Per i comunisti l’Ue e l’euro hanno a che fare più con il concetto di classe e di lotta di classe che con quello di patria e di nazione. Eppure, spesso i comunisti sono schiacciati tra due posizioni opposte: il cosiddetto sovranismo, che per i media è diventato sinonimo di nazionalismo, e l’europeismo, che per alcuni è diventato sinonimo di internazionalismo.
A sinistra, anche fra la sinistra cosiddetta radicale, troviamo due gruppi di posizioni sull’Europa.
Il primo è costituito da quelli per i quali l’Ue è un fatto positivo. Tra questi ci sono quelli secondo i quali l’Europa unita sancisce la fine della nazione e dello Stato. La fine della nazione sarebbe positiva perché il concetto di nazione sarebbe di per sé borghese e responsabile delle due sanguinose guerre mondiali. Nel giudizio positivo sulla fine dello Stato, invece, possiamo ravvisare una radice anarchica, secondo cui lo Stato è di per sé il male da eliminare. Infine, ci sono quelli per i quali l’Ue rappresenta la possibilità di internazionalizzare le lotte, raggiungendo il capitale al suo livello sovranazionale e dando così maggiore forza al conflitto di classe.
Il secondo gruppo è composto da chi, pur considerando negativamente la Ue e devastante l’euro, pensa che sia impossibile e controproducente uscirne. Tra questi ci sono i fautori di quella che chiamerei “la teoria del tubetto di dentifricio”: così come è impossibile rimettere dentro il tubetto il dentifricio una volta che lo si è fatto uscire, è impossibile uscire dall’euro e dalla Ue una volta che vi si è entrati. Un’altra teoria è quella dei rapporti di forza: certo sarebbe bene uscire dall’Europa, ma, dal momento che i rapporti di forza sono a nostro sfavore, l’uscita sarebbe gestita da forze di destra e quindi andrebbe contro gli interessi dei lavoratori.
Entrambi questi gruppi di posizioni sono sbagliati, perché generano o illusioni o pratiche politiche controproducenti. Il primo gruppo si riduce a un accodamento alle forze socialdemocratiche e liberaldemocratiche - che cercano di dipingere chi vuole uscire dall’Ue e dall’euro come sovranista e quindi come nazionalista o peggio -, e a un cedimento opportunista al capitale, che ha nell’Europa la sua leva principale per imporre la disciplina di classe. Il secondo gruppo, invece, determina l’immobilismo politico, e con esso l’incapacità di assumere una posizione adeguata alla fase storica.
La questione è proprio questa: capire la centralità dell’integrazione economica e valutaria europea nella fase attuale dell’accumulazione di capitale e dello scontro di classe in Italia e in Europa. Non esiste un capitalismo in astratto ma sempre un capitalismo concreto e storicamente determinato. L’euro e in generale i Trattati europei si collegano alla fase in cui mondializzazione e tendenza alla crisi (caduta tendenziale del saggio di profitto) si combinano. L’integrazione europea permette di riorganizzare la formazione economico-sociale europea a due livelli: quello economico e quello politico.
A livello economico, l’integrazione europea permette di rimettere in funzione quelle che Marx chiama “cause antagonistiche” alla tendenza alla caduta del saggio di profitto: aumento dello sfruttamento della forza lavoro, riduzione del salario al di sotto del suo valore, aumento dell’esercito industriale di riserva, esportazioni di capitale e di merci. Inoltre, consente di riorganizzare il sistema di produzione liberandosi della “pletora delle imprese”, come la chiamava Marx, cioè delle imprese non competitive e ridondanti, facilitando la concentrazione e la centralizzazione di capitale e creando così i campioni industriali europei da contrapporre alle imprese giganti statunitensi, giapponesi, cinesi, ecc.
Ma la riorganizzazione a livello economico non poteva avvenire senza una riorganizzazione a livello politico e istituzionale. Al contrario di quello che credono alcuni anche a sinistra, lo Stato non viene eliminato ma rimodulato, riducendo non la sovranità nazionale ma la sovranità democratica e popolare. Sono solo alcune funzioni, quelle relative alle decisioni di politica economica e monetaria, che vengono delegate agli organismi sovranazionali (Bce, Commissione europea, Consiglio europeo). In questo modo, i parlamenti, e attraverso di essi le classi subalterne, vengono aggirati. Altre funzioni, quelle relative al monopolio della forza (forze armate, polizia, ecc.) e alla politica estera rimangono in capo allo Stato nazionale e anzi vengono rafforzate. Ne è esempio il Trattato di Aquisgrana, che rafforza il ruolo egemonico degli stati nazionali di Francia e Germania all’interno dell’Europa e stabilisce tra di loro un’alleanza a livello internazionale, con specifico riferimento all’Africa, area in cui durante gli ultimi anni l’attivismo militare e politico francese è incrementato.
