Gli ultimi venti mesi li abbiamo tutti trascorsi a fare i conti con le fatiche e le preoccupazioni dettate dall’emergenza sanitaria. La sindemia da Covid-19 ha colpito duramente la vita di ciascuno e ha scoperchiato il vaso di Pandora di un sistema sanitario assolutamente impreparato a fronteggiare la situazione, perché indebolito da decenni di politiche liberiste. La crisi economica già in atto si è acuita in modo rapido e i costi sono stati fatti ricadere sulla classe lavoratrice, mentre a essere tutelati sono stati solo gli interessi economici del grande capitale. La malagestione della sindemia ha infatti amplificato le disuguaglianze economiche e sociali preesistenti, come è stato evidente nella distribuzione dei contagi e nella possibilità di accesso alle cure, nonché nell’accesso a fondamentali diritti come quello allo studio, messo a dura prova da una didattica a distanza improvvisata e di certo non fruibile da parte di tutti gli studenti.
Se a pagare la crisi sono stati in primo luogo i lavoratori, fra questi le donne hanno pagato il prezzo più alto, e la disuguaglianza di genere si è manifestata in tutta la sua drammaticità.
Nel 2020 hanno perso il lavoro 444mila persone; di queste il 70% sono donne, come ha rilevato un articolo dello scorso febbraio [1]. Un altro resoconto dello stesso periodo riporta che “al culmine della prima ondata epidemica, quasi mezzo milione di donne hanno perso il posto di lavoro e la maggior parte di esse – 323mila – avevano contratti temporanei” [2]. Una parte della spiegazione sta nel fatto che i settori più penalizzati dalla situazione venutasi a creare con la sindemia sono stati come è noto quello alberghiero, la ristorazione e la vendita al dettaglio, tutti caratterizzati da una forte componente femminile. Vanno però considerati anche altri fattori. Le donne che non hanno perso il lavoro, già meno tutelate nei diritti e penalizzate nella retribuzione, con i lockdown e le misure restrittive dovute all’emergenza sanitaria, in particolare la chiusura delle scuole e l’attivazione della didattica a distanza, contemporaneamente all’introduzione dello smart working, sono state schiacciate da un carico massacrante di impegni sovrapposti, di lavoro, di cura, familiari… tutti concentrati nello stesso spazio e nello stesso tempo.
Il confinamento ha contribuito anche all’aumentare dei casi di violenza domestica e abusi, sempre subiti dalle donne.
Ma appunto, come è mistificatoria la lettura rovesciata che la crisi sia stata scatenata dall’esplosione della sindemia, in quanto è quest’ultima a essere frutto del modo di produzione capitalistico e del suo abuso sulla natura, così non si può certo affermare che prima di questa crisi la condizione delle donne non fosse problematica.
Partiamo dalla nostra Costituzione: l’articolo 37 stabilisce che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. Tralasciamo il fatto che questa “speciale protezione”, pensata ai tempi della stesura della legge fondamentale del nostro Stato per via di una “essenziale funzione familiare” attribuita allora alle donne – ma che non dovrebbe essere data per scontata nell’oggi – si sia progressivamente trasformata in una discriminazione istituzionalizzata, per concentrarci su come la prima frase del testo sia platealmente e innegabilmente disattesa, nel nostro paese e in molti altri.
Da ben prima della sindemia, le donne subiscono “un doppio freno: la segregazione occupazionale in lavori più dequalificati e mal retribuiti e il cosiddetto «soffitto di cristallo», cioè l’insieme delle barriere sociali, culturali e familiari che impedisce loro di fare carriera” [3].
Dai dati Istat del 2020, si evince che il divario di genere nei tassi di occupazione in Italia è di 18 punti, su una media europea di 10. Benché la popolazione femminile abbia un livello di istruzione mediamente più elevato rispetto a quella maschile, nella transizione scuola-lavoro le giovani donne sono marcatamente svantaggiate nel trovare un’occupazione di livello adeguato al proprio percorso formativo e alle proprie competenze, e questo avviene per tutti i titoli di studio. Solo il 65% delle donne svolge mansioni di ricerca e sviluppo, contro il 74,4% degli uomini. Le donne con dottorato di ricerca hanno un inquadramento occupazionale maggiormente precario dei loro colleghi maschi [4], e il divario di genere nel livello di reddito netto mensile percepito a sei anni dal conseguimento del titolo è di oltre 300 euro. In generale, nel settore dell’istruzione le donne si fermano più spesso ai gradi più bassi dell’insegnamento, mentre la docenza universitaria resta appannaggio prevalentemente maschile. Allo stesso modo, il divario di genere è ampio nei settori industriale e agricolo e in quello delle attività professionali, mentre le professioni impiegatizie e quelle addette alle vendite e ai servizi rappresentano lo sbocco per il 31,4% delle laureate di primo livello che lavorano: quasi il doppio della stessa percentuale relativa ai laureati, i quali invece trovano sbocchi consoni al loro livello di istruzione in oltre il 79% dei casi.
