennea, sono tutta gente partita dal basso, con il sudore e la fatica di chi deve lavorare per campare, ma che coltiva comunque un sogno, spesso un sogno che riguarda anche tutti gli altri. Così è stato nel caso di Fidel Castro, a cui Minà è riuscito a strappare brani di intimità (il rapporto con il Che ad esempio) senza scadere nel culto della Storia vista dal buco della serratura come va di moda oggi; così nelle interviste a Maradona (personaggio tragico sospeso tra il riscatto sociale e il destino proletario che lo ha perseguitato nonostante il successo) e ad Alì (combattente sul ring, ma anche al di fuori grazie al coraggio di rifiutarsi di servire l'imperialismo Usa contro il popolo del Vietnam).
In tutte queste storie Minà ha saputo trasmettere ai suoi lettori il nesso pulsante di vita che collega la parabola e le gesta straordinarie dell'eroe individuale al destino del suo popolo, di cui in fondo l'eroe sportivo o politico è un prodotto, un'incarnazione. Si tratta in fondo di un giornalismo “brechtiano” unico, per quel che ne so, almeno nel panorama nazionale. Una modalità di narrazione che andrebbe ripresa per costruire nuovamente un vero immaginario popolare da contrapporre al fast-food culturale che ci si fa ingurgitare ogni giorno.
Come Jack London, Gianni ha raccontato storie di pugili, di calciatori, di rivoluzionari, parlando sempre la lingua dei popoli. Anche lo sport, in fondo, era un modo per abbattere le barriere di classe, accorciare le distanze e consentire alle masse di capire meglio la natura dei problemi sociali che vivevano (e vivono tuttora); dal razzismo, agli effetti mutilatori del liberismo sulla vita dei poveri in termini di salute, cultura, lavoro, dignità.
Coraggio accompagnato dal sorriso: Argentina 1978
Infine, nella foto della serata “trasteverina” ognuno dei protagonisti è ritratto con la sua personalità peculiare. Minà, il capo inclinato sorride...mi piace pensare che quel sorriso mite abbia accompagnato anche gli atti di coraggio del giornalista “politicamente scorretto” che fu tale anche da cronista sportivo, inviato ai Mondiali di calcio del 1978 in Argentina. Nel pieno della dittatura di Videla e Massera, Minà pose domande sui desaparecidos nel corso di una conferenza stampa all'ammiraglio Carlos Alberto Lacoste, tra gli organizzatori della manifestazione sportiva, e finì per essere espulso dal Paese.
Per Gianni il giornalismo, anche quello sportivo, era sempre il racconto di altro: della vita, delle lotte, delle speranze e delle meraviglie dei subordinati.
Ciao Gianni, salutaci i migliori...