La palese sconfitta sul piano sociale ed economico delle classi subalterne richiede delle contromisure in grado di ribaltare in prospettiva i rapporti di forza non solo sul piano economico sindacale e sociale, ma altresì sul piano politico. Da questo punto di vista non è più rinviabile l’esigenza di ricostruire in questo paese un blocco storico in grado di offrire un’alternativa di sinistra alle logiche liberiste che la crisi impone al modo di produzione capitalistico.
di Renato Caputo
Il processo costituente di una sinistra di alternativa, o di una sinistra tout court – considerata la mutazione genetica del Pd in un partito liberista – ha subito un’ennesima allarmante battuta di arresto. L’assenza di una significativa forza di sinistra di alternativa o semplicemente di sinistra fa sì che l’unica reale opposizione politica al governo liberista e neodemocristiano del Pd sia costituito da forze populiste da quelle più moderate di Grillo fino a quelle più radicali di Salvini e dei fascisti. È, dunque, indispensabile e non rinviabile la costituente di una opposizione di sinistra, che offra un’alternativa in senso socialista alle politiche neoliberiste di austerity, espressione dei poteri forti nazionali e internazionali, del governo Renzi-Alfano. Proprio perciò è altrettanto irrinunciabile e non ulteriormente procrastinabile una riflessione franca sui motivi di questo ennesimo e assolutamente incomprensibile, agli occhi dei ceti sociali subalterni, rinvio.
Per quanto apparentemente irrazionale questo ulteriore rinvio alle calende greche della costituente di una alternativa di sinistra ha una sua intrinseca logica, per quanto perversa possa apparire. Tale decisiva questione per la salvaguardia del salario, sempre più miserevole, e di orari e ritmi di lavoro sempre più massacranti e precari, continua a essere demandata a un ceto politico costituito in larga parte da generali privi di esercito o, peggio, con truppe mercenarie, frutto di logiche clientelari legate al terzo settore e al lavoro interinale appaltato alle cooperative. Tanto più che la possibilità stessa per tale ceto politico di intercettare un voto di opinione di sinistra, legato a logiche identitarie o espressione di un voto di protesta, è nei fatti, come dimostrano i sondaggi e le ormai decennali sconfitte, piuttosto modesta. Tale ceto politico è non solo segnato da troppe ripetute sconfitte, ma è in parte preponderante costituito da personale politico orfano dei precedenti governi social-liberisti di “centro-sinistra” o delle analoghe giunte che hanno governato o ancora governano, portando avanti tali politiche, le principali città di questo paese. Dal punto di vista del consenso di opinione e del voto di protesta effetti indubbiamente negativi avranno la sovraesposizione a favore del governo Tsipras che, per governare senza provocare rotture con le logiche liberiste dell’Unione europea, ha tradito non solo le aspettative delle classi subalterne greche, ma anche le aspettative di quei ceti sociali che in Europa hanno dato credito a quelle forze politiche che, come Podemos, avevano indicato nella via di Syriza, ossia nel governo della crisi, l’unica alternativa possibile.
Le promesse tradite, le speranze frustrate da tali nefaste esperienze di governo hanno fatto sì che nella maggior parte dei casi le classi subalterne siano sprofondate nell’attitudine anti-politica o populista ampiamente programmata e sovvenzionata dal pensiero unico dominante. L’ideologia liberista, in quanto tale anti-democratica, tende a demandare le funzioni di governo a tecnici e funzionari al servizio del pensiero unico dominante, nei fatti naturalizzato come l’unico mondo possibile, ritenendo lo stesso suffragio universale un necessario instrumentum regni da rendere il più inoffensivo possibile, a partire dalle alchimie elettorali volte a impedire ogni forma di reale rappresentanza del dissenso.
Purtroppo dal momento che il pensiero dominante è sempre il pensiero delle classi dominanti, in assenza di un partito di opposizione, capace di elaborare e contrapporre a esso una visione del mondo radicalmente autonoma e antagonista, anche buona parte dei movimenti sociali sembrano aver dimenticato che democrazia non può che essere partecipazione diretta delle masse popolari alla vita politica. Così una parte non trascurabile di tali movimenti non è stata in grado di uscire dalla logica corporativa, economicista della propria singola vertenza, scambiando la parte per il tutto e finendo o per cadere nella trappola liberista dell’anti-politica o per cedere alle sirene altrettanto liberiste della delega ai professionisti della politica. In questa logica, visto lo scarso potere e la scarsa incisività del ceto politico della sinistra di governo, tali movimenti hanno finito per trattare la propria rappresentanza politica prima direttamente con il Pd, ora viste le esperienze negative del passato, con forze populiste come il M5S.
A rendere ancora più difficile la ricostruzione del blocco storico della sinistra di alternativa ha contribuito la logica codista assunta dal sindacato a rimorchio di dirigenti espressione del Pd. L’aver rinunciato all’opposizione alle politiche neo-corporative del sindacato a trazione Pd, per mantenere la rendita di posizione di una serie di funzionari sindacali per altro sempre più estranei alla battaglia politica, o peggio per riciclare una parte del personale politico espulso dalle istituzioni borghesi dopo la farsesca conclusione dell’ultimo governo di centro-sinistra, ha reso altrettanto impervio il compito di riconquistare la credibilità nel mondo del lavoro.
