Raggiungiamo al telefono Stefano Fassina, presidente dell'associazione Patria e Costituzione, ex candidato sindaco a Roma, economista di formazione e analista politico, spesso coinvolto nei vari talk show televisivi. Fassina, le elezioni di giugno si iscrivono in un quadro geopolitico-economico di grande cambiamento rispetto al trentennio che ci lasciamo alle spalle.
Il c.d. centrosinistra in larga misura ha un problema di analisi dei dati della realtà, nel senso che in larghissima maggioranza quell'area rimane aggrappata ad una visione retorica, idealista, poco sostanziata dai fatti di quella che è al fondo l'Unione Europea. Innanzitutto, c’è da dire che, dopo la l'aggressione della Russia all'Ucraina, in termini geopolitici ci sono almeno due linee diverse nell'Unione Europea: la linea degli Stati che confinano con la Russia e con l'Ucraina, e cioè gli Stati dell'ex patto di Varsavia, e una linea molto diversa da questa che è rappresentata dalla linea della cosiddetta vecchia Europa. Questo è un dato di realtà imprescindibile dal quale si deve muovere per capire dove andare, ma ritengo sostanzialmente impraticabile, velleitario, privo di una dimensione storica, la prospettiva di integrare i 27 Paesi dell’UE verso una soggettività politica. Ritengo che vada fatta un'operazione diversa che riconosca tale strutturale divergenza di prospettive e si concentri sugli Stati della cosiddetta Vecchia Europa che hanno una minore disomogeneità e possono trovare le ragioni per una convergenza politica più stretta; del resto è l'approccio che hanno raccomandato i 12 esperti (sei nominati dal governo francese, sei nominati dal governo tedesco) che a settembre scorso hanno prodotto un documento in cui si individua una Europa a cerchi concentrici che, da una dimensione politico-diplomatica a 36 - quindi anche con quelli che dovrebbero essere i nuovi membri -, passa all'Europa a 27, che è quella attuale che sostanzialmente condivide soltanto il mercato, sino ad un'Europa invece più stretta, più omogenea, ossia quella dei Paesi della Vecchia Europa che può fare un salto in avanti in termini di integrazione politica su una dimensione però intergovernativa. Questo è l'altro punto importante che a mio avviso è completamente trascurato dal dibattito. Quando, come settimana scorsa, vedo che si riunisce un pezzo importante del mondo progressista e insiste sulla formula degli Stati Uniti d'Europa sul modello degli Stati Uniti d'America, trovo davvero surreale la discussione: vuol dire che non si è capita la fase in cui siamo e che sostanzialmente non si faranno passi avanti.
Questa Europa stenta anche ad uscire dall'idea che a creare l'omogeneità sono la moneta e i bilanci; non riesce a costruire un suo futuro basato su un'idea, su una visione. Anche questo diventa importante, è un fattore centrale nel ragionamento.
Assolutamente sì. Nell'ultimo trentennio, sin dalle origini, ha prevalso un approccio tecnocratico-funzionalista, per cui si faceva il mercato, si faceva la moneta e poi arrivavano le istituzioni politiche. Non si è tenuto conto della Storia e dei popoli, delle differenze e delle radici che questi popoli hanno e della densità che continuano ad avere le nazioni. Quindi, secondo questa agenda funzionalista che poi è stata di fatto strumentale all'affermazione dell’impianto liberista, si è fatto il mercato unico, si è fatta la moneta. Gli Stati nazionali sono risultati ulteriormente indeboliti in termini di strumenti di governo dell'economia. E quegli strumenti di governo dell'economia che sono stati indeboliti a livello nazionale non si sono ricostituiti a livello europeo. Quindi a me pare che, soprattutto a sinistra - la destra, per per ragioni di cromosomi, di codice genetico, di istinto, ha un attaccamento nazionale che diventa nazionalista- la sinistra, dicevo, che non ha per fortuna questo attaccamento ma ha una visione internazionalista, è stata imbambolata nella retorica degli Stati Uniti d'Europa. Prigioniera di un mercato che poi è uno strumento efficacissimo di svalutazione del lavoro.
Dal momento in cui non si è riusciti a fare l'Europa dei popoli nel nome di questo internazionalismo che è un patrimonio ancora forte della sinistra, quindi bisogna tornare a un'idea di unità tra Stati - sicuramente minore rispetto a quella attuale - però più sicura dal punto di vista dell'identità?
Non penso minore…Oltre la dimensione retorica oggi c'è davvero poco altro, c'è mercato unico e davvero poco altro.
Più realistica, quindi?
