Il ritorno alla Legge Fornero è questione di tempo, Draghi sarà disposto a mediare su un anno ma la strada è già segnata: cancellazione della quota 100, probabili scaloni per i prossimi due anni (102 e 104) ma senza anticipare l’età pensionabile, scongiurare ogni revisione sui sistemi di calcolo dell’assegno previdenziale, chiudere il 2021 definendo gli scenari dei prossimi anni in materia di previdenza, welfare, ammortizzatori sociali e potenziando sanità e previdenza integrativa.
Il programma minimo di classe dei padroni procede a ritmi serrati, il ripristino dei licenziamenti collettivi, la palude formatasi attorno alla discussione sul salario minimo e sulle delocalizzazioni, dovrebbero indurre a qualche riflessione anche da parte degli acritici sostenitori del governo.
Le pensioni calcolate con il contributivo determinano assegni da fame, tra meno di 15 anni lo Stato dovrà fare i conti con l’impoverimento progressivo degli anziani ma nel frattempo è prioritario tornare alla Legge Fornero, come scritto dal Documento Programmatico di Bilancio inviato a Bruxelles, innalzare l’età pensionabile dal 2025 in poi per portarla, tra qualche lustro, a ridosso dei 70 anni di età.
La delusione di Cgil, Cisl e Uil è cocente perché gli scaloni previsti porterebbero l’età pensionabile a quasi gli stessi livelli della Fornero, tra quota 104 e l’attuale Legge Previdenziale l’anticipo della pensione è di soli 12 mesi.
Fatti due conti ci accorgiamo che con i due scaloni l’anticipo previdenziale riguarderebbe circa 10.500 lavoratrici e lavoratori quando i potenziali beneficiari della quota 100 nell’anno 2019 erano oltre 300 mila.
Se questi sono i numeri, e quasi certamente lo sono, Cgil, Cisl e Uil non possono raccontare ai loro iscritti di avere sostenuto il governo per ottenere l’anticipo dell’età pensionabile, se poi non hanno mosso un dito in difesa del reddito di cittadinanza o del salario minimo sociale non potranno giustificarsi con la merce di scambio tra la subalternità politica e sindacale e la firma di qualche contratto nazionale o l’allargamento degli ammortizzatori sociali che per altro viene richiesto dall’Ue attraverso meno fondi alle pensioni a vantaggio delle fasce sociali ancora in età produttiva.
Sono le politiche di austerità a imporre non solo salari da fame ma anche l’innalzamento dell’età pensionabile.
La sospensione dei vincoli europei termina già il prossimo anno, intanto si va discutendo della riforma della Ue ma nel frattempo vogliono impedire la crescita del salario diretto, indiretto (welfare) e differito (pensioni) per poi ridefinire il rapporto tra deficit e PIL e le regole finanziarie entrate in crisi con la pandemia.
Mai come in questi mesi sono stati tanto bassi i tassi d’interesse, l’aumento dei quali è questione di poche settimane, alcuni economisti (come Domenico Moro) parlano di ritorno agli avanzi primari abituali nell’Italia del pre-Covid. E sempre Moro ricorda che la realizzazione degli avanzi primari comporta che, al netto della spesa per interessi, le spese dello Stato siano inferiori alle entrate.
L’Italia negli ultimi anni ha risparmiato meno di altri Paesi europei, alcuni settori del capitalismo emergente hanno accumulato enormi fortune nei mesi pandemici e sul nostro Paese stanno calando i voraci appetiti dei fondi di investimento alla ricerca di aziende da comprare, o fondere, a basso costo offrendo liquidità di capitali che solo la finanza possiede.
Politiche di austerità magari diverse dal passato ma pur sempre di austerità, processi di ristrutturazione, scontri inter capitalistici, contrazione della dinamica salariale tout court sono gli scenari attuali: aver solo pensato (come Landini) che l’arrendevole accettazione del ripristino dei licenziamenti collettivi sarebbe stata di aiuto per una nuova riforma Previdenziale rappresenta l’ennesimo errore di valutazione e di prospettiva di quanti non sanno guardare oltre la vecchia concertazione. Il vecchio continua ad avanzare da anni senza fare i conti con le trasformazioni della realtà pensando che il solo compito del sindacato sia quello di siglare intese anche quando contro natura, come lo scambio avvenuto tra ammortizzatori sociali temporanei e posti di lavoro.