A tutti i livelli occupazionali, si riscontra un ampio divario salariale di genere. Fra le donne è maggiore la quota di dipendenti con bassa paga, ossia con una retribuzione oraria inferiore ai 2/3 di quella mediana, soprattutto nel commercio, nella ristorazione e nei servizi alle famiglie. Il Gender Pay Gap, un indicatore europeo della differenza percentuale tra la retribuzione lorda oraria di popolazione femminile e maschile, nel 2017 evidenziava che nella Ue le retribuzioni femminili erano in media inferiori del 16% rispetto a quelle maschili. Anche fra i laureati, dove ci si aspetterebbero meno differenze, il reddito netto mensile degli uomini è maggiore di 233 e 275 euro, rispettivamente per lauree di primo e secondo livello, rispetto a quello delle donne.
Un dato di cui tener conto è che le donne con orario lavorativo part-time sono un terzo delle lavoratrici, contro l’8,7% degli uomini. L’orario ridotto viene scelto da più del doppio di laureate rispetto ai laureati, e questo penalizza le donne anche – ma non solo – in termini di reddito. Come tutte le forme di “flessibilità”, mascherate da innovazioni che permettono la conciliazione dei tempi di vita e tempi di lavoro, anche il part-time è sempre più un espediente a vantaggio delle imprese e del loro profitto, e infatti è involontario nella maggior parte dei casi [5]. Nei casi in cui l’orario ridotto – o la disoccupazione – è una scelta della lavoratrice, ciò è dovuto prevalentemente ai carichi di lavoro familiare, soprattutto la cura dei figli. In Italia, l’11,1% delle donne che ha avuto almeno un figlio non ha mai lavorato. Anche se la difficoltà di conciliare vita lavorativa e familiare è segnalata in egual misura da padri e madri, sono queste ultime a modificare in misura largamente maggiore il loro assetto lavorativo, sostanzialmente riducendo l’orario di lavoro. La percentuale di mamme di bambini nella fascia di età 0-2 che ha ridotto il proprio orario di lavoro è il 44,9% contro il 13% dei papà [6]. Per conciliare il lavoro retribuito con quello invisibile non retribuito – di cura dei figli, degli anziani, della casa – le donne “scelgono” – non si tratta certo di una libera scelta – lavori a orario ridotto o flessibile che quasi sempre non sono di alto livello, e si accontentano dunque di mansioni al di sotto delle loro competenze e capacità, e di uno stipendio più basso.
Caroline Criado Perez afferma nel suo libro Invisibili [7]: “non esiste una «donna non lavoratrice»: esiste tutt’al più una donna che non viene pagata per il suo lavoro” [8]. L’autrice riporta i dati del McKinsey Global Institute (2015) secondo cui “in tutto il mondo il 75% del lavoro non retribuito è svolto dalle donne” e “la quantità di tempo dedicata ogni giorno al lavoro gratuito va dalle tre alle sei ore, contro una media maschile che varia da trenta minuti a due ore” [9]. L’autrice, nell’analizzare i dati dei diversi paesi – lo scarto è presente dappertutto, varia solo la misura –, rileva per esempio che “in Gran Bretagna l’ufficio statistico nazionale ha accertato che la popolazione maschile può contare su cinque ore settimanali di tempo libero in più” [10] e “in Italia il 61% del lavoro femminile è lavoro non retribuito, mentre la quota maschile si ferma al 23%” [11].
Il congedo di maternità retribuito è garantito in quasi tutti i paesi industrializzati (fanno eccezione gli Stati Uniti), ma l’entità di retribuzione e durata del congedo è quasi sempre inadeguata [12].