A questo proposito, va precisato lo stretto legame esistente tra l’integrazione europea e la ripresa dell’imperialismo, inteso come fase economica e politica del capitalismo. L’euro e i trattati riducono il mercato e la domanda interna, accentuando la tendenza delle imprese ad andare all’estero per conquistare mercati di sbocco alle merci e ai capitali e approvvigionarsi di materie prime a buon mercato. In questo modo, anche a causa dell’aumento delle divergenze economiche tra Paesi europei, si accentua la competizione tra imprese, e di conseguenza tra Stati, che spalleggiano i propri capitali “nazionali”. L’aggressione da parte della Francia contro la Libia, diretta a soppiantare le imprese italiane nello sfruttamento delle risorse minerarie e nei ricchi appalti, ne è l’esempio più eclatante. Le polemiche recenti tra il governo francese e quello italiano su varie questioni (Gilet gialli, franco CFA) e la proxy war in atto in Libia tra fazioni sostenute da blocchi di Paesi diversi sono un indicatore della strutturale rivalità tra Italia e Francia in Nord Africa. È, quindi, importante evitare letture superficiali che relegano l’Italia addirittura al ruolo di Paese semi-coloniale, definendone la natura imperialista, per quanto condizionata dai suoi limiti strutturali/storici e da quelli del suo apparato statale.
L’integrazione europea porta con sé lo sconvolgimento degli assetti politici e in particolare del bipolarismo/bipartitismo classico che si fondava sull’alternanza tra un centro-destra e un centro-sinistra ugualmente europeisti. Bisogna, quindi, approfondire l’analisi delle nuove forze politiche e dei blocchi sociali che intorno ad esse si stanno formando. Il partito al momento più forte è la Lega. Questo partito sta cercando di formare un blocco sociale neo-corporativo che metta insieme settori della banca e della grande impresa, “statale” e non, con la piccola e media impresa, il lavoro autonomo, le partite iva, e pezzi di classe operaia del Nord. Ma non è solo al Nord che la Lega guarda, bensì anche al Sud e al Centro dove la nuova Lega “nazionale” di Salvini ha ormai sfondato.
Per i comunisti si tratta di lavorare per la ricomposizione dei vari settori in cui è spezzettata la classe lavoratrice salariata, evitando anche di commettere gli errori fatti subito dopo la Prima guerra mondiale, quando ampi settori di classi subalterne (in specie i settori intermedi) furono abbandonati alla propaganda fascista. Questo ovviamente non vuol dire che siamo alle porte del fascismo. Oggi, senza con questo voler sottovalutare il riemergere di gruppi dichiaratamente fascisti, sono l’Ue e l’euro a garantire al capitale la neutralizzazione della sovranità democratica e popolare senza bisogno di fare ricorso alla violenza aperta e diretta del fascismo.
Da quanto abbiamo detto risulta la necessità per i comunisti di definire, oltre che un punto di vista condiviso sull’integrazione europea e sulla natura della formazione economico-sociale italiana, un programma e una proposta complessivi per la fase in atto. Al centro di questa proposta non può che esserci l’uscita dalla Ue e dall’euro (oltre che dalla Nato). Però, c’è bisogno di definire anche altri due aspetti, visto che per i comunisti l’uscita dall’euro è una condizione necessaria ma non sufficiente alla ripresa dell’iniziativa anticapitalistica. Il primo è il come uscire, affrontando sul piano teorico le problematiche insite nell’uscita.
Infatti, è significativo dei timori legati soprattutto alla svalutazione dei risparmi e del potere d’acquisto dei salari e delle pensioni, se i favorevoli all’uscita dall’euro, per quanto sensibilmente aumentati negli ultimi anni, rimangono paradossalmente inferiori a quelli favorevoli all’uscita dalla Ue, sebbene quest’ultima comporti inevitabilmente l’abbandono dell’euro. L’uscita dall’Ue consiste nella definizione di una serie di misure di carattere generale, relative al ruolo della Banca d’Italia, e, più in generale, alla definizione delle modalità di un rinnovato intervento dello Stato nell’economia non solo come regolatore ma direttamente come produttore di beni e servizi, a partire dalle ripubblicizzazioni delle imprese monopolistiche o oligopolistiche privatizzate.
In definitiva, per i comunisti l’uscita dall’euro e dalla Ue non può che essere inserita in un percorso diretto verso il socialismo, rientrando così nella soluzione del problema, secondo la definizione di Gramsci, della “Rivoluzione in Occidente”, cioè di come intraprendere un percorso rivoluzionario nei Paesi avanzati del centro dell’economia mondiale, dove i rapporti di produzione capitalistici hanno radici più profonde e la resilienza del potere dello Stato del capitale è maggiore. Per questa ragione e proprio perché qui il terreno è più difficile, è ancora più importante costruire e mantenere l’autonomia di classe, prima ideologica e poi politica, a partire dal tema dell’Europa.
Nota:
Articolo redatto sulla base dell’intervento tenuto alla conferenza “I comunisti e l’Unione Europea” tenutasi sabato 11 maggio a Roma.