Sì, più realistica. Abbiamo bisogno di politiche pubbliche europee. Ma si illude e non tiene conto della storia (e neanche della cronaca) chi pensa di arrivare a fare politiche pubbliche europee attraverso la costruzione del popolo europeo e degli Stati Uniti d'Europa. Quella strada non porta da nessuna parte e ritarda e ostacola invece la costruzione di quelle politiche pubbliche che si possono fare soltanto attraverso una dimensione intergovernativa e in un ambito di relativa omogeneità geopolitica e geostrategica. Se la politica estera comune la si vuole fare a 27, temo che alla fine si verificherà, nel migliore dei casi, una paralisi e, nella peggiore, un disastro. Però, manca una discussione sul terreno politico che abbia un minimo di riferimento con la realtà. La destra, che non ha alcun particolare interesse a costruire una dimensione sovranazionale, approfitta di questo mentre la sinistra, invece, deve avere questo interesse perché è fondamentale che ci siano politiche pubbliche sovranazionali. Però rimane prigioniera di un paradigma, come dicevo prima, degli Stati Uniti d'Europa che non porta da nessuna parte.
Tuttavia c'è da superare il frangente che è molto pericoloso. L'alternativa davanti è o un futuro (per quanto complicato) dell'Europa, oppure la frammentazione: la pace può essere un elemento che ridia uno stimolo ad andare al voto, a credere ancora in questa Europa?
Spero che ci sia partecipazione al voto, una politicizzazione del voto per le elezioni europee. Nel mio piccolo mi adopero affinché ci sia, tuttavia c’è il problema che le grandi famiglie politiche popolari e socialiste sulle grandi questioni in realtà sono piuttosto allineate, e lo dico con grande sofferenza. Sul binomio pace-guerra hanno sostanzialmente le stesse posizioni, sulle questioni economiche, hanno sostanzialmente le stesse posizioni. Quindi vedo tutte le difficoltà a cogliere le grandi opzioni di fondo da parte di un elettore, di una elettrice, che non sia particolarmente dentro la discussione. Auspico che da parte della famiglia socialista ci sia uno scatto in termini di distinzione sulle grandi questioni, ma se noi ci soffermiamo, per esempio, sulla discussione che c'è stata sulla cosiddetta revisione del Patto di stabilità e crescita notiamo come sia piuttosto deprimente l'omogeneità che si è manifestata in merito. Oppure - rispetto al discorso precedente sul posizionamento a seguito del conflitto russo-ucraino - si può notare come in questo caso ci sia, sì, stata una distinzione di posizioni ma solamente fra Stati ed essa non ha riguardato le grandi famiglie politiche. Quindi vedo su questo una difficoltà mentre siamo in un passaggio in cui ci vorrebbe un'opzione forte - e condivisa almeno dai principali Paesi europei - per la pace, per un ruolo politico dell'Unione Europea di mediazione e costruzione di un ordine internazionale multilaterale, per una Europa non percepita come una succursale della Casa Bianca ma che sia, invece, in grado di costruirsi nel rapporto con la Russia e con la Cina una prospettiva diversa dallo scontro tra blocchi, che è esiziale in una fase nella quale abbiamo bisogno di cooperazione innanzitutto per la sopravvivenza della specie e lo sviluppo economico.
L'Italia arriva a questa scadenza non in ottime condizioni. Si potrebbero fare tanti discorsi sul consenso al governo Meloni, ma noi siamo abituati a guardare più ai fatti strutturali. Un tema tra tutti: il lavoro, il movimento sindacale. Un sindacato che per forza di cose cerca di stare in due settori in modo diverso, quello politico e quello sindacale. Però, di fatto, rimane un mondo del lavoro fortemente frammentato che non riesce a trovare la strada dell'unità, che sarebbe la premessa indispensabile per ricostruire appunto un tessuto di rivendicazione popolare dal basso.