Ovunque le donne, rileva Criado Perez, si accollano la maggior parte del lavoro di cura delle persone non autosufficienti, soprattutto degli aspetti più emotivamente faticosi e scomodi, e diversi studi hanno evidenziato addirittura che le donne si riprendono peggio degli uomini dopo interventi chirurgici perché una volta a casa non possono fare una buona convalescenza, dovendosi immediatamente prendere cura di altre persone, per cui le single hanno maggiore successo nella guarigione. Persino il sistema pensionistico penalizza le donne, in tre modi diversi secondo l’autrice: “perché devono sottrarre al lavoro retribuito una parte di tempo da dedicare a quello non retribuito, perché vanno in pensione prima (in alcuni paesi e settori lavorativi è ancora un obbligo di legge) e perché vivono più a lungo” [13].
Invisibili fornisce anche un’interessante analisi di come il sistema meritocratico, disegnato su modello maschile, penalizzi le donne, e di come persino nel tema della sicurezza e salute nei luoghi di lavoro i criteri siano discriminatori. Un esempio: “abbiamo un’idea precisa di quale debba essere il peso massimo e come si possa sollevarlo [nel settore edile] … ma … a volte una badante o un’addetta alle pulizie solleva, in un solo turno di lavoro, carichi più pesanti di quelli che competono a un operaio edile o a un muratore” [14]. Insomma, tutti gli standard normativi e ogni aspetto organizzativo e logistico del lavoro sono stati pensati per le vite degli uomini (addirittura l’autrice riporta come anche la temperatura degli ambienti di lavoro sia tarata sul metabolismo di un individuo maschio di 70 chili).
La crisi economica che perdura da molti anni ha penalizzato ulteriormente le donne, in termini di precarietà, sovraistruzione, reddito e crescita del part-time involontario. Il sempre più feroce attacco alla classe subalterna da parte del capitale in crisi, attuato fra le altre cose con una forte precarizzazione del lavoro su scala globale, colpisce le donne in modo particolarmente pesante, perché gli orari atipici e discontinui acuiscono le difficoltà nel conciliare il loro “doppio lavoro”, e indebolisce ulteriormente i loro diritti.
La ristrutturazione capitalistica postpandemica non rappresenta una rottura rispetto alla connotazione patriarcale dell’organizzazione del lavoro, anzi, l’offensiva sulle donne ne risulta ulteriormente esacerbata, come giustamente colto nelle tesi preparatorie dell’assemblea nazionale di Non Una Di Meno dello scorso ottobre [15]. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, dietro la maschera retorica di equità ecologica, sociale e di genere, ha in realtà perseguito lo stesso modello liberista, portando avanti una politica di enormi sacrifici per la classe subalterna e sempre maggiore accumulazione del capitale in poche mani. L’acuirsi delle disuguaglianze ha penalizzato le donne e tutti i soggetti più emarginati. A fronte di politiche di sostegno alla famiglia meramente palliative, oltre che basate su stereotipi di genere inaccettabili, come una certa idea univoca di famiglia eteropatriarcale – assistiamo a una grande crisi regressiva anche sul piano culturale –, la crisi economica è stata scaricata sul mondo del lavoro, come si è visto con lo sblocco dei licenziamenti.
La sindemia ha fatto emergere la profonda contraddizione fra la produzione di mercato e la riproduzione sociale, contraddizione strutturale al capitalismo e da cui le donne sono investite in pieno, nel loro ruolo forzoso e non riconosciuto di “cura”. La radice dell’oppressione di genere è dunque la stessa di quella dell’oppressione di classe: un modo di produrre e di vivere – il modo di produzione capitalista – che se ha segnato progressi economici e politici enormi rispetto alla società feudale – come avevano capito i giovani Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista [16] –, ha tuttavia solo mutato la forma dell’oppressione e dello sfruttamento, senza superarli.
Il marxismo, nel portare alla luce la genesi materialista dell’oppressione della donna, in relazione ai rapporti di produzione borghese e alla divisione in classi della società, si è occupato ampiamente della condizione femminile e ha cercato di comprendere perché anche nella società borghese la donna sia vittima di un doppio tipo di oppressione. “Il borghese vede nella propria moglie un semplice strumento di riproduzione. Egli sente che gli strumenti di produzione debbono essere sfruttati in comune e, naturalmente, non può fare a meno di pensare che la sorte dell’uso in comune colpirà anche le donne” [17]. Ne La condizione della classe operaia in Inghilterra di Engels e nel Marx maturo del Capitale si trovano importanti passaggi in cui, oltre a denunciare il feroce supersfruttamento di donne e bambini nelle fabbriche della rivoluzione industriale, parallelo alle spregevoli condizioni di vita domestiche, si analizza il ruolo importante del lavoro gratuito delle donne dedicato alla riproduzione della forza-lavoro.