In tal modo il compito storico di ricostruire un’alternativa di sinistra al liberismo e più in generale al capitalismo in crisi, che non può più permettersi politiche keynesiane se non militari, è stato lasciato nelle mani di un ceto politico poco credibile fra le masse popolari in quanto prigioniero di una logica politicista se non elettoralista. In effetti invece di lavorare per favorire lo sviluppo di un autunno caldo – quanto mai indispensabile di fronte a un governo sempre più corrotto in quanto espressione dei poteri forti, che ha spazzato via lo Statuto dei lavoratori, ha generalizzato il precariato, ha dato campo libero alla devastazione dell’ambiente, ha demolito i fondamenti democratici della scuola pubblica, ha fatto carta straccia della stessa Costituzione – questo ceto politico si è chiuso in infinite trattative sulla forma del contenitore politico, che nascondono le differenze troppo profonde a livello tattico e strategico, che emergono impietosamente alla prima scadenza elettorale.
In questi casi emerge subito la profonda differenza fra chi mira a costruire un’alternativa politica al Pd, in quanto lo ritiene ormai geneticamente modificato, e chi crede che sia possibile recuperarlo come forza di alternativa una volta sconfitta la linea renziana del Partito della nazione. In quest’ultima ottica, programmaticamente neo-ulivista, diviene indispensabile giocare di sponda con l’opposizione interna, cercando di far emergere le residue contraddizioni presenti in tale partito, repentinamente transitato da un richiamo, più formale che reale al comunismo, all’appello al nazionalismo. Non a caso gli esponenti di questa componente del ceto politico impegnato nella costituente della sinistra più o meno di alternativa sono stati impegnati sino a poco tempo fa nel Pd o sono stati fino a non molto tempo fa in procinto di entrarci, sempre nell’ottica di sfidare all’interno di tale partito l’egemonia renziana, salvo poi accodarcisi come hanno fatto sia gli ex esponenti della sinistra interna, sia gli esponenti di Sel transitati in tale partito.
Al di là dell’incapacità di portare avanti tale battaglia per l’egemonia, resta il fatto che questa componente, che rischia di essere predominante se la costituente della sinistra sarà demandata a incontri di vertice fra esponenti del ceto politico, è indisponibile a qualsiasi auto-critica rispetto alle nefaste esperienze dei governi di “centro-sinistra” a livello nazionale e locale, che favorendo sempre le classi dominanti hanno estraniato ancora di più dalla vita politica le masse popolari, rendendo la democrazia un mero flatus vocis.
D’altra parte anche chi mira a offrire una alternativa sul piano elettorale al Pd, cercando di tesaurizzare il naturale voto di protesta dei ceti subalterni e dello stesso ceto medio pesantemente colpito dalle politiche liberiste di tale partito, spesso lo fa in un’ottica populista, mirante a elaborare una variante di sinistra della politica demagogica del M5S. Infine lo stesso ceto politico presente al tavolo verticistico della costituente consapevole di dover contrastare entrambe queste nefaste linee politiche non pare immune dall’ideologia del governismo, alla base della deriva politicista ed elettoralista che ha sino a ora fatto fallire la costituente.
Si tratta di una antica e perniciosa ideologia di derivazione hegeliana, che si è fatta strada all’interno del movimento operaio grazie principalmente a Lassalle non a caso costante obiettivo delle critiche di Marx ed Engels. Tale ideologia che costituisce l’opposto speculare dell’altrettanto perniciosa ideologia proudhoniana, che contrappone il sociale al politico, è oggi particolarmente in voga in pensatori come Laclau che hanno largo seguito non solo in America latina, ma anche in Europa, in partiti come Podemos. Secondo tale concezione idealistica lo Stato e le sue istituzioni sarebbero neutrali e sarebbero, dunque, una volta occupate da politici non corrotti e non sedotti dalle sirene liberiste, il migliore strumento per dominare o per regolare le leve dell’economia non più in funzione degli interessi di pochi, ma del bene comune.
Tali idealistiche illusioni non a caso sono state sempre contrastate da Marx, sin dalle sue primissime opere giovanili, perché dimenticano che tali istituzioni sono funzionali alla logica privatistica predominante nella società civile, dal momento che i mezzi di produzione e di riproduzione della forza lavoro sono sempre più proprietà monopolistica di una ristretta minoranza. Questa concezione non tiene inoltre conto del perverso meccanismo del debito che rende tutte le istituzioni statali ostaggio dei creditori privati, che rendono impossibile qualsiasi politica economica realmente autonoma. Tanto più che tale visione idealista non tiene minimamente conto della struttura economica, ossia dell’attuale fase di crisi che, a causa della tendenziale caduta del tasso di profitto, rende sempre più difficile anche una politica meramente redistributiva, che non metta in questione la proprietà privata dei mezzi di produzione e la conseguente necessità per la forza lavoro di alienarsi in una attività lavorativa sempre più estraniante.
Infine tale prospettiva neo-hegeliana dimentica che nella fase di sviluppo transnazionale del capitalismo, gli Stati nazionali cancellano di fatto ogni simulacro di sovranità popolare, demandando in misura sempre maggiore le decisioni di politica economica a istituzioni internazionali dirette da tecnici al servizio dei poteri forti, naturalizzati come le logiche oggettive e immutabili dell’economia. Non a caso il personale politico – a cui i movimenti sociali, prigionieri di una logica proudhoniana, hanno inconsapevolmente demandato tale decisivo compito costituente – è a tal punto ostaggio di tale ideologia governista, da ritenere le stesse istituzioni dell’Unione europea degli strumenti neutri di governo dell’economia. Per cui sarebbe possibile per via elettoralista, in quanto rappresentanti di movimenti sociali da estendere su scala europea, prendere le redini dell’Unione europea e porla al servizio degli interessi dei subalterni. Dinanzi a un così ingenuo idealismo rischiano di apparire più realistiche agli occhi dei subalterni le prospettive reazionarie nazionaliste agitate dalle forze populiste.