Sì, assolutamente. La strada della ricomposizione è necessaria. Una ricomposizione che deve guardare al lavoro con gli occhiali dell'epoca in corso: il lavoro da ricomporre nella rappresentanza sociale e politica, e anche tanto lavoro formalmente autonomo ma di fatto subordinato, tanta micro impresa che vive schiacciata da un mercato che è fatto soltanto dai soggetti dagli interessi più forti. Quindi un lavoro che sappia andare oltre i confini tradizionali in questa ricomposizione, altrimenti si rischia una deriva corporativa o di irrilevanza. Ma non c'è dubbio che questo è il punto che a mio avviso sta dentro una riflessione preliminare. Il lavoro nel ventunesimo secolo, in questa parte del mondo, può essere ancora soggetto politico - come è indicato nella nostra Costituzione all'articolo 1 nel quale è scritto che la Repubblica è fondata sul lavoro - oppure si deve pensare semplicemente come un soggetto economico, tra tanti, che prova a ritagliarsi in un gioco corporativo la sua fetta di risorse? A me pare che ci sia il rischio che venga smarrita quella che deve essere la funzione politica del lavoro e vedo questo rischio di smarrimento sia sul terreno più strettamente politico - poichè i partiti della sinistra non riconoscono più il lavoro, la rappresentanza del lavoro, come missione distintiva - che sul versante sindacale per via della sua debolezza - perché in questi trent'anni il lavoro ha subito un arretramento drammatico, gli strumenti di conflitto tradizionali accumulati durante il 900 sono stati largamente spazzati via, a cominciare dallo sciopero che è un’arma molto spuntata all'interno di mercati in cui c'è libera circolazione di capitali, merci, servizi e persone, e la delocalizzazione, in particolare, ha di fatto indebolito questo strumento. Ci sono difficoltà profonde, ma il punto è politico: vogliamo ripartire dalla soggettività politica del lavoro oppure il lavoro è appunto una dimensione prettamente economica e ci rivolgiamo genericamente ai cittadini?
Non posso non farle una domanda sull'autonomia differenziata, che è un'altra sfida politica importante, che tra l'altro finisce per accompagnare questa frammentazione dell'Europa, provocando la frammentazione dell'Italia. E’ una sfida che la sinistra deve abbracciare, superando anche certe tiepidezze che sta incontrando e che alla fine, forse, risulteranno essere nocive per l'affermazione dell'unità del Paese.
A mio avviso è il pericolo maggiore che corriamo in questo patto scellerato nella maggioranza. Tra Premierato, presidenzialismo e autonomia differenziata, sarebbe la fine sostanziale della Repubblica, si svuoterebbe di fatto la Costituzione e mi preme inoltre sottolineare un punto: i contraccolpi ci sarebbero ovviamente per il Sud, ma l'autonomia differenziata fa male anche al Nord. Nel quadro che abbiamo fatto prima, dove lo Stato nazionale riprende centralità, un'Italia che è fatta di tanti staterelli - dove anche i più grandi hanno comunque dimensioni ridicole rispetto ai grandi Stati nazionali come Germania, Francia o anche Spagna - non avendo più il controllo delle politiche fondamentali della nazione avrebbe enorme difficoltà sui tavoli internazionali. Faccio l'esempio del PNRR: se vi fosse stata l'autonomia differenziata, il Presidente del Consiglio italiano a Bruxelles avrebbe avuto qualche difficoltà a sottoscrivere i vari documenti, i vari atti, perché la stragrande maggioranza di quelle politiche, dal trasporto alle fonti di energia, alla ricerca, sarebbero state controllate completamente dalle regioni cioè da soggetti istituzionali che intorno a quei tavoli non ci sono. Per non parlare di chi deve fare impresa dal nord e deve vendere nel resto d'Italia: doversi sobbarcare l'onere amministrativo di 20 legislazioni diverse sul commercio, sull'ambiente, sul lavoro, sulle professioni, rappresenterebbero un incubo per qualunque piccola media impresa che oggi vende o produce in diverse regioni italiane. Sarebbe un incubo perché sarebbero moltiplicati per 20 tutti quegli oneri burocratici di cui ci si lamenta ogni giorno. Infine i comuni nelle regioni che ad autonomia differenziata diventerebbero sudditi del centralismo regionale, con il rischio di perdere quelle garanzie nazionali su l'uniformità nella distribuzione delle risorse per quanto riguarda la finanza pubblica; col centralismo regionale si svilupperebbe invece il completo arbitrio nel trattare con i diversi comuni.
Tutti questi argomenti sembrano lapalissiani. Diciamo che il Pd fa fatica a convincersene in maniera forte. Pensa che questa situazione possa cambiare?
Lo spero. Diciamo che vedo un gruppo dirigente più consapevole della necessità di cambiare rotta. E spero che questa consapevolezza possa portare a dei risultati perché è fondamentale. Spero che anche al Nord i gruppi dirigenti del Partito Democratico riescano a prendere parola perché finora hanno fatto davvero poco. Sembrano in difficoltà rispetto alla linea della Lega mentre, a mio avviso, piuttosto che sottrarsi allo scontro dovrebbero combattere a testa alta, provando a spiegare perché l'autonomia differenziata faccia male anche al Nord e ritagliarsi, così, un ruolo politico riconoscibile.
Grazie a Stefano Fassina.
Grazie a voi.