Questo ruolo riproduttivo, che consente di abbatterne i costi e quindi di estrarre un maggiore plusvalore, è uno dei motivi per cui, oltre un secolo e mezzo dopo, la condizione femminile è ancora caratterizzata da un elevato svantaggio sia economico sia per quanto riguarda le condizioni di vita in tutti i suoi aspetti. Dall’osservazione del ruolo subalterno riservato alle donne nel sistema capitalistico e patriarcale deriva la consapevolezza che la loro oppressione non possa prescindere dal superamento della società divisa in classi.
Il nodo centrale della questione di genere rimane lo sfruttamento. “La contraddizione di genere … non annulla la contraddizione di classe e non si contrappone ad essa, in quanto si intrecciano e si cumulano: le donne lavoratrici subiscono sia la dominazione di classe, sia l’oppressione di genere” afferma Maria Carla Baroni in Donne e politica ieri oggi e domani: uniamoci per essere libere tutte [18]. Nello stesso volume Ada Donno rimarca la dimensione globale della sfida dell’emancipazione di genere, che “non può essere affrontata solo dalle donne comuniste, né solo dalle donne italiane o europee, poiché vaste e ineludibili sono le interconnessioni con le complesse vicende della lotta globale di classe e antipatriarcale nel nostro paese e nel mondo” [19].
La lotta per l’emancipazione delle donne non può dunque essere che globale – dal punto di vista geografico, tematico e sociale – e non può che far parte di una lotta generale di liberazione del genere umano da un sistema economico spietato che alla logica del profitto sottomette la natura e l’essere umano – il suo corpo, le sue caratteristiche cognitive, le sue forze e le sue debolezze, i suoi bisogni – trasformandoli in merce.
Il compito delle comuniste e dei comunisti è quello di ricompattare la classe degli sfruttati, oggi drammaticamente frammentata per la progressiva ristrutturazione del mondo del lavoro, e portarla alla coscienza di sé e a un’unità di lotta in cui convergano le singole rivendicazioni antisessiste, antirazziste e sociali, ciascuna utile contro l'ingranaggio di un unico meccanismo da scardinare.
Note:
[1] Luigi Mastrodonato su “wired.it” del 2.2.21.
[2] Giorgio Nardinocchi su “Liberetà” del marzo 2021.
[3] Ibidem.
[4] Nel 2012, su 100 donne dottoresse di ricerca, il 41,6% ha stipulato un contratto a tempo determinato, il 22,2% svolge un lavoro di collaborazione, il 15,2% riceve un assegno di ricerca o una borsa di studio, mentre la composizione per i dottori maschi è rispettivamente 48,9%, 18,5% e 12,6% (fonte Istat 2020).
[5] Secondo i dati Istat, nel 2019 il part-time involontario rappresentava fra le lavoratrici l’82% dei casi.
[6] Al di là della ripartizione iniqua del lavoro familiare, un aspetto da non sottovalutare è l’inadeguatezza numerica dei servizi educativi per la prima infanzia, che sul territorio italiano coprono appena il 24% dei bambini sotto i tre anni, e sono pubblici solo per la metà (da cui l’ingente spesa per le famiglie e la ricaduta sulle scelte lavorative delle madri).
[7] Caroline Criado Perez, Invisibili, Einaudi, Torino 2020.
[8] Ivi, p. 98.
[9] Ibidem.
[10] Ivi, p. 100.
[11] Ivi, p. 101.
[12] https://oecd.org/els/soc/PF2_1_Parental_leave_systems.pdf
[13] Caroline Criado Perez, op. cit., p. 107.
[14] Ivi, p. 165.
[16] “Ha lacerato senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l’uomo ai suoi superiori naturali”, ponendo tutti gli uomini e le donne su un terreno di parità. Ha distrutto un vecchio mondo, l’organizzazione corporativa della produzione, e anche le “condizioni di vita patriarcali” in K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, in “Opere scelte”, Editori Riunite, 1966, p. 294.
[17] Ivi, p. 310.
[18] Donne e politica ieri oggi e domani: uniamoci per essere libere tutte (trascrizione degli atti del convegno dell’Adoc dell’ottobre 2020), La Città del Sole, Napoli/Potenza 2021, p. 30.
[19] Ivi, p